mercoledì 12 dicembre 2018

Renzi: “Nel Pd avrei dovuto usare il lanciafiamme”.
Ma poi è bastata
la sua semplice presenza
www.forum.spinoza.it

il manifesto 12.12.18
La parabola «tragica» di Aldo Togliatti
«Il figlio del migliore, un libro di Giovanni De Plato
di Sarantis Thanopulos


Aldo, il figlio di Togliatti, è riemerso dal nulla in cui accadimenti più grandi di lui l’avevano destinato. Non per occupare, a posteriori, un posto negli eventi storici del secolo scorso, ma per affermare che, a suo modo, sia esistito e la sua testimonianza ci possa interrogare. È come se il «milite ignoto», colui che è «nessuno», piuttosto che sconosciuto, uscisse dal suo stato marmoreo per parlare di sé e non della guerra e dell’atto «eroico» che l’hanno inghiottito.
Il figlio del migliore (Pendragon, pp. 154, euro 15), di Giovanni De Plato, è un libro attento, misurato, ma intenso, venato di una melanconia che coinvolge, impegna, resta aperta al lutto. De Plato psichiatra di grande esperienza, ha frequentato Aldo Togliatti nell’istituto psichiatrico dove, da «schizofrenico», ha passato gli ultimi trent’anni della sua vita. Racconta con scrittura precisa e temperata una storia in stile romanzato, ma aderente ai fatti reali, raccolta dalla viva voce del suo protagonista e dalla sua corrispondenza con i genitori.
LA TRIANGOLAZIONE tra Aldo e i suoi genitori è «tragica». La concatenazione degli errori compiuti, (i più terribili sono stati quelli in «buona fede»), la cui responsabilità cade necessariamente sui genitori, ha creato una situazione irreparabile, in cui non è stata la mancanza di amore a dominare il campo, ma la sua sottomissione a leggi a esso estranee. Dei tre l’«incolpevole» è Aldo, il più «colpevole» è Palmiro Togliatti. Tuttavia questa visuale, seppure corretta – perché il proprio figlio il segretario del Pci lo ha alla fine disconosciuto e abbandonato, di fatto -, fa anche ingannare. Tra i tre che pure, tra mille difficoltà, si vogliono bene, si amano e si odiano anche, l’autoreferenzialità, il chiudersi di ognuno nelle proprie ragioni, è sempre in agguato, anche quando la madre, Rita Montagnana, si aggrappa a un amore abnegante per il figlio che non è assistenza, ma un vero prendersi cura di lui.
NELLO SPAZIO «tragico» chi ci è rimasto incastrato (privo del privilegio isterico di cui gode lo spettatore: stare dentro e, al tempo stesso, fuori dalla scena infausta) e non ha sufficienti appigli nello spazio esterno – in modo da «rifarsi una vita» (come fece Togliatti, spostando altrove il suo senso di responsabilità), o per prendere cura di chi ha subito le conseguenze più gravi, senza cadere nel suo baratro (come fece Montagnana) – ha nella follia la sua unica vera scelta per restare vivo. È grazie alla follia che Aldo è uscito dal buio senza fine di una totale autoreferenzialità, dal labirinto di pensieri senza sbocco possibile, per assumere la più dolorosa delle responsabilità nei confronti di sé e degli altri. La follia non è «sragionare», ma un ragionare lacerato, discontinuo che mentre si inabissa nella voragine del vuoto, si rialza per ritrovare uno sguardo insieme lucido e irregolare, si accosta a prospettive insolite, come la bella descrizione dei vari tipi di silenzio che Aldo fa al suo dottore.
SARÀ LA MADRE a riconoscere che per lei e il padre gli affetti (di cui pure erano capaci) e la funzione genitoriale dovessero essere sacrificati alla costruzione di una società superiore, di uomini giusti e uguali. L’idea romantica e insieme spartana a cui Togliatti e Montagnana hanno dedicato una vita di rinunce, fu fondata sulla convinzione che i sentimenti familiari e quelli erotici fossero subalterni ai legami sociali solidali, che, dovendo scegliere, toccasse ai secondi la più assoluta delle priorità.
Sono infelici le società che rendono necessarie scelte tra affetti personali e doveri sociali. La differenza tra oikos e Polis non è sul piano dei sentimenti. I «legami di sangue», che si oppongono alla convivenza democratica, sono fondati su un aggregarsi difensivo, dettato da una logica di bisogni, su un interesse particolare che è cieco perché non ha sbocco all’universale. La possibilità di amare/odiare una persona, che così diventa per noi importante, è legata alla potenzialità di amare/odiare ognuna delle persone che abitano il nostro mondo ed è questa potenzialità, che fa incontrare il particolare con l’universale, che una società «giusta» dovrebbe facilitare e incoraggiare. Diversamente l’amore diventa un bisogno o un ideale astratto che rischia di legittimare ogni misfatto. Agli occhi di Aldo, il padre, figura esemplare, anticipatrice dell’uomo «Migliore», che una società senza precedenti avrebbe creato, figura proiettata dallo sguardo della madre su di sé, poteva avere come erede solo un signor «Nessuno». Chissà se nel suo perenne anelito del mare, la storia di Ulisse risuonasse dentro di sé.

il manifesto 12.12.18
Per un Marx al presente
Comunismi. C’è da chiedersi quanto, perfino nelle meno odiose tra le società occidentali, non siano stati visti i bisogni operai in crescita intellettuale e morale rispetto ai loro bisogni materiali, affidati essenzialmente alla distribuzione
di Rossana Rossanda


Non credo che, nell’interessante rassegna degli studi su Marx apparsa sul manifesto, si possa rimproverare alla ricerca svolta da Marcello Musto un eccesso di attenzione per le peripezie della coppia Marx-Jenny von Westhfalen. Non so se esse siano fin troppo note, ma sono quelle che danno a questa ricerca un carattere di molto più vicino umanamente e di comprensibile anche per lo sviluppo scientifico del pensatore di Treviri.
Se mai riterrei utile approfondire una ricerca sul presente. Considerato che Marx non ha mai rinunciato a ritenere la classe operaia industriale delle fabbriche come il soggetto «rivoluzionario» per eccellenza, sarebbe utile capire su quale strato o gruppo sociale sia passato questo protagonismo in una fase in cui l’industria è nettamente in calo.
Non sembra che si possa attribuire questo compito al crescente precariato giovanile. Né mi sembra decisivo il passaggio al lavoro di servizio alla persona da parte della maggior quantità di donne, tantomeno per il lavoro di cura su cui si è soffermata Alisa Del Re, ma che interessa gran parte del femminismo italiano. Non è semplice considerarlo lavoro produttivo di merci che si possono scambiare, alimentando la accumulazione capitalistica: in generale si tratta di «competenze» soprattutto di carattere affettivo o relazionale e di vendita del proprio «tempo disponibile».
Ne deriva una trasformazione permanente della figura del lavoro, specie femminile, ma non mi pare del meccanismo di produzione di merce vendibile, a meno che non si tratti di grandissimi aggregati di servizi direttamente o indirettamente alla persona, come si possono individuare ancora nella fenomenologia cinese o in certe produzioni, specialmente di carattere medico, americane o tedesche.
Altrettanto interessante mi sembra il discorso che ne deriva per le società dell’Est, soprattutto per quanto riguarda la libertà: in generale sembrerebbe di poter raccogliere attorno a quella fenomenologia la natura di società particolarmente chiuse e autoritarie; perfino la definizione di stato sempre intollerabile, propria di Bakunin, sembra potersi attribuire specialmente alle società dell’Est, più odiose addirittura delle nostre.
Di qui anche l’errore compiuto dai vari «marxismi-leninismi» di considerare come obiettivo principale unico la distribuzione di beni soprattutto materiali ai lavoratori, obiettivo fatto proprio anche dalla maggior parte dei partiti comunisti.
L’avere privilegiato esclusivamente i beni materiali di consumo – che appare tuttora la scelta della Repubblica popolare cinese – è stata rilevata anche dal lavoro di Ernesto Screpanti per la manifestolibri, ed è al centro della ricerca di Rita Di Leo (L’età della moneta), trascurando (non a caso) la trasformazione dei rapporti fra uomini invece che fra cose, che ha caratterizzato anche il modello sovietico e ora sembra caratterizzare quello cinese.
Nella ricerca di Musto è interessante il rilievo dato al «plusvalore», cioè all’appropriazione da parte del padronato del tempo rubato gratuitamente agli operai, trascurando i loro bisogni di acculturazione e in genere di libertà nei rapporti sociali. C’è da chiedersi quanto, perfino nelle meno odiose tra le società occidentali, non siano stati visti i bisogni operai in crescita intellettuale e morale rispetto ai loro bisogni materiali, affidati essenzialmente alla distribuzione. Ne deriva l’ignoranza dei motivi ricorrenti di crisi nelle società dell’Est, mentre Marx riconduce esplicitamente ad una idea della «classe» come composta essenzialmente da individui necessariamente diversi l’uno dall’altro. Questo filone di ricerca mi sembra urgente.

