venerdì 7 dicembre 2018

La Stampa 7.12.18
Filosofia contemporanea
di Mattia Feltri

Fra i numerosi e interessanti dibattiti di ieri, il più suggestivo, da un punto di vista della speculazione filosofica, si è animato attorno al seguente dilemma: è giusto o no picchiare una rom che cerca di derubare un passeggero della metropolitana? Perché anche voi possiate esprimervi, ecco i dettagli: Giorgia Rombolà, giornalista della Rai, a una fermata della metro di Roma vede una giovane rom, con bambina di tre o quattro anni al seguito, immobilizzata dai vigilantes. Quello che si presuppone essere l’obiettivo dello sfumato furto, un uomo di dimensioni considerevoli, nonostante i vigilantes riesce a colpire la ladruncola, e si accanisce con la forza dell’offeso, pure in testa, finché afferrandola per i capelli non la sottrae alle guardie. E lì fa valere le sue ragioni di cittadino onesto: prende la donna e la sbatte contro il muro quattro o cinque volte (intanto che la bambina piange), e chiude l’operazione scaraventandola a terra. Rombolà, che prova a difendere la malmenata, viene dichiarata dagli altri passeggeri comunista, radical chic e pure puttana, termine che in questi mesi vive una seconda giovinezza. Ora, non sappiamo se il pestaggio rientri nei confini della legittima difesa, ma conta che, pur battendosi valorosamente, gli sfavorevoli sono stati sconfitti dai favorevoli, guidati dall’ironico ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno («non si può più rubare in santa pace»), e su gol di un implacabile bomber del pensiero che la zingara l’avrebbe lanciata sui binari. Bene amici, alla prossima; discuteremo sul tema: secondo un calcolo costi-benefici, è conveniente dare fuoco agli stupratori negri?

il manifesto 7.12.18
Karl Marx impigliato nel futuro
Percorsi. Un sentiero di lettura, in cinque libri di recente pubblicazione, per orientarsi nel bicentenario del pensatore di Treviri. Un modo per rimettere al lavoro il Moro, evidenziandone i «punti di stress»
di Benedetto Vecchi


