Repubblica 10.12.18
Fare i conti con il deficit di natalità
di Alessandro Rosina
C’è
un target vitale per la solidità del futuro dell’Europa, pari a 2,1,
che nessuno Stato membro da molto tempo rispetta. Non si tratta del
valore del rapporto deficit/Pil ma del numero medio di figli per donna.
Tale target corrisponde all’equilibrato rimpiazzo generazionale. La
discesa sistematica della fecondità sotto 2,1 si situa tra fine anni
Sessanta e inizio anni Ottanta nell’Europa occidentale (la Svezia nel
1969, la Spagna nel 1981).
Nell’Europa orientale il crollo della
fecondità arriva invece un po’ più tardi, dopo lo sgretolamento del
blocco sovietico. Oggi il valore medio dell’Unione è pari a 1,6. Una
fecondità così bassa porta le generazioni dei figli a ridursi
progressivamente rispetto a quelle dei genitori. La conseguenza maggiore
non è tanto la diminuzione della popolazione ma un’alterazione
nell’impianto strutturale demografico con il peso dei più anziani che
diventa preponderante sui più giovani.
In un Paese che mantiene
una fecondità vicina al rimpiazzo generazionale, l’aumento della
longevità fa conquistare gradualmente anni di vita in età avanzata senza
far mancare la forza di sostegno della popolazione in età attiva.
Se
invece la fecondità rimane sensibilmente sotto la soglia di 2,1, il
costo dell’aumento della longevità (in termini di previdenza e salute
pubblica) diventa sempre meno sostenibile, perché la denatalità va ad
erodere l’asse portante della popolazione attiva, indebolendo così la
capacità del Paese di produrre ricchezza e benessere.
Una misura
dello squilibrio demografico derivante da tale processo è l’indice di
dipendenza degli anziani (rapporto tra numero di persone over 65 con
quelle in età lavorativa), che risulta particolarmente elevato in Europa
ed è destinato a salire ulteriormente, secondo le previsioni Eurostat
(compresa anche l’immigrazione), dal 30% attuale a oltre il 50% entro la
metà del secolo.
Possiamo considerare tale indice come
l’equivalente demografico del debito pubblico: il suo aumento rende più
instabile un Paese e riversa costi sul futuro (a carico delle nuove
generazioni). Inoltre, se il deficit (divario annuale della spesa
rispetto alle entrate di uno Stato) alimenta il debito pubblico, così la
distanza del numero medio di figli per donna dalla soglia di rimpiazzo
generazionale spinge al rialzo il tasso di dipendenza degli anziani.
Ma
non esiste nessun patto di Stabilità che impegni gli Stati membri a
contenere questo divario. Se definiamo "deficit demografico" quanto la
fecondità di un Paese si trova sotto la soglia di equilibrio di 2,1,
otteniamo un quadro molto articolato: alcuni Stati si discostano di
poco, altri hanno attivo un percorso di recupero, altri rimangono su
valori lontani.
Al primo gruppo appartengono Francia e Svezia, con
un deficit demografico attorno a 0,2. Rientra invece nel secondo gruppo
la Germania, che in pochi anni ha ridotto il deficit da oltre 0,7 a
0,5. Italia e Spagna presentano invece valori persistentemente tra i
peggiori in Europa, con una distanza dalla soglia di equilibrio
superiore a 0,75.
Un patto europeo per politiche che impegnino al
miglioramento su questo indice aiuterebbe a fornire il ritratto di una
Unione non solo interessata ai parametri finanziari, ma anche a
rafforzare il modello sociale comune e il benessere delle famiglie. Il
miglioramento della natalità, del resto, si realizza assieme anche al
potenziamento della condizione giovanile e dell’occupazione femminile,
come dimostrano politiche di successo attuate in vari Paesi. Senza
intervenire su questo deficit sarà in ogni caso sempre più difficile in
futuro tenere in equilibrio gli stessi conti pubblici.