Il Fatto 12.12.18
L’umana saggezza del “pio” Einstein
di Massimo Fini


Christie’s ha venduto all’asta a New York per 2 milioni e 892.500 dollari una lettera che Albert Einstein scrisse a Eric Gutkind nel 1954, a 74 anni, mezzo secolo dopo aver preso il Nobel per la Fisica. Ma più fortunati del ricco Epulone che l’ha acquistata siamo noi che possiamo leggere gratuitamente questa straordinaria lettera di questo straordinario scienziato e di quest’uomo straordinario i cui pensieri continuano ad abitarci, come quelli di tutti i grandi, da Eraclito a Leonardo a Dante a Shakespeare a Milton a Nietzsche a Leopardi, anche se i loro corpi “dormono, dormono” sulla collina o altrove, e le loro menti non hanno più coscienza di sé e tantomeno di ciò che hanno suscitato.
La lettera di Einstein ruota intorno alla questione eterna dei rapporti fra scienza, religione, spiritualità e il mito di Dio. Einstein, da scienziato, è un “non credente”: “Sono un religioso, non un credente… Per me la parola ‘Dio’ non è altro che l’espressione e il risultato della debolezza umana”. E liquida la Bibbia (“un libro raccapricciante che suscita orrore” secondo l’interpretazione del laico Sergio Quinzio), il Vangelo e tutte le altre cosmogonie come raccolte di “Leggende venerabili ma piuttosto primitive. Non c’è un’interpretazione, per quanto sottile possa essere (e qui si riferisce precipuamente alla Bibbia, ndr) che mi faccia cambiare idea… Per me la religione ebraica nella sua versione originale è, come tutte le altre religioni, un’incarnazione di superstizioni primitive”. Insomma sono miti fondativi, ma senza nessun riscontro storico e tantomeno scientifico.
Ma Einstein non è un “non credente” integralista, “freddo” alla Rita Levi-Montalcini, se in questa stessa lettera riprende un passaggio di Spinoza che concepiva la figura di Dio come un essere senza forma, impersonale: l’artefice dell’ordine e della bellezza visibili nell’universo. In Einstein sembra quindi esserci comunque e nonostante tutto una tensione verso il trascendente e in questo credo consista la sua “spiritualità”. La presenza/assenza di Dio lo turba se nella famosa polemica col collega danese Niels Bohr, che aveva descritto per primo la struttura dell’atomo, gli replica: “Dio non gioca a dadi con l’universo”.
Einstein è ebreo e si riconosce nella cultura ebraica sia pur senza integralismi (“con piacere”) e scrive: “E la comunità ebraica, di cui faccio parte con piacere e alla cui mentalità sono profondamente ancorato, per me non ha alcun tipo di dignità differente dalle altre comunità. Sulla base della mia esperienza posso dire che gli ebrei non sono meglio degli altri gruppi umani, anche se la mancanza di potere evita loro di commettere le azioni peggiori”. E qui Einstein centra una questione molto attuale, che non ha a che vedere con la scienza ma con l’essenza dell’umano, e che risponde a quella legge storica per cui i vinti di ieri una volta diventati vincitori non si comportano molto diversamente dai loro antichi sopraffattori. Altrimenti sarebbe incomprensibile come lo Stato di Israele tenga a Gaza un enorme lager a cielo aperto, quando proprio dei lager gli ebrei sono stati vittime nei modi atroci che ci vengono sempre ricordati.
La lettera venduta l’altro giorno da Christie’s ci riporta anche alla famosa polemica fra Niels Bohr e lo stesso Einstein. In estrema sintesi: Bohr sostiene il “principio di indeterminazione” e cioè che la Scienza non può arrivare a scoprire la legge ultima dell’universo, Einstein al contrario non riuscirà mai a convincersi che non sia possibile, per l’uomo, arrivare alla Verità assoluta. E qui noi, pur nella consapevolezza di inserirci da nani in un confronto fra giganti, stiamo con Bohr che doveva aver ben presente il profondo insegnamento di Eraclito: “Tu non troverai i confini dell’anima (e qui per anima va intesa la Verità, ndr) per quanto vada innanzi, tanto profonda è la sua ragione”. E aggiunge: la legge autenticamente ultima ci sfugge, è perennemente al di là e man mano che cerchiamo di avvicinarla appare a una profondità che si fa sempre più lontana.
Infine in un’altra nota Einstein, nella sua saggezza umana, molto umana e nient’affatto troppo umana ci dà un consiglio, che con la fisica ha poco a che vedere, ma che dovrebbe far rizzare le orecchie ai cantori molto attuali, inesausti e dilaganti delle “sorti meravigliose e progressive”, delle crescite esponenziali e del mito del successo: “Una vita tranquilla e umile porta più felicità che l’inseguimento del successo e l’affanno senza tregue che ne è connesso”.

Il Fatto 12.12.18
C’è ancora chi non spara ai ladri e non se la prende con i migranti
Un libro per Salvini: qualcuno resiste al tripudio degli sgomberi
di Furio Colombo


Sandro Veronesi si è accorto che i “normali” sono rimasti pochi. Ne scrive a Roberto Saviano, (uno di loro, ormai non tanti), raduna e indica in questo suo libro-messaggio (Cani d’Estate, La Nave di Teseo) alcuni nomi di coloro che potrebbero ancora abbaiare.
Invia al ministro dell’Interno di questa Repubblica una raffica di messaggi per ricordargli, anche con sincera solidarietà, i reati che sta compiendo (ovvio che lo fa per salvare o la coscienza o il futuro giudiziario del ministro predetto). Facile identificare “i normali” di questa che è ormai, a tutti gli effetti, una storia di fantascienza. “Normali” sono gli ostinati estranei a una nuova, triste civiltà in cui non si è veri cittadini finchè non si spara al ladro (ma sparare è stupido buonismo, se non becchi un organo vitale e uccidi), finchè il controllore non insulta, nel sistema di comunicazione del treno, “i rom rompicazzo”), finchè un sindaco come quello di Lodi non decreta di affamare i bambini “stranieri”, finchè un sindaco, come quello di Riace, non viene arrestato e (benchè eletto, come raccomanda sempre Salvini) viene espulso dalla città perchè aveva deciso di accogliere i migranti (reato punibile con incriminazione ed esilio) e stava distribuendo un pò di felicità.
Ecco un reato non tollerabile in un Paese governato con infinita cupezza, in cui ogni decisione è togliere, tagliare, multare, abolire, cacciare, espellere. L’importante è che qualcuno paghi, per ragioni che si trovano sempre: i migranti per essere venuti senza il visto d’ingresso che si può ottenere nelle prigioni libiche, i rom benchè siano italiani da secoli, gli occupanti abusivi perchè vengono “prima gli italiani” (molti dei quali sono già in quelle case, e molti dei quali non ci andrebbero neppure con forti incentivi).
Il tripudio dello sgombero riempie i cuori della nuova civiltà, e la ruspa rappresenta il mondo che verrà appena sapranno governare. Faranno di tutto per voi, per mantenervi infelici. I pochi “normali” che si ricordano ancora della felicità, almeno come speranza, si raccolgono stremati, come una pattuglia di scout stranamente sopravvissuta, intorno al libro di Sandro Veronesi. Ma per ora si ascolta solo la lingua del mondo spiccio di Salvini, di Di Maio e del curatore di cordoglio Giuseppe Conte. Credo che dovremmo seguire la consegna dell’autore (a cui dobbiamo molto): abbaiare insieme.

Il Fatto 12.12.18
Ma quale mistero: il 12 dicembre 1969 sappiamo chi è stato
di Gianni Barbacetto


Sono passati 49 anni da quel 12 dicembre 1969 in cui una bomba scoppiata in piazza Fontana a Milano ha strappato l’innocenza all’Italia. Era la prima volta, la madre di tutte le stragi. Erano le 16.37 di un pomeriggio uggioso, umido, grigio, ma con il centro città elettrizzato dal clima festoso delle settimane che precedono il Natale. Una carica di circa un chilo e mezzo di gelatina di dinamite esplode nel salone circolare della Banca nazionale dell’agricoltura, in cui sono in corso, come ogni venerdì pomeriggio, le contrattazioni del mercato degli agricoltori.
L’onda d’urto e le schegge uccidono 17 persone e provocano 88 feriti. Subito le indagini si indirizzano a sinistra. Viene arrestato un anarchico, Pietro Valpreda, il cui gruppo era stato inzeppato di poliziotti, provocatori, fascisti. Un altro anarchico, il ferroviere Pino Pinelli, è fermato e tenuto illegalmente in questura. Ne esce morto il 15 dicembre, diciottesima vittima della strage. I funerali dei morti nella banca si svolgono in una piazza Duomo gremita e grigia e silenziosa. Con gli operai arrivati dalle grandi fabbriche di Sesto San Giovanni a presidiare non solo la piazza, ma una svolta storica che puzza di eversione, di “vogliamo i colonnelli”. Mentre l’inchiesta, strappata a Milano, racconta che la strage è anarchica, nelle piazze e sui muri viene scritta un’altra verità: “Valpreda è innocente. La strage è di Stato”.
Seguono altre bombe, manovre eversive, tentati golpe. Le inchieste negli anni crescono, i processi si moltiplicano e si ingarbugliano, mandano alla sbarra rossi e neri, poi solo i neri, infine assolvono. La memoria intanto si perde. Il terrorismo rosso – che era cresciuto anche per “vendicare” piazza Fontana – arriva a far dimenticare quello nero e di Stato. Vince alla fine una mistica dei misteri in cui tutto è oscuro, indecifrabile, incomprensibile. La storia d’Italia diventa una notte nera in cui ogni ipotesi vale un’altra. Invece la verità la conosciamo, ormai sappiamo che cosa è successo. In piazza Fontana, 49 anni fa, è stato compiuto il primo atto feroce di una guerra segreta che è proseguita per un paio di decenni, almeno fino alla caduta del Muro di Berlino. Non sappiamo il nome di chi ha portato la borsa nel salone della banca, ma sappiamo chi l’ha organizzata, sappiamo chi ha permesso che si facesse, sappiamo chi ha protetto gli esecutori, esfiltrato i testimoni, depistato le indagini.
A certificarlo sono le stesse sentenze che assolvono. La strage di piazza Fontana, come quelle seguenti della Questura di Milano (1973) e di piazza della Loggia a Brescia (1974), è stata compiuta dal gruppo fascista e filonazista Ordine nuovo, ben conosciuto e ben collegato con servizi segreti e apparati dello Stato, oltre che con strutture d’intelligence Usa. I responsabili dell’attentato sono Franco Freda e Giovanni Ventura, come afferma una sentenza della Cassazione del 2005, anche se non possono più essere condannati perché definitivamente assolti per lo stesso reato nel 1987. L’unico con sentenza definitiva di condanna è Carlo Digilio, armiere di Ordine nuovo, morto nel 2005 dopo aver confessato il suo ruolo e raccontato le imprese del suo gruppo.
Per riallacciare i fili della memoria può essere utile leggere un libro appena uscito, che ha per titolo la data iconica, 12 dicembre 1969, è stato scritto da Mirco Dondi, professore all’Università di Bologna, ed edito da Laterza. Una ricostruzione del giorno della strage con uno sguardo incrociato sulle vittime, sugli esecutori e su chi, dentro le istituzioni, li ha allevati, lasciati fare, protetti. Nessuna rivelazione, ma la nitida enunciazione di ciò che non possiamo più far finta di non sapere.

