sabato 8 dicembre 2018

La Stampa 8.12.18
Piccole larve in cerca di vita
Muro Messico-Usa - Ci sono Mirna, ma anche il piccolo Kevin. E poi Ashley e Oliver. Strisciano, si infilano e sperano, invano, di non tornare più indietro
di Fabio Bucciarelli

Il muro di confine taglia il paesaggio lunare come una lama. Di qui, il Messico, dall’altra parte, il luccicante Sogno Americano. Ed è proprio il sogno, quella speranza – più volte vana – di una vita migliore, il motore che spinge i migranti ad attraversare Paesi, a percorrere migliaia di chilometri con addosso la loro vita racchiusa in uno zainetto. Verso gli Stati Uniti.
Siamo a Tijuana, terra di confine, e come spesso accade, di traffici illeciti e di banditi. Qui, dove si respira l’America ma si parla ancora spagnolo, percorro la zigzagante autostrada verso Tijuana’s beach. Lasciata la città e le sue baracche, attraverso il Canyon del Matadero (nome che evoca la macellazione degli animali): un territorio di passaggio controllato ripetutamente da vedette americane e, da questo lato del border, da roboanti furgoncini messicani.
Da lontano vedo muoversi piccole figure. Uomini in uniforme che, come caricati a molla, cercano la loro preda: una manciata di migranti intenti a fare il grande salto. “Para! Para!” urlo al tassista che impaurito inchioda. Scendo velocemente dalla macchina, e cerco un punto panoramico per riuscire capire cosa stia succedendo.
Il confine appare come un lungo serpente senza testa: in pancia, un gruppo di migranti intrappolati fra il muro e il filo spinato. Sono riusciti ad attraversare il primo ostacolo, e a calpestare il territorio americano, ma questo non basta. Con le nuove leggi restrittive sull’immigrazione dell’amministrazione Trump, negli ultimi mesi il confine è stato rinforzato, cosparso di filo spinato. Chilometri di terra diventati l’incubo de los gringos.
Su e giù lungo la scoscesa collina, a ogni passo scendo nel girone infernale costeggiando il muro verso fondo valle. Si sentono le voci dall’accento honduregno. E i pianti dei bambini, tra gli sguardi atterriti delle loro madri e la stazza dei militari americani che, giunti sul posto, si piazzano davanti a loro, come a volere bloccare ulteriormente il passaggio.
Con il muro fra me e la realtà – come se non volesse farmela vedere, farmi raccogliere questi frammenti di vita – cerco un buco lacerato nelle lamiere metalliche per inserire il braccio, o almeno l’obiettivo. Le parole, le voci, invece passano, attraversano. “Non potete oltrepassare il filo spinato. Se i vostri figli si feriranno, vi manderemo in carcere. E sarà peggio per voi” dicono i militari alle giovani donne. Il tempo scorre lento fra minacce e speranze infrante, quando, dopo circa due ore, oramai esasperate, le donne desistono. Per un momento erano riuscite ad agguantare la speranza, ma ora, che è persa, bisogna tornare indietro, e attraversare ancora una volta il muro: in direzione contraria, però, verso il Messico.
Attraverso un pertugio invisibile ai più, esce il piccolo Kevin e le sue esili gambe seguite penzoloni dal resto del corpo, afferrato dal braccio della madre. Xinia ha solo 19 anni ma molti chilometri alle spalle. Una dopo l’altra escono Mirna, Darielle e Fabiola, seguite dai loro bambini. E poi ancora Ashley e Oliver, rispettivamente 10 e 7 anni: loro soli, senza le madri già entrate mesi fa nel territorio americano. Dall’Honduras si sono uniti alla Caravana, con il desiderio di ricongiungersi alle lori madri. Spaventate dal timore della deportazione, risalgono la collina con sguardo attonito alla ricerca della polizia di confine, questa volta messicana.
“No nos vamos a deportar, ven por favor!” parole che rompono il ghiaccio e spezzano l’incubo del rimpatrio. Ora tutto sembra più semplice, e il tempo riprende il suo corso. Finalmente riesco a guardare negli occhi le donne, prima che l’oscurità scenda nel Canyon.
Mirna beve assetata. Quarantatré anni, e una vita che molti noi non riuscirebbe nemmeno a concepire. Ha avuto solo un giorno per lasciare tutto quello costruito, per abbandonare affetti e speranze, per non correre il rischio di essere uccisa dai sicari per non aver pagato il pizzo per il suo piccolo negozio. Ventiquattro ore di tempo per prendere l’unica figlia rimasta a casa, e migrare verso il Sogno Americano. “In Honduras non posso più tornare, hanno ucciso mio figlio e strangolato mia madre, mi rimane solamente lei…”, indicando la figlia di 10 anni. La figlia si chiama Mirna: porta il suo stesso nome. Come volesse darsi, lei, Mirna, la madre, una seconda possibilità. “Almeno lei si merita di vivere lontano dalla violenza. Almeno lei si merita una vita”.