Due secoli separano il presente dall’anno di nascita di Karl Marx. In termini di anni (duecento), l’immagine evocata è quella di un uomo e di un’opera di altri tempi, ottocentesca. Eppure la sua critica all’economia politica, la sua antropologia filosofica, la sua militanza politica hanno condizionato gran parte del Novecento. Era quindi prevedibile che studiosi – marxisti e non solo – facessero i conti con la sua eredità teorica. Molte sono state le pubblicazioni dedicate al Moro. Difficile individuarne contorni netti, tuttavia. Ne esce semmai una costellazione tematica, talvolta sfuggente.
In primo luogo, emergono quelli che David Harvey ha chiamato i «punti di stress» dell’opera marxiana. La teoria del valore lavoro, la distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo, la definizione della necessità di una organizzazione politica che valorizzasse l’autonomia della classe operaia. La polarità tra una tendenza globale del capitale (la formazione di un mercato mondiale, o per usare una espressione di Etienne Balibar di «capitalismo assoluto») e una «nazionalizzazione» della base economica del capitalismo stesso.
Marx, va da sé, nazionalista mai lo è stato. Negli scritti indirizzati all’Associazione internazionale dei lavoratori o nei pamphlet «politici» ha infatti sempre criticato ferocemente ogni cedimento nazionale dei gruppi militanti. Trovarlo descritto, come ormai spesso accade, sia a destra che a sinistra, come un «sovranista» restituisce solo la miseria della filosofia politica contemporanea.
CHI SI PROPONE di gettare un po’ di luce su questa costellazione è Roberto Finelli in Karl Marx. Uno e bino (Jaca Book, pp. 287, euro 25), che con una felice idea scandisce la riflessione, interrompendo la linea che dal passato porta al futuro, invertendo cioè il ritmo: c’è prima il futuro, poi il presente (lo stato dell’arte della critica marxista al capitalismo) per infine chiudere sul passato (il marxismo storico).
Il futuro di Finelli è la dichiarazione di un percorso di ricerca in divenire, ma del quale alcune tappe sono state comunque segnate. Il filosofo dell’astrazione reale segnala in primo luogo la irrinunciabile necessità di rompere lo schema evoluzionista, determinista di una filosofia della storia marxista che fa del comunismo una sorta di approdo obbligato, dettato da leggi di movimento oggettive che cancellerebbero la tensione a una libertà radicale per la quale serve mettere al lavoro la coppia filosofica «individuazione e riconoscimento di sé».
Individuazione significa fare i conti con l’antropologia della povertà e dello sfruttamento nel capitalismo, mentre il riconoscimento del sé significa un esercizio della differenza che tiene aperta, appunto, la possibilità di una libertà radicale. Da qui l’evocazione della psicoanalisi come elaborazione «altra», propedeutica alla produzione di soggettività politiche adeguate al presente.
IL BANDOLO DELLA MATASSA ha però fili e fila da tirare, come quello della biografia di Marx.
Paolo Ferrero e Bruno Morandi si inoltrano così su quel tornante, facendo leva su una evidente attitudine pedagogica rispetto le sue opere (Grundrisse e Capitale), convinti i due autori che la desertificazione politica di questi anni abbia quasi azzerato la conoscenza dell’opera marxiana. Il loro libro Marx. Oltre i luoghi comuni (DeriveApprodi, pp. 240, euro 14) passa in rassegna la perigliosa e romantica vita del Moro, ma anche la teoria del valore lavoro, il ruolo della finanza, dello stato. Di tutt’altro spirito, ma con evidenti punti di contatto metodologici con questo volume è poi l’ambiziosa monografia di Marcello Musto su Karl Marx (Einaudi, pp. 326, euro 30).
Sono anni che Marcello Musto svolge un lavoro certosino sulle fonti del pensiero marxista. In questo libro ci sono pagine dedicate ai pamphlet incendiari come il Manifesto del partito comunista, La critica al programma di Gotha, le vicende e gli scontri feroci che videro Marx e Engels battagliare contro anarchici, repubblicani (Giuseppe Mazzini era disprezzato dal Moro), socialisti utopisti. Un libro che smentisce l’immagine di un Marx autoritario e settario, restituendo invece la profonda convinzione che la liberazione della classe operaia potesse venire solo dalla classe operaia stessa e non da qualche dirigente illuminato o da un gruppo selezionato di giacobini, per quanto comunisti fossero.
I TANTI LIBRI USCITI segnalano, tuttavia, un certo prosciugamento del bacino di lavoro intellettuale su Marx. Conferisce evidenza a questa difficoltà il tono un po’ mesto di molti interventi presenti nel volume curato da Stefano Petrucciani Il pensiero di Karl Marx (Carocci editore, pp. 381, euro 35), dove compaiono autori che si ritrovano anche in quello curato da Chiara Giorgi per manifestolibri (Rileggere il capitale, pp. 245, euro 20).
Il libro si caratterizza per un tentativo di rompere lo schema da una certa scolastica marxista. Stefano Petrucciani, ad esempio, affronta il tema della libertà, all’interno di un disegno nel quale le proposte politiche di Marx vengono qualificate come una anticipazione – tesi molto azzardata – del welfare state novecentesco. Il diritto borghese diseguale individuato dall’autore è funzionale alla lunga transizione che dovrebbe portare all’operatività, ma solo alla fine, della massima «a ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno a secondo la sua capacità». Fino ad allora, il diritto non può che essere contraddittoriamente diseguale.
COSA FARNE ALLORA dell’eredità marxiana? Con una mossa a sorpresa, felicemente inaspettata, Sandro Mezzadra e Mario Espinoza Pino invitano a aprire laboratori marxiani facendo tesoro degli scritti giornalistici, legati alla contingenza, di Marx. Il giornalismo, quello sulle lotte di classe in Francia, sulla Comune, sulle corrispondenze per lo statunitense New York Tribune è interpretato come un laboratorio dove il Moro ha messo a fuoco i problemi da sciogliere nella sede adeguata – i tempi lunghi della riflessione – ma alla luce delle necessarie messe di dati, fondamentali per lo sviluppo delle sue categorie.
I due autori segnalano inoltre che sono scritti giornalistici che rompono la gabbia dell’accusa di eurocentrismo rivolta Marx, giungendo ad abbozzare – in base a quanto stava accadendo in Cina, Russia, India, Africa – una vision «multilineare» dello sviluppo capitalistico. In questa direzione va il saggio di Etienne Balibar contenuto nel libro curato da Chiara Giorgi (Rileggere il capitale).
Il filosofo francese prova a individuare i punti di stress della teoria marxiana per poi sviluppare una concezione del «capitale assoluto» e del «debito ecologico».
Un vento lieto lo portano infine altri due testi, Quelli di Alisa Del Re e Giso Amendola. La prima introduce i temi del lavoro di riproduzione, di cura, relazionale, del lavoro semplice e gratuito.
UNA PROSPETTIVA femminista che entra in rotta di collisione con l’economicismo di molto marxismo ortodosso. Aria fresca, specialmente quando la filosofa italiana dice che la ricchezza degli anni Settanta non sta solo nell’immaginare e praticare altre relazioni sociali, ma nel saper tenere insieme diritti civili e sociali, spezzando cioè la gabbia che separa individuale e collettivo. Le singolarità e la loro irriducibilità a sintesi governate dall’alto. Il partito politico di massa, tanto nelle sue varianti socialdemocratiche che leniniste, non è stato messo in scacco solo dal perfido capitale ma è stato sottoposto alla critica roditrice del conflitto di classe. Pensare di ricostruirlo come se niente fosse accaduto, consegna chi lo propone a risibili risultati elettorali e politici da prefisso telefonico.
LIBERTÀ INDIVIDUALE e libertà collettiva, dunque. Da inventare, praticare. È quello che fa lo «stato di agitazione permanente» delle donne di questi ultimi anni, che sgombera il campo da polarità tra i muscoli esibiti in qualche riot metropolitano scandito da gilet gialli e l’autodeterminazione di chi pensa che il proprio «lavoro elementare» (di cura, riproduttivo) con la ricchezza abbia molto a che fare. E sulla tensione tra produzione di soggettività e astrazione insiste Giso Amendola, mettendo in rapporto Marx e Foucault, stabilendo assonanze e dissonanze, foriere di inediti e proficui sviluppi.
Sono due testi che chiariscono molte delle dinamiche sociali, culturali, politiche dentro questo vischioso presente. Hanno inoltre il pregio di sgomberare il terreno dalle sciocchezze sui «conflitti di identità», la retorica delle «guerre culturali», invitando a immaginare e prendere in considerazione che la singolarità e frammentazione del lavoro vivo dentro il conflitto del capitale non necessariamente fa suo il lessico della rivendicazione economica, ma indugia – e quindi valorizza – su quello delle forme di vita, della relazionalità in divenire.
IL NODO, all’interno questo scenario, resta quindi quale organizzazione politica darsi. Il modello reticolare è una opzione, certo, senza però chiudere gli occhi: quella che sembra costituire una soluzione può rivelarsi, come accaduto nei movimenti globali di queste due decadi del nuovo millennio, un problema aggiuntivo.
VA DUNQUE RESPINTA ogni tentazione di scolastica marxista, di riattraversamento di tradizioni politico-culturali che non aiutano a comprendere il presente. È questo l’unico modo per mettere nuovamente al lavoro Marx. Riprendere cioè il lavoro della talpa. Per rompere la gabbia di un eterno presente. E aprire, con quel gusto per il paradosso e l’azzardo teorico e politico tipicamente marxiano, una strada che dia vita a una prassi teorico politica radicale. E comunista.