il manifesto 12.12.18
«Ricostituzione del partito fascista». Sequestrata sede di Casapound
Bari, inchiesta sulle aggressioni a militanti di sinistra. Indagate 35 persone. Per la «spedizione punitiva» militanti da tutta le regione
di Gianmario Leone


E’ arrivata forte e decisa la risposta della magistratura all’aggressione fascista avvenuta a Bari lo scorso 21 settembre, da parte di alcuni componenti di CasaPound nei cronfronti dell’europarlamentare Forenza ed altre due persone. I reati contestati sono di «riorganizzazione del disciolto partito fascista» e «manifestazione fascista», ed in particolare di «aver partecipato a pubbliche riunioni, compiendo manifestazioni usuali del disciolto partito fascista e di aver attuato il metodo squadrista come strumento di partecipazione politica».
Nell’inchiesta portata avanti dalla Procura di Bari, che ieri ha portato al sequestro preventivo della sede di CasaPound, in via Eritrea 29, nel quartiere Libertà del capoluogo pugliese, sono indagate 35 persone: 28 rispondono di ’riorganizzazione del disciolto partito fascista’ e ’manifestazione fascista’ mentre dieci di aver materialmente compiuto l’aggressione; sette invece i manifestanti antifascisti accusati di violenza e minaccia a pubblico ufficiale, militanti del centro sociale ‘Ex Caserma Liberata’. Nell’aggressione rimasero feriti anche Giacomo Petrelli di Alternativa comunista, Antonio Perillo, assistente parlamentare dell’eurodeputata Eleonora Forenza (anche lei presente al momento dell’aggressione) e Claudio Riccio di Sinistra italiana.
Alla identificazione dei «picchiatori» di estrema destra, si è arrivati incrociando le dichiarazioni di vittime e testimoni con alcuni video. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, quella sera nella sede barese di CasaPound «solitamente frequentata da poche persone» evidenzia il gip nella sua ordinanza, sono giunti militanti da tutta la regione. Si sarebbero dati appuntamenti «nel luogo e all’orario coincidente con il transito del corteo», per poi «schierarsi a braccia conserte di traverso alla via» come ad attendere i manifestanti, che avevano poco prima sfilato a Bari nel corteo «Mai con Salvini» organizzato dal collettivo del centro sociale «Ex Caserma Liberata».
Il gip parla chiaramente di «spedizione punitiva», «azione violenta unilaterale», di «feroce esplosione di violenza ai danni di persone inermi e del tutto incapaci di qualsiasi reazione». Le perquisizioni eseguite all’indomani dell’aggressione portarono al rinvenimento di «oggetti chiaramente riconducibili alla ideologia fascista»: una bandiera nera con fascio littorio, una bandiera con l’effige della «X Flottiglia MAS», una busto di Benito Mussolini e croce celtica. A casa degli indagati sono stati trovati libri su Hitler e lo squadrismo, cartoline raffiguranti Mussolini e altre bandiere con l’aquila fascista.
«L’indole violenta e aggressiva legata a ragioni di estremismo ideologico e politico» dei militanti di CasaPound fa «ritenere concreto il pericolo che, ove si presentino occasioni analoghe, legate a manifestazioni di pensiero a loro ’sgradite’, possano tornare a usare la sede come base operativa per sferrare simili aggressioni organizzate», evidenzia il gip di Bari Marco Galesi.
Soddisfazione per l’iniziativa della magistratura è stata espressa da parte dell’europarlamentare Eleonora Forenza che lo ha definito «un fatto importante», dal coordinamento antifascista barese «soddisfatto per la chiusura della sede di Casapound», dal sindaco di Bari Decaro e dal governatore Emiliano, oltre che da tutti i partiti e i movimenti di sinistra pugliesi.

Repubblica 1.12.18
Bari
Chiusa la sede di CasaPound Il pm: è un partito fascista
Indagati in trenta: per la prima volta contestata la ricostituzione del movimento I militanti avevano attaccato a settembre i manifestanti anti Salvini: " Fu premeditato"
di Giuliano Foschini


« Andatevene merde, qui comandiamo noi » . « Antifascisti di merda ». E poi bilancieri da palestra, catene, un busto di Benito Mussolini, una bandiera della X Flottiglia Mas, il Mein Kampf di Hitler. «Fascisti » , in sintesi, sostiene la procura di Bari che ieri ha indagato 30 iscritti di CasaPound accusandoli di aggressione e, per la prima volta, ricostituzione del partito fascista. E, per questo motivo, sequestrato la loro sede di Bari.
L’inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Roberto Rossi, parte il 21 settembre scorso quando alcune persone, tra cui l’europarlamentare Eleonora Forenza, vengono aggrediti e picchiati al termine di un corteo antifascista contro il ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Vengono presi alle spalle, colpiti prima come un pugno e poi con mazze e cinture. Non riescono a difendersi e finiranno in ospedale con prognosi fino a 10 giorni. «Aiutavamo una coppia di ragazze di colore che passavano lì con i loro bambini, quando siamo stati aggrediti da quelli di CasaPound » , hanno messo a verbale. Il loro racconto è stato confermato interamente dalle immagini delle telecamere di sorveglianza montate nella zona, dall’ascolto di diversi testimoni ( compreso le ragazze con i passeggini che hanno riconosciuto gli aggressori) e dal lavoro degli agenti della Digos di Bari, guidati dal dirigente Michele de Tullio.
Quelli di CasaPound avevano provato, nell’immediatezza dei fatti, a sminuire l’accaduto. Parlando di provocazione. « Bugie » , dice ora il tribunale di Bari. Convinto, invece, che quella di settembre fu «un’azione premeditata», nata per tacitare chi ha posizioni «politiche sgradite». Un’azione che si potrebbe ripetere, tant’è che ha ritenuto necessario sequestrare la sede. « Presso i locali di CasaPound — ricostruisce la procura nella richiesta di sequestro — si sono dati appuntamento numerosi ragazzi, provenienti anche da altre province » . Non erano lì per caso, quindi. E per la prima volta erano tanti: solitamente la sede di via Eritrea ( quartiere Libertà, feudo del clan mafioso Strisciuglio dove qualche settimana prima il ministro dell’Interno Matteo Salvini era arrivato per parlare però della questione immigrazione) era frequentata da poche persone. E invece la sera del 21 settembre, mentre nelle strade vicine un migliaio di persone sfilava contro Salvini, a CasaPound erano una cinquantina, arrivati da tutta la Puglia. Non era un caso.
Secondo la procura avevano organizzata una « spedizione punitiva » atta «ad offendere, colpire e reprimere indiscriminatamente qualunque soggetto avesse partecipato alla manifestazione con corteo dichiaratamente " antifascista", e di conseguenza per affermare e, quindi, qualificare come "fascista" la propria azione criminale » . Un comportamento, secondo il procuratore Rossi, « chiaramente spinto dalla volontà di emulare lo squadrismo, il principale strumento con il quale il movimento fascista manifestava la propria identità mediante la repressione, violenta, delle opposte ideologie». Da qui la decisione di applicare la legge Scelba del 1952 che si preoccupa di «impedire la riorganizzazione del partito fascista ».
D’altronde che di fascisti si trattasse è chiaro soltanto a leggere l’elenco delle cose sequestrate dagli agenti della Digos nella sede di CasaPound e a casa di alcuni degli indagati ( dove hanno trovato anche gli abiti che indossavano la sera dell’aggressione): in sede c’erano 4 manubri da palestra, un busto di Mussolini, una badiera della X Mas, un fascio littorio. Nelle case il Mein Kampf, croci celtiche e cimeli vari dell’epoca nazifascista.
Dopo l’aggressione, Bari aveva risposto portando migliaia di persone in piazza in una manifestazione antifascista. Nei giorni scorsi a chiedere la chiusura della sede di CasaPound era stato il sindaco, Antonio Decaro. Alla cui voce si è unito ieri il Governatore Michele Emiliano: « Ora è necessario continuare nelle scuole, per strada, nelle periferie a difendere i valori della nostra Costituzione, della democrazia e della libertà » . « Oggi è una bella giornata » , ha detto l’europarlamentare di Rifondazione comunista Eleonora Forenza, aggredita quella notte. «Quello di Bari», dice il segretario di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni, «non è un caso isolato. È ora di procedere con la chiusura di movimenti che inneggiano al fascismo in tutta Italia».


il manifesto 12.12.18
Salvini attacca Hezbollah, allarme al comando italiano Unifil
Israele/Italia. Il capo della Lega ha descritto come «terroristi islamici» gli uomini del movimento sciita suscitando preoccupazione al ministero della difesa e tra i caschi blu dell'Onu dispiegati in Libano. Ha poi preso di mira la soluzione a Due Stati sostenuta dall'Ue
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Giacca scura, camicia azzurra, atteggiamento sobrio. Matteo Salvini si è presentato alla conferenza stampa al King David Hotel di Gerusalemme con un look diverso da quello abituale da autista di ruspa. Solo apparenza, la sostanza è stata quella solita. Il vicepremier e ministro dell’interno in visita ufficiale in Israele ieri ha inferto picconate a situazioni delicatissime per la stabilità del Medio oriente e di cui, evidentemente, non capisce un bel niente: la tensione ai confini tra Israele e Libano e la soluzione a Due Stati, Israele e Palestina, sostenuta dall’Unione europea, quindi anche dall’Italia.
Salvini appena ha messo piede a terra a Tel Aviv ha fatto pochi passi ed è salito a bordo di un elicottero per dirigersi al Nord dove è andato a dare uno sguardo ai tunnel sotterranei costruiti dal movimento sciita libanese Hezbollah e di cui Israele ha annunciato la scoperta nei giorni scorsi. Una storia che rischia di scatenare una nuova guerra. Proprio ieri il premier israeliano Netanyahu ha lanciato nuovi e più pesanti avvertimenti a Hezbollah affermando che Israele reagirà ad un eventuale attacco con una forza mai usata in passato. Il capo leghista, forse pensando che lo scontro tra Israele e Hezbollah per importanza non sia molto diverso dalla demolizione delle ville dei Casamonica, si è lasciato ad andare a dichiarazioni che hanno fatto saltare sulla sedia i militari dell’Unifil – i caschi blu dell’Onu attualmente sotto comando italiano che dal 2006 vigilano sulla tregua tra il movimento sciita e lo Stato ebraico – e i responsabili del ministero della difesa italiano. «Chi vuole la pace, sostiene il diritto all’esistenza ed alla sicurezza di Israele – ha scritto Salvini in un post su Facebook – Sono appena stato ai confini nord col Libano, dove i terroristi islamici di Hezbollah scavano tunnel e armano missili per attaccare il baluardo della democrazia in questa regione».
Il riferimento agli Hezbollah come «terroristi islamici» ha fatto sudare freddo non pochi al ministero della difesa e al comando Unifil che hanno fatto trapelare «preoccupazione» e «imbarazzo» per quelle parole. «Non vogliamo alzare nessuna polemica – hanno fatto sapere fonti anonime – ma tali dichiarazioni mettono in evidente difficoltà i nostri uomini impegnati proprio a sud (del Libano) nella missione Unifil, lungo la “Linea blu” (il confine). Questo perché il nostro ruolo super partes, vicini a Israele e al popolo libanese, è sempre stato riconosciuto nell’area. Tra l’altro l’Onu la sua parte la sta già facendo, c’è una missione, si chiama Unifil, da oltre 12 anni, e il comando è oggi sotto la guida italiana per la quarta volta». Queste cose Salvini non le sa, non comprende che in questa regione dagli equilibri fragili, martoriata da conflitti continui, dichiarazioni incoscienti possono innescare reazioni violente, anche contro i soldati italiani. Perciò, non contento del danno già causato, Salvini rivolgendosi ai giornalisti italiani a Gerusalemme, ha commentato «Mi stupisco per lo stupore che ho letto per la definizione di Hezbollah come terroristi islamici. Se si scavano tunnel sotterranei che sconfinano nel territorio israeliano, non penso venga fatto per andare a fare la spesa».
Salvini ha fatto uso dell’ascia anche contro le politiche portate avanti dall’Ue in Medio oriente e nella questione palestinese. Solo sullo status di Gerusalemme ha evitato di esprimersi. Rispondendo a una domanda del manifesto sul sostegno europeo alla soluzione a Due Stati, ossia alla creazione di uno Stato palestinese accanto a Israele, ha sferrato un duro attacco alla linea che Bruxelles porta avanti dalla firma degli Accordi di Oslo nel 1993. «Io sono favorevole a una soluzione che nasca dai territori. L’Unione europea negli anni scorsi è stata assolutamente sbilanciata condannando e sanzionando Israele ogni quarto d’ora…Temo che parti degli ingenti aiuti (ai palestinesi) non siano arrivate alle destinazioni auspicate» ha risposto, concedendo solo a proposito di Gaza che «una situazione come quella non può essere sostenuta a lungo».
Il resto della giornata sono state segnate da posizioni abbastanza scontate. Salvini ha dato il suo pieno appoggio a Israele che, sotto lo sguardo compiaciuto di funzionari e rappresentanti del governo Netanyahu, ha descritto come un «baluardo» della civiltà occidentale. Ha quindi esortato chi ama la pace a stare dalla parte dello Stato ebraico e a lottare contro l’estremismo islamico. Ha spiegato di essere venuto per rinsaldare i rapporti tra italiani e israeliani anche attraverso relazioni più strette tra scuole ed università e nella ricerca scientifica. Oggi vedrà Netanyahu e dovrebbero conoscersi più nel dettaglio le intese strette nel campo della sicurezza di cui ha discusso con il ministro israeliano Ghilan Erdan.

il manifesto 12.12.18
«Salvini razzista e nemico dei musulmani: a Netanyahu piace così»
Intervista. Parla Yitzhak Laor, poeta, saggista e giornalista israeliano da sempre senza bavaglio: «Salvini comincia qui, con la legittimazione di Israele la campagna che dovrà portarlo a diventare il primo ministro italiano»
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Yitzhak Laor non ha dubbi. «Salvini comincia in Israele la campagna che dovrà portarlo a diventare primo ministro italiano», ci dice convinto. Poeta, saggista, collaboratore del quotidiano Haaretz, Laor, 70 anni, è una storica voce senza bavaglio. È tornato da poco dall’Italia. «Conosco bene l’Italia e quest’ultimo viaggio non l’ho fatto solo per turismo, è stato anche un’indagine politica e sociale. Ho provato a capire il contesto in cui è maturata l’avanzata dei populisti». L’abbiamo incontrato a Tel Aviv nelle stesse ore in cui il vicepremier e ministro dell’interno Matteo Salvini cominciava la visita ufficiale in Israele.
Perché Salvini parte proprio da Israele per arrivare alla poltrona di presidente del consiglio.
Il comportamento degli uomini politici europei non è più così distante da quello dei loro colleghi statunitensi. Negli Usa coloro che aspirano alla presidenza o al Congresso sanno che il loro rapporto con Israele, quello che pensano di Israele e come intendono coltivare le relazioni strategiche con Israele sono fattori determinanti per il successo delle loro aspirazioni politiche. Non è un caso che gli americani candidati a presidente vengano sempre qui prima del voto. Ormai anche da voi in Italia o in Europa un rappresentante politico, di destra e di sinistra deve obbligatoriamente dichiararsi amico sincero di Israele e dimenticare i diritti dei palestinesi se vuole coltivare delle ambizioni, soprattutto in politica estera. Altrimenti rischia di ritrovarsi isolato, messo nell’angolo.
Salvini però si proclama da sempre amico di Israele.
Nel caso della destra italiana esiste un motivo in più per essere filoisraeliano di ferro e negare persino l’esistenza di un problema palestinese. È il passato fascista del paese, la collaborazione tra fascismo e nazismo che grava ancora sulle forze di destra. Un passato pesante che gli uomini della destra italiana adesso riescono a cancellare dichiarandosi alleati di Israele e nemici dell’Islam. Visitando lo Yad Vashem (il Memoriale dell’Olocausto a Gerusalemme) sanno che torneranno a casa con una nuova pelle. Israele e, purtroppo le stesse comunità ebraiche europee, certificano l’idoneità di certi personaggi a rivestire incarichi istituzionali nonostante le idee e i programmi che questi portano avanti sono impregnati di razzismo. Ciò che oggi interessa (a Israele) non è più se un leader politico sia un antisemita dichiarato o occulto. L’importante è che sia schierato sempre dalla parte di Israele. Alcuni anni fa fu Gianfranco Fini, un ex fascista, a ricevere la benedizione di Israele.
In Israele non mancano le polemiche per il caloroso benvenuto riservato dal premier Netanyahu prima al leader ungherese Orban e ora a Salvini.
Sono voci isolate e non scalfiscono la legittimazione che si sta dando alla destra populista europea. Nel caso di Salvini inoltre dobbiano notare un aspetto importante. Ho letto su Haaretz che (il leader della Lega) parlando ai rappresentanti della stampa estera in Italia ha detto che non deve giustificare il suo pensiero e le sue azioni ogni volta che parte per Israele. In sostanza Salvini dice io sono quello che sono e a Israele va benissimo. E ha pienamente ragione. A Netanyahu piace così: razzista, tendente al neofascismo e nemico dei musulmani.
Israele è sempre più un modello da imitare per i leader politici europei. E non solo nella sicurezza.
Potrei elencare tante ragioni per spiegarlo. Il pugno duro che (Israele) usa contro i musulmani e gli arabi, perché attua politiche antidemocratiche che tanti in Europa vorrebbero seguire, perché caccia via senza problemi migranti e rifugiati e così via. Io dico che Israele piace sempre di più al Vecchio Continente perché incarna quella vocazione coloniale che scorre copiosa nelle vene degli europei. Vocazione che la sinistra europea ha combattuto nei decenni passati e che riemerge a mio avviso evidente sull’onda del populismo dilagante.

Il Fatto 12.12.18
Tweet, Hezbollah e altre gaffe: Salvini non ne azzecca una
di Fabio Scuto