Il Fatto 7.12.18
Spataro contro Anm: “Sorpreso dal silenzio sul caso Salvini”
di Andrea Gianbartolomei


“Io non ho alzato i toni. Ho soltanto ricordato le competenze esclusive dell’autorità giudiziaria”. Il giorno dopo la discussione che ha animato la magistratura e le sue correnti, il procuratore di Torino, Armando Spataro, torna sulla polemica a distanza col ministro Salvini, che martedì mattina aveva annunciato un’operazione di polizia rischiando di compromettere, a dire del magistrato, gli arresti.
L’operazione condotta dalla Squadra mobile torinese è terminata soltanto mercoledì sera con l’arresto a Padova di uno degli indagati. Nove sono gli arrestati sui 15 destinatari della misura. Spataro ha voluto ricordare che la Procura era l’“unica competente in ordine alla direzione delle indagini, al rilascio della delega per la esecuzione di provvedimenti cautelari e alla gestione e autorizzazione alla diffusione delle conseguenti informazioni”. Il procuratore si è poi detto “sorpreso” dal silenzio della Giunta dell’Anm e dalle parole del presidente Francesco Minisci, che mercoledì invitava a portare avanti il confronto “abbassando i toni”. “Non ci sono toni da abbassare da parte mia”, ha affermato Spataro.
L’Anm non ha difeso il magistrato e questo non è piaciuto, ad esempio, all’Anm Liguria, per la quale il silenzio rischia di “delegittimare il ruolo stesso dell’associazione”, e ad Area: “Ci sembra incredibile che possa passare sotto silenzio, o essere in qualche modo giustificato, l’intervento di un ministro – sostiene la corrente progressista della toghe –. Ma ancora più incredibile ci sembra ignorare le reazioni scomposte e il tono di dileggio”. Secondo Area queste reazioni sarebbero “unicamente da stigmatizzare” perché “se consentiamo oggi queste modalità facciamo diventare normali certi toni che sino ad ora erano ignoti nei rapporti tra istituzioni, giungiamo a legittimare un imbarbarimento che danneggerà tutti”.

Il Fatto 7.12.18
La sinistra implode: dove andranno i suoi 6 milioni di elettori?
di Antonio Padellaro


Non gioco più me ne vado, cantava Mina: potrebbe essere la canzone del cupio dissolvi Pd, di cui Marco Minniti è l’ultimo esempio. Soltanto diciotto giorni in corsa per la segreteria e, d’un tratto, non gioco più davvero. “Per salvare il partito”, sostiene, “un gesto d’amore per consegnare una leadership forte e determinata alle