Il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha definito “intense” le sue 24 ore di visita in Israele. Piene di incontri, spostamenti, strette di mano. In attesa dell’incontro con il premier Benjamin Netanyahu di oggi e della visita allo Yad Vashem, il vicepremier italiano ha speso buona parte della sua giornata in un giro nel nord di Israele, dove è arrivato con un elicottero dell’Idf che l’ha trasferito direttamente dall’aeroporto Ben Gurion alle pendici delle colline dove corre la linea del cessate-il-fuoco con il Libano, uno dei confini più incandescenti del Medioriente.
L’ansia di mostrare che il vicepremier non è uno che perde tempo gli fatto fare due gaffe nell’arco di pochi minuti. Le foto che ha immediatamente twittato ritraevano “persone della sicurezza israeliana” che lo accompagnavano il cui volto non può essere mostrato, e la gran parte delle immagini è stata rapidamente rimossa. Poco dopo ha rilasciato una fiammeggiante dichiarazione su Hezbollah che ha definito “terroristi islamici”, dimenticando – come ha invece ricordato la Difesa – che il movimento islamico è il padrone del Libano, dove alcune migliaia di soldati italiani partecipano alla missione Unifil, appena dall’altra parte di quel confine, e difendono con orgoglio il loro ruolo super partes.
La mossa israeliana fa parte dello sforzo delle autorità israeliane per sensibilizzare sulla minaccia rappresentata dai tunnel Hezbollah scavati tra il sud del Libano e il nord di Israele. La settimana scorsa, Netanyahu ha informato un gruppo di diplomatici stranieri, incluso l’ambasciatore italiano, proprio sull’operazione dell’esercito israeliano per distruggere quei tunnel.
Apparentemente consapevole della sfida che deve affrontare la sua visita, la squadra di Salvini ha ingaggiato il presidente dell’Unione delle comunità ebraiche, Noemi Di Segni, per unirsi a lui durante il viaggio in Israele. La mossa, che alcuni vedono come un tentativo di dare legittimità a Salvini, probabilmente farà infuriare alcuni membri della comunità ebraica che si oppone alla visita. La Lega di Salvini è fermamente filo-israeliana e, sfidando la pratica dell’Ue se non la politica ufficiale, la sua visita non include un incontro con un rappresentante palestinese. Glissa la domanda in serata durante un incontro con i giornalisti. “Ho scritto personalmente al presidente dell’Anp Abu Mazen, e conto presto su un’altra occasione per sentire anche la parte palestinese”. Definisce “squalificata” l’Unione europea – troppo filo araba – ma spera che israeliani e palestinesi si vengano incontro”, così come ha annunciato che “rifletterà” sulla possibilità di spostare l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme come hanno fatto gli Stati Uniti. “Per ora”, ha aggiunto sorridendo, “non è nel programma di governo”.
La realpolitik è fatta anche di strappi. Uno lo ha compiuto il presidente Reuven Rivlin che ha ricevuto una richiesta per un incontro ma non ha voluto incontrare Salvini. Stando al suo portavoce è dovuto a “problemi di programma”, non al “protocollo”. Ma Rivlin ha recentemente preso una posizione forte contro i partiti “fascisti” in Europa, indipendentemente dalla loro posizione su Israele.
La visita di Salvini arriva sulla scia di numerosi incontri che Netanyahu ha tenuto con leader che sono associati per le loro posizioni all’estrema destra in tutto il mondo. Recentemente, il presidente cecoMilos Zeman ha visitato Israele e ha promesso di trasferire l’ambasciata del suo paese in Israele a Gerusalemme. Ma il suo governo è contrario e lui non ha autorità per decidere. In settembre era venuto in Israele il presidente filippino Rodrigo Duterte. A luglio c’era l’ungherese Viktor Orban. Un mese prima un altro sovranista, il cancelliere austriaco Sebastian Kurz. Netanyahu ha poi recentemente dichiarato che parteciperà alla cerimonia del giuramento del presidente brasiliano eletto Jair Bolsonaro, certo non un campione di libertà e democrazia. “Gerusalemme è diventata una fabbrica per rilasciare certificati di perdono ai nazionalisti di tutto il mondo”, ha scritto Haaretz nel suo editoriale, “che in cambio del sostegno al governo Netanyahu ricevono indulgenza per le loro espressioni scandalose su ogni altra questione”.


Il Fatto 12.12.18
Psico dem. I fedelissimi in frantumi: adesso si candida pure Giachetti


“Dobbiamo appoggiare Maurizio Martina? E allora, lo facciamo con la lista ‘Scuse al cazzo’”. È Luciano Nobili che dà il via alla deflagrazione della corrente renziana. Il riferimento è alla richiesta fatta a Milano dall’allora segretario reggente a Renzi di scusarsi. È il liberi tutti. Che manda all’aria il tentativo fatto da Lorenzo Guerini di far convergere tutta l’area su Martina. “Abbiamo tre possibilità: lasciare libertà di coscienza, trovare un candidato, appoggiare Martina”, avrebbe detto Guerini, che era stato il vero costruttore della candidatura di Marco Minniti. Sulla sua posizione alcuni dei big, come Luca Lotti e Antonello Giacomelli. A quel punto, gli ultras renziani hanno cominciato a protestare. Non solo Nobili, ma anche Andrea Romano, tra gli altri. L’idea di votare è stata scartata. La riunione si è chiusa con una sorta di rompete le righe. E mentre Guerini è andato da Martina a verificare le condizioni per appoggiarlo, Roberto Giachetti e Anna Ascani hanno cominciato a raccogliere le firme per una corsa in ticket. “I campioni si vedono alla fine”, si è lasciata andare la Ascani a Montecitorio, parlando con una serie di deputati, davanti all’ascensore. D’altra parte, erano mesi che accarezzava l’idea di essere la candidata di Renzi. Peccato che in questo caso, sembra più un inseguimento: i più vicini al loro leader sono terrorizzati dalla prospettiva che si apre con lui in uscita dal Pd, senza grandi intenzioni di portarseli dietro. E quindi, a questo punto, si smarcano e si mettono in fila per seguirlo. O quantomeno a coprirgli le spalle dentro al Pd. E il Giglio Magico si spacca definitivamente: con Lotti che va verso Martina-Richetti, più sopportato che ben accolto, e Maria Elena Boschi che si defila, aspettando le mosse di Renzi. “Il mio partito non è all’ordine del giorno”, dice lui. Ma poi: “Il congresso è il passato”. Con tanti auguri a chi lo fa.
wa.ma.

Repubblica 12.12.18
I tormenti nella maggioranza
A Palazzo Chigi la crisi non è più un tabù e ora la Lega è tentata dal voto a marzo
di Tommaso Ciriaco


ROMA Per un giorno intero il governo gialloverde è sferzato da venti di tempesta. Presentarsi a Bruxelles con in tasca al massimo il 2,1% è come esporre Giuseppe Conte a una disfatta certa. E rendere inevitabile il precipizio verso una dolorosa procedura d’infrazione. Tutto sembra affondare talmente velocemente che a sera a Palazzo Chigi si fa spazio lo scenario più estremo: una crisi di governo ed elezioni anticipate entro marzo.
La gravità della situazione la si intuisce da un retroscena rimasto riservato: per un giorno intero l’incontro tra Conte e il presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker traballa. Talmente pericolosamente che a metà pomeriggio pare addirittura saltare. Da Bruxelles, d’altra parte, erano stati chiari: presentatevi soltanto con una rilevante riduzione del deficit, altrimenti è inutile incontrarsi. A Palazzo Chigi scatta subito l’allarme. Conte ha necessità di mostrarsi pronto fino all’ultimo al dialogo con l’Europa.
Per questo, il premier attiva immediatamente gli ambasciatori più ascoltati in Europa e cerca di "salvare" il faccia a faccia. Tria e Moavero chiamano i vertici della Commissione. Ma la certezza del summit si avrà soltanto oggi alle 11, quando l’aereo del premier dovrebbe decollare da Ciampino.
La verità è che fino a tarda notte Conte e Tria, tabelle della Ragioneria alla mano, tentano una scalata impossibile. Il ministro dell’Economia lo ripete al premier: «Per evitare la procedura dobbiamo sforzarci di raggiungere l’1,9%». Parla, Tria. Ma chi dovrebbe ascoltarlo, cioè Salvini, è troppo lontano. A Gerusalemme, impegnato in una missione che assomiglia a un viaggio da premier. Ed è proprio nel cortile dell’hotel King David che il leader della Lega gela le speranze del Tesoro. «Sulla manovra abbiamo chiuso l’accordo politico interno al governo confida - Quota 100 la faremo, e la faremo per tre anni». Numeri non ne vuole fare, «neanche sotto tortura». Ma poi lascia intendere con un sorriso che sì, l’esecutivo non andrà mai sotto il 2,1%. La ragione è presto detta: secondo gli ultimi calcoli, è possibile risparmiare quasi un miliardo dal reddito e qualcosa in più dalla Fornero, visto che partiranno il primo aprile. Ma è anche vero che quota 100 costerà più del previsto nel biennio successivo. I conti non tornano. Ed è esattamente a questo punto della storia che crollano le certezze di Tria e rischia di scattare la campanella dell’ultimo giro per l’esecutivo.
Da giorni nel Carroccio si rincorre una voce: Salvini è pronto a tornare alle urne prima delle Europee, cavalcando lo scontro con l’Unione. Circola già una data possibile per nuove elezioni politiche, il week end del 10-11 marzo. Tra i fautori del ritorno al voto ci sarebbe praticamente l’intera pattuglia di governo del Carroccio. «Per noi andrebbe bene votare subito confidava qualche giorno fa il ministro leghista Lorenzo Fontana Se Matteo avesse la certezza di ottenere le elezioni, le avrebbe già chieste». L’occasione, adesso, sembra presentarsi proprio con l’eventuale procedura. Non a caso, i toni di Salvini contro l’Europa subiscono una nuova impennata: «Sarebbe incredibile se ci imponessero una procedura nel momento in cui Macron, il presidente pro tempore dei francesi, porta Parigi oltre il 3%».
La tentazione del leader, insomma, sarebbe quella di far precipitare tutto dopo il 19 dicembre. Quel giorno, in assenza di modifiche sostanziali alla manovra, la Commissione farà scattare le famigerate raccomandazioni, anticamera della stangata all’Italia. Aprendo la strada a una punizione assai più pesante di quella eventualmente riservata a Parigi, visto che nel caso italiano si tratta di una procedura per debito e non per extra-deficit. Per smarcare l’esecutivo da un peso a quel punto insostenibile, la Lega preferirebbe reclamare le urne. Anche perché una bocciatura della manovra è destinata ad aprire comunque una frattura insanabile nell’esecutivo.
I ministri considerati in bilico sono tre. Si tratta dell’ala "responsabile", capitanata ovviamente da Tria e da Enzo Moavero Milanesi. Avrebbero già fatto sapere di non essere disposti a proseguire di fronte a un conflitto aperto con Bruxelles, dagli esiti imprevedibili. E Conte?
Impegnato fino all’ultimo nella mediazione, sembra però ormai rassegnato. Nel Movimento, d’altra parte, già si promette battaglia in vista dell’incontro con Juncker. E si arruola il premier in questa sfida.
«Non ci caleremo le braghe - è il senso del messaggio già elaborato Non possiamo scendere sotto il 2,1%. Non possono trattarci così per uno 0,2%, quando la Francia sfora ben più di noi». Anche Palazzo Chigi,

Il Fatto 12.12.18
Maledetta Brexit: Corbyn contro May, ma “a tempo debito”
Caos - Dopo il rinvio del voto, la premier è un morto che cammina e torna a Bruxelles. Ma Juncker e Merkel: “Non si rinegozia”
di Sabrina Provenzani


Frit, dead, zombie, toast. Declinato in vari colori, il messaggio è univoco: Theresa May è, politicamente, una morta che cammina. Per parlamentari e commentatori, la decisione di rinviare a data da destinarsi il voto parlamentare sul suo piano per Brexit ne ha definitivamente minato credibilità e autorevolezza, e la sua caduta è solo questione di tempo. Quanto tempo?
Ieri May ha iniziato il suo pellegrinaggio nelle capitali europee, in cerca di sostegno per la sua ultima mission impossible: ottenere garanzie legali sul fatto che la backstop, la clausola di garanzia sul confine irlandese che sta facendo implodere tutta la sua strategia, sia a tempo definito.
Il premier olandese Rutte ha definito l’incontro “utile”, la leader tedesca Angela Merkel ha escluso la riapertura dell’accordo di recesso già concordato, ma ha aperto all’ipotesi di maggiori rassicurazioni. Concetto ribadito dal presidente della commissione europea Jean-Claude Juncker, che ieri mattina al Parlamento europeo ha dichiarato: “L’accordo raggiunto è il migliore possibile… l’unico possibile. Non c’è alcun margine per riaprire il negoziato, ma ce n’è per ulteriori chiarimenti”. Garanzie sì, anche ai massimi livelli, ma senza davvero toccare l’architettura della backstop.
Oggi in programma il delicato incontro con il primo ministro della Repubblica irlandese Leo Varadkar, che ha suggerito di rimandare o annullare la Brexit tout court per scongiurare lo spettro del no deal.
Giovedì c’è il Consiglio europeo, con il Presidente Donald Tusk che ha chiarito “Non rinegozieremo l’accordo, inclusa la backstop, ma siamo pronti a discutere come facilitarne la ratificazione dal parte del Regno Unito. E poiché il tempo scorre, discuteremo anche i preparativi per un no deal”.
Insomma, a meno di miracoli, la May dovrebbe portare a casa non una modifica del trattato ma, al massimo, rassicurazioni scritte da allegare al documento principale. Però sarà già venerdì. Scenari: un aggiustamento cosmetico non soddisfa nessuno e nel fine settimana si scatena un balletto di recriminazioni e minacce di porre la fiducia. Ma per sfiduciare la loro leader i Tories hanno bisogno prima di raccogliere 48 firme, poi di ottenere 158 voti, poi di un leader alternativo credibile, cioè uno che voglia davvero prendersi la grana Brexit ora che la maggioranza del Parlamento non vuole l’accordo raggiunto ma nemmeno una uscita senza accordo, e il tempo per riaprire il negoziato con Bruxelles, ammesso che l’Ue sia disponibile, è quasi scaduto. Il campo Labour è un labirinto: alle pressioni di nazionalisti scozzesi e lib dem di porre la fiducia al più presto il segretario Corbyn ha risposto con un enigmatico “al momento opportuno”. Le ragioni politiche: in base al Fixed Term Act del 2016 per sfiduciare il premier in carica è necessario il voto di due terzi dei parlamentari. Corbyn vuole andare a elezioni, ma per far cadere il governo avrebbe bisogno dell’appoggio suicida dei Conservatori, che non solo dovrebbero impallinare il proprio leader ma anche precipitare in un voto rischiosissimo per il Paese e per il partito. Improbabile. E quindi al Labour non resterebbe che sposare la soluzione del secondo referendum auspicata dagli iscritti, inclusi gli attivisti di Momentum che, nel 2015, gli hanno regalato una imprevedibilissima segreteria, ma non da Corbyn. Perché no?
È vero, il segretario è un euroscettico. Ma anche: tre dei 17 milioni che hanno votato Leave sono laburisti, concentrati nelle aree postindustriali di Midlands, Galles e Nord Inghilterra, tradizionale zoccolo duro del partito. Vedrebbero un People’s vote come un tradimento imperdonabile, da far scontare alle prossime elezioni. E infatti il potentissimo Len McCLusky, capo del sindacato Unite e grande sostenitore di Corbyn, pochi giorni fa ha chiarito di essere contrarissimo.
Certo, se la pressione politica dovesse farsi insostenibile la May potrebbe decidere di dimettersi. Ma la premier ha ridefinito il concetto di “insostenibile” già diverse volte, nulla suggerisce che voglia uscire di scena, e se resiste fino al 20 dicembre, quando il Parlamento chiude per le vacanze di Natale, se ne riparla alla ripresa, il 7 gennaio. La data limite per la ratifica dell’accordo è il 21 gennaio, dopo di che, in base al Withdrawal Act, se non c’è consenso il controllo passa al Parlamento, dove si sta consolidando il fronte del People’s Vote, con l’obiettivo palese di cancellare la Brexit.

Repubblica 12.12.18
Il regalo di natale di Tsipras
di Ettore Livini


Alexis Tsipras — grazie a un surplus di bilancio molto più ampio del previsto — regala per Natale alle famiglie greche più povere 1,4 miliardi. Il cosiddetto dividendo sociale, come lo chiama Syriza, il partito del premier ellenico, sarà in distribuzione da domani e prevede un assegno tra i 300 e i 1.200 euro (a seconda del reddito) a 1,3 milioni di persone delle fasce più deboli della popolazione.
Il bonus di Natale non è l’unica carta giocata da Tsipras in queste settimane per provare a risalire nei sondaggi dove è in svantaggio di una decina di punti sul centrodestra di Nea Demokratia in vista delle elezioni del prossimo autunno. Il premier di Atene abbasserà del 30% l’Enfia (l’Imu ellenica) per le persone con reddito più basso e ha ottenuto dalla Ue l’ok ad eliminare i tagli alle pensioni previsti a gennaio dagli accordi firmati con l’ex Troika quando — a settembre — il paese è uscito dal commissariamento di Ue, Bce e Fmi.
Ad aiutare Syriza ci sono anche i dati sull’economia, con il Pil previsto in crescita del 2% e la disoccupazione scesa al 18,6% a settembre dal 27% registrato nel 2015.

Corriere 12.12.18
La ministra Trenta: area ad alta tensione
Dobbiamo tutelare i nostri militari
di Fiorenza Sarzanini


L’allarme per la brigata impegnata con Unifil
Roma La notizia del tweet del vicepremier Matteo Salvini, che definisce gli Hezbollah «terroristi islamici», le arriva mentre è impegnata in un incontro internazionale a Roma. E la ministra della Difesa Elisabetta Trenta, che sta facendo gli onori di casa, passa in fretta dallo stupore alla rabbia. Perché, sbotta, «la questione riguarda la sicurezza dei nostri soldati che si trovano in quell’area in un momento di forte tensione e proprio mentre la missione Unifil in Libano è sotto il comando italiano con il generale Stefano Del Col». Quale sia la sua preoccupazione, lo spiega poco dopo al telefono: «Proteggere chi rischia la vita per tutti noi».
In una giornata di altissima tensione tra Lega e 5Stelle, quella sui soldati è soltanto l’ultima polemica in ordine di tempo. Ma diventa la più spinosa, proprio perché riguarda l’incolumità degli uomini del contingente e soprattutto il ruolo dell’Italia sulla scena internazionale. Anche tenendo conto che nelle ultime settimane ci sono state avvisaglie di una tensione che cresce nei confronti dei reparti schierati in quell’area e dunque anche una minima «uscita» fuori luogo può provocare conseguenze gravi.
Quando si capisce quali rischi possa causare la gaffe del titolare del Viminale, l’altro vicepremier Luigi Di Maio fa una dichiarazione pubblica proprio per dare manforte alla ministra «mandando un abbraccio ai soldati». E lei, dopo aver premesso di «non voler alzare polemiche, il governo è unito e compatto», scandisce: «Io dico solo che quando parliamo dei nostri militari all’estero, che rischiano la vita per la nostra sicurezza con le famiglie lontane migliaia di chilometri da casa, dobbiamo esserlo ancora di più. In Libano, così come in altri teatri, questo fanno i nostri militari: rischiano la vita per noi. E lo fanno da molti anni. I nostri uomini e le nostre donne delle forze armate vanno tutelati sempre».
Proprio ieri in piazza San Pietro a Roma è stato fermato un uomo mentre versava benzina su un blindato. Non a caso la ministra dice: «Quando ho saputo che i due ragazzi impegnati nell’operazione Strade sicure erano stati attaccati da un uomo di origine marocchina li ho ringraziati personalmente perché sono intervenuti con la massima professionalità. Ecco, a questo mi riferisco quando dico che dobbiamo sempre tenere a mente che i nostri militari ogni giorno rischiano la vita per la nostra stabilità».
In Libano è schierata la brigata Garibaldi con circa 1.250 uomini nell’ambito di una missione affidata ai caschi Blu dell’Onu che — come viene adesso sottolineato alla Difesa —- «sono sinonimo di imparzialità, trasparenza e unione d’intenti perché hanno un obiettivo comune: la stabilità e la sicurezza nel sud del Paese e, di riflesso, nell’intera regione medio-orientale». Per questo Trenta ci tiene a sottolineare che si tratta «di una questione di metodo, non di politica estera, che compete ovviamente a Palazzo Chigi e al Ministero degli Affari esteri. I rapporti con Israele e la stessa comunità ebraica sono solidi ma noi dobbiamo fare in modo che tutto il governo lavori compatto per la sicurezza».
A Roma sono arrivati proprio ieri i rappresentanti di Francia, Spagna, Portogallo, Marocco, Mauritania, Malta, Libia, Algeria e Tunisia per un vertice «5+5» tra Stati europei e del Mediterraneo. Un’occasione di cooperazione internazionale che servirà a discutere di immigrazione e terrorismo e sarà segnato dal passaggio di consegne con il comando alla Libia. E anche per questo l’uscita di Salvini è stata subita come «inopportuna» dagli stessi vertici militari che hanno sottolineato la necessità di «marcare il nostro ruolo super partes, vicini a Israele e al popolo libanese, come ci è sempre stato riconosciuto». E in questo modo, evidenzia Trenta «non mettere mai in dubbio la nostra credibilità».

Repubblica 12.12.18
Gli equilibri nella regione
Quel miracolo di pace dei nostri caschi blu che ora è in pericolo
Il generale Del Col stava gestendo la crisi dei tunnel con il presidente libanese.
Adesso saremo ancora ritenuti super partes?
di Gianluca Di Feo


Questa mattina pattuglie di caschi blu italiani attraverseranno i villaggi libanesi a ridosso della frontiera.
Lo fanno da dodici anni, da quando la nostra mediazione pose fine all’invasione israeliana e ai lanci di razzi dei miliziani. Da allora mantengono calmo il confine più caldo del pianeta, quello dove si decidono i destini del Medio Oriente. Da allora, la popolazione appartenente alla comunità sciita che si riconosce nel movimento Hezbollah li ha sempre guardati con rispetto: una forza super partes che garantisce la pace. Ma ora tutto potrebbe finire.
Matteo Salvini ieri ha deciso di cambiare la politica estera italiana. Il vicepremier con una sola frase ha spostato la linea del governo e vanificato gli sforzi diplomatici e militari di un intero paese. Ha chiamato Hezbollah "terroristi islamici". Una posizione che né l’Unione europea, né l’Onu, né tantomeno i precedenti governi di destra e sinistra hanno mai condiviso, pur ritenendo alcuni esponenti del movimento sciita responsabili di gravi attentati. Salvini invece si è schierato dalla parte di Washington e, ovviamente, di Israele. Ma nelle questioni mediorientali la situazione è più complessa di un tweet e sono le sfaccettature a fare la differenza.
Hezbollah ha un doppio volto, armato e politico, pienamente inserito nelle dinamiche parlamentari di Beirut. Cosa che evidentemente il leader leghista ignora, poiché ha definito Israele "baluardo della democrazia nella regione": anche il Libano è una democrazia, fragile e multiconfessionale, che sopravvive alle ferite di un terribile conflitto civile.
La svolta di Salvini è avvenuta nel momento di massima tensione.
Israele ed Hezbollah, principale alleato dell’Iran e del regime di Assad, stanno combattendo una guerra parallela in Siria. Poi la scorsa settimana sono stati scoperti i tunnel scavati dai miliziani di Hezbollah per penetrare nel territorio israeliano e il confronto si è spostato sul confine libanese. In mezzo c’è il contingente Unifil, guidato dal generale Stefano Del Col, con 1.100 soldati della brigata Garibaldi e altri 2600 caschi blu.
Ieri, proprio mentre il vicepremier atterrava in Israele, il comandante Del Col stava incontrando il presidente libanese Michel Aoun, cristiano e principale alleato politico del movimento Hezbollah. Hanno parlato di come impedire l’escalation: l’ufficiale ha presentato i risultati delle verifiche condotte dall’Onu, valutando le misure dell’esercito libanese per neutralizzare i tunnel ed evitare ritorsioni israeliane. Ogni passo in quel terreno minato richiede enorme cautela: in gioco c’è il futuro dell’intera regione, perché un attacco contro Hezbollah potrebbe coinvolgere l’Iran. Tra Libano e Israele, formalmente in guerra, non esistono canali di comunicazione, ma gli italiani sono riusciti a inventare una soluzione: convocano i generali dei due Paesi in un edificio sul confine, permettendo così di discutere i problemi faccia a faccia. La scorsa settimana c’è stato uno di questi vertici, chiuso con l’accordo che affida all’Onu le ispezioni sui tunnel. Del Col aveva detto: «Tutte le parti devono rendersi conto del rischio che un incidente possa provocare conseguenze imprevedibili». E aveva invitato ad abbassare «l’alto livello di retorica». Parole troppo sagge per l’inarrestabile protagonismo di Salvini. Non a caso dal ministero della Difesa hanno sottolineato i rischi a cui espone i nostri soldati: Elisabetta Trenta è stata ufficiale in Libano. Sa cosa significa pattugliare un villaggio sciita, dove tanti dispongono di armi potenti ma tutti rispettano gli italiani. E sa come ora il clima potrebbe cambiare.

Repubblica 12.12.18
Luciano Canfora "Io, Artemidoro e la mia guerra ai falsari geniali"
Dopo la sentenza della Procura di Torino, parla lo studioso che aveva considerato il Papiro sin dall’inizio una truffa. "Chi ha studiato con me è stato vittima di pressioni e minacce. Salvatore Settis? Lo considero ancora un amico"
Intervista di Dario Olivero


Questa storia si può raccontare, come tutte le storie, in molti modi. Uno è quello della procura di Torino: il Papiro di Artemidoro è un falso, non si procede per truffa solo perché il reato è caduto in prescrizione. Un altro è quasi conradiano: il Papiro di Artemidoro è il campo di battaglia di due duellanti, Salvatore Settis che ne ha perorato l’acquisto e difeso l’autenticità fino all’ultimo sangue e Luciano Canfora che fin dall’inizio l’ha messa in dubbio. Un terzo è la detective story con tutti gli ingredienti del noir: un falsario geniale, un venditore oscuro, un acquisto affrettato, svariate autopsie filologiche e scientifiche, misteri, depistaggi, esperti entrati e usciti di scena, molti soldi. E, naturalmente, un investigatore ossessionato dalla verità. Professor Canfora, perché ha dedicato tredici anni della sua vita a dimostrare che il Papiro di Artemidoro è falso? È ossessionato? «Per nulla», risponde al telefono da Bari il giorno dopo la notizia arrivata dalla procura di Torino che gli dà ragione. «Semmai sono uno curioso che desidera sempre andare a fondo. Mi sono occupato e mi occupo di tante cose con la stessa curiosità e, visto che non esistono ossessioni multiple, il Papiro non è la mia ossessione.
Nessuno lascia a metà una ricerca o un problema, bisogna lavorare con disciplina rispettando lo stile che richiede una materia come la filologia».
Ma perché proprio il Papiro?
«Mi imbattei nel Papiro mentre lavoravo su tutt’altro. La mia ricerca mi portò a studiare i modi di ritrovamento e acquisto dei materiali papiracei negli anni Venti e Trenta, un periodo di grande fioritura. Un fondo si trovava a Milano al centro Achille Vogliano. Lì vidi dei lucidi che raffiguravano il cosiddetto Papiro di Artemidoro. Era il 2006, mi chiesero di esprimermi e scrissi un articolo in cui esortavo alla cautela sulla sua autenticità».
E come mai la storia non finì lì?
«L’Enciclopedia italiana, di cui faceva parte anche Settis, mi chiese di scrivere la voce "Papiro" con la precisa richiesta di dare molto spazio a questa novità appena esposta a palazzo Bricherasio. Allora approfondii lo studio e pubblicai sui Quaderni di storia i miei rilievi e li mandai a Settis che mi disse che anche lui all’inizio aveva avuto dei dubbi. Dopo alcune settimane, lo dissi anche in un’intervista. Due giorni dopo su Repubblica apparve un pezzo molto polemico del mio amico che mi chiamava in causa. A quel punto ritenni fosse mio dovere proseguire le indagini».
Lo chiama amico, lo siete ancora?
«Sì, lo siamo tuttora. I rapporti personali non possono essere
intaccati da una disputa accademica».
C’è chi insinua che la sua battaglia fosse motivata dal risentimento per non essere stato chiamato alla Normale di Pisa.
«Ma certo che no. Quell’anno nessuno venne chiamato. Inoltre credo sinceramente che Settis mi fosse favorevole».
È vero che avete condiviso una stanza quando eravate studenti?
«Da studenti abbiamo dormito nella stessa stanza di un pessimo albergo di Taranto, ci stavamo laureando e avevamo ricevuto una colossale borsa di studio da 25mila lire per seguire un convegno. Mi ricordo che Settis chiese una birra ma non avevano neanche quella. Stiamo parlando del ’63: c’era ancora Togliatti».
Ma dai tempi di Togliatti quante volte vi siete sentiti negli ultimi tredici anni?
«Le ripeto, ci siamo visti spesso, per esempio nel consiglio scientifico della Treccani».
Mi aiuti a ricostruire la storia.
Partiamo dal gallerista armeno, Serop Simonian, che vendette il Papiro all’allora Compagnia di San Paolo nel 2004 per 2 milioni e 750 mila euro. Lo ha mai incontrato?
«No, mai. Ha una galleria d’arte ad Amburgo, ma il personaggio è sospetto. Pensi che quando Eleni Vassilika, che poi avrebbe rifiutato il Papiro in comodato d’uso all’Egizio di Torino, era direttrice a Hildesheim aveva già avuto a che fare con lui ed ebbe molti problemi sull’autenticità e provenienza delle opere che trattava.
Avemmo con lui due contatti: il primo fu quando Silio Bozzi, un dirigente della polizia scientifica, gli chiese il negativo di una foto scattata al Konvolut, cioè l’involucro da dove sosteneva provenisse il Papiro, e lui disse di no. La seconda per un invito a un convegno sul Papiro. Non venne».
Veniamo al secondo personaggio: il falsario. Si chiamava Simonidis, non le sarà sfuggita l’assonanza dei nomi dei due protagonisti.
«In effetti deve essere la provvidenza che si è divertita a mettere insieme un greco e un armeno di due secoli diversi nella stessa storia. Simonidis è un personaggio colossale. Non conosciamo né l’anno di nascita né quello di morte. Anzi, diffuse la notizia di essere morto ma in realtà si era ritirato in Egitto, secondo il Times (che non ne era del tutto certo) pare che sia morto in Albania nel 1890».
Falsificò la sua morte?
«Era un genio. Studiò sul Monte Athos dallo zio che era igumeno di uno dei monasteri. Imparò a disegnare teste, profili, imparò la composizione degli inchiostri antichi. Poi andò ad Atene dove pubblicò opere di argomento geografico con uno stile che imita quello bizantino.
Studiò teologia a Istanbul, poi finì in Russia e cercò di smerciare una lista di testi greci che sosteneva aver portato dall’Athos ma l’Accademia di Pietroburgo li respinse. Erano tutti testi geografici come il Papiro».
Professore, se non sapessi che stiamo parlando del Papiro di Artemidoro, direi che lei stima questo falsario come certi detective ammirano i delitti di quelli a cui danno la caccia.
«Non mi sono invaghito, però in effetti so benissimo che la frequentazione assidua porta all’immedesimazione, Plutarco docet. Simonidis riuscì quasi a beffare l’Accademia delle scienze di Berlino.
Ma, come diceva il grande filologo tedesco Wilamovitz: "Un falsario moderno per quanto bravo tradisce sempre la sua modernità"».
E torniamo al Papiro. E alla vittima. Perché la Compagnia di San Paolo lo acquistò? Non c’erano segnali che potesse trattarsi di una imprudenza?
«Nel 2004 nessuno aveva sospetti.
C’era uno studio parziale tedesco del ’98. Certo, si tentò di venderlo anche in Spagna ma la Fondación Pastor sconsigliò, così come il Getty.
Ma allora non era ancora scoppiato il caso. L’acquirente non aveva voci critiche che lo potessero allarmare».
Ma anzi, aveva il parere favorevole di Settis. Cosicché
decise di esporlo in mostra.
«Esatto. Con tanto di sontuoso catalogo dal titolo Le tre vite del Papiro, oggi quasi introvabile».
Immagino non per lei.
«Io ne ho due o tre copie».
Comunque incominciò la sfida che è durata fino a oggi.
«Ma se io non fossi stato sollecitato ad occuparmene non lo avrei mai fatto.
Uno deve disciplinare le energie».
L’archiviazione della procura di Torino sembra chiudere la storia.
Eppure, come in un thriller, c’è un’autopsia ancora in corso. In questo momento il Papiro è a Roma all’Istituto centrale per il restauro. I proprietari, che hanno deciso di non intraprendere nessuna iniziativa legale, vogliono continuare a studiarlo.
Ci aspettano nuovi colpi di scena?
«L’Istituto è un’eccellenza italiana, è giusto che procedano alle analisi, che sono soprattutto sugli inchiostri; ma ha già fornito indicazioni che vanno verso l’accertata modernità del papiro. Essendo scienziati procederanno con dei raffronti su pezzi di scavo per completare il referto».
Ma è giusto studiare un falso?
«Ma il Papiro è un eccellente prodotto moderno come altri prodotti del Simonidis ».
Quanti caduti ha lasciato sul campo la guerra del Papiro di Artemidoro?
«Mi ha colpito che studiosi di grande qualità in ognuno dei rispettivi ambiti siano stati bersaglio di attacchi e ostilità. Oltre alla ex direttrice dell’Egizio e Bozzi ci sono stati altri casi, restauratori, esperti, studiosi.
Sono state fatte pressioni su di loro, alcuni costretti a lasciare il lavoro, altri trasferiti».
Pressioni da parte di chi?
«Posso citare Di Maio che oggi va tanto di moda?».
Se crede.
«Una manina misteriosa non so di chi».
E dal mondo accademico ha avuto più solidarietà, ostilità o indifferenza?
«Quando Mussolini fu arrestato il 25 luglio del ’43 un vicino di casa abbraccia un noto antifascista del suo stesso palazzo e gli dice commosso: finalmente. E il vicino gli risponde: me lo dovevi dire prima».

Repubblica 12.12.18
Quel giorno in cui scrissi che Canfora aveva ragione
di Anna Ottani Cavina


Un papiro colpito da "bombe intelligenti".
Rovinato sì, ma con elementi che si leggono senza difficoltà, perché le lacune non compromettono la comprensione dell’immagine, girano senza mai centrare il cuore del disegno. Lo stesso accade alle righe del testo greco, che corrono talvolta intorno ai buchi del papiro secondo quella che è una prova classica di falsificazione, come — prima di tutti — con la sola forza dell’analisi filologica, stabilì Luciano Canfora. Così mi appariva il Papiro di Artemidoro, la cui autenticità divenne oggetto di una battaglia culturale, combattuta nelle sale delle università. Ma anche sulle pagine dei principali quotidiani nazionali, che enfatizzarono la sfida tra i "duellanti" Canfora e Salvatore Settis, a favore della datazione antica. Su Repubblica intervenni il 6 novembre 2008, dieci anni fa, in seguito a una discussione rigorosa e avvincente che qualche settimana prima a Bologna, nelle sale dell’Archiginnasio aveva coinvolto archeologi classici, egittologi, storici, filologi, storici dell’arte.
Sembrava un’università d’altri tempi con gli studenti attentissimi e conquistati e docenti impegnati a riflettere e a farsi capire. Come allora cercavo di spiegare, sulla base della mia esperienza, quella di chi frequenta mondi e secoli molto diversi, quei disegni mi sembravano figli di una cultura visiva post-Ingres con un timbro arcaizzante e non arcaico, che rimandava a una ricerca neoprimitiva che dalla fine del Settecento percorre gran parte dell’Ottocento. In quel manoscritto, la trascrizione della realtà, nonostante la qualità relativa dei disegni era vicina all’estetismo dei preraffaelliti e di Gustave Moreau. In altre parole, il rapporto troppo debole tra queste immagini e la statuaria antica risultava sospetto. Nel puzzle del mondo antico, questi disegni sarebbero stati un unicum che avrebbe scompaginato la conoscenza dei metodi di produzione artistica. Anche l’impaginazione per frammenti disegnati in uno spazio libero, secondo una tipologia più moderna codificata dalle tavole dell’Encyclopédie, andava in questa medesima direzione.
«Non esistono confronti coevi rappresentativi» ammetteva d’altronde Salvatore Settis.
Anche i disegni dunque, che pure sono un fatto marginale rispetto ai rilievi condotti sul testo, la lingua, le mappe geografiche, il cartonnage, confermavano quella "lettura" documentata e a tutto campo che del Papiro di Artemidoro aveva da subito proposto la competenza di Luciano Canfora.

Repubblica 12.12.18
La vera storia di Cleopatra è un dark-thriller politico
Un saggio narrativo di Alberto Angela sulla più celebre primadonna del mondo antico
di Marino Niola


Senza Cleopatra il mondo non sarebbe lo stesso. La sua bellezza leggendaria, la sua intelligenza spiazzante e la sua cultura raffinata ne hanno fatto l’indiscussa primadonna sulla scena dell’antichità. La protagonista assoluta di quel periodo tempestoso che va dall’uccisione di Cesare alla nascita dell’impero augusteo.
Adesso, tutto quello che avreste voluto sapere sulla mitica regina e che non avete mai osato chiedere, lo trovate nel nuovissimo libro di Alberto Angela, Cleopatra. La regina che sfidò Roma e conquistò l’eternità (Rai Libri e HarperCollins, pagine 446, 20 euro).
Un testo, dotato di immagini e cartine, che illumina il pubblico e il privato della donna più chiacchierata, amata e odiata di sempre.
Angela, con il talento del narratore e l’immediatezza comunicativa del divulgatore ricostruisce l’affaire Cleopatra seguendola come un reporter.
Minuto per minuto, ora per ora, domus per domus. La pedina con il suo passo felpato, mettendo sempre i fatti al centro della narrazione.
Sia gli eventi storicamente accertati, sia quelli ricostruiti attraverso indizi, congetture, intuizioni. Il risultato è un affresco storico avvincente e convincente. Pieno di azione e di emozione.
Come quando racconta la reazione della sovrana d’Egitto che, nella sua lussuosa villa al di là del Tevere, riceve la notizia dell’assassinio di Cesare. In quel momento in cui il futuro del suo Paese e dell’intero Mediterraneo è sospeso come sulla lama di una spada, il crollo del suo progetto politico si sovrappone alla fine del suo sogno d’amore e alla sua inquietudine di madre per la sorte del figlio Cesarione.
E mentre il popolo romano interrompe i festeggiamenti in onore della dea Anna Perenna si chiude in casa fra timori e tremori.
L’autore lancia i protagonisti della vicenda come dadi sul panno verde della storia.
Antonio, Bruto, Cassio, Ottaviano, Agrippina, Mecenate. Col trascorrere delle pagine «questi dadi, rotolando e piroettando, prima di fermarsi mostreranno una faccia vincente, poi una perdente, poi di nuovo una vincente e così via, in un crescendo di tensione in cui non si capirà mai chi stia per trionfare».
Da narratore accorto, Angela crea e ricrea, sequenza dopo sequenza, un clima di suspence, come in un giallo di cui è noto l’epilogo, ma sono molto meno chiare le trame e i retroscena che conducono il thriller verso la sua conclusione.
Insomma oltre l’aspide c’è di più. C’è perfino il sospetto che fosse un cobra. O addirittura che la donna abbia bevuto un cocktail letale, il che scagionerebbe il serpente.
Angela sottopone la vicenda a un trattamento cinematografico. Pieno di inquadrature inaspettate, di particolari dimenticati, di messe a fuoco rivelatrici.
Come quella dove Cleopatra, vestita da Afrodite sotto un baldacchino d’oro nella sua barca dai remi d’argento, seduce Antonio in un’atmosfera tra l’erotico e l’estatico.
In realtà dietro quella scintillante spirale di languore c’è il lucidissimo disegno della regina che cerca protezione per il suo regno, vuole tracciare dei confini entro cui essere amata, come le farà dire Shakespeare.
Bella e non solo, dunque. In questo senso l’autore ha il merito di aver fatto emergere, dietro la maschera della femme fatale, della «Cleopatràs lussuriosa» come la chiama Dante, la realtà di una donna ricca e colta, maestra dell’arte della persuasione e grande mediatrice tra Oriente e Occidente.
Un grande simbolo di quella globalizzazione prima della globalizzazione che fu l’ellenismo. In effetti il racconto di Alberto Angela fa uscire Cleopatra dal mito per farla entrare nella storia e infine la restituisce al mito. Ma con tutti gli onori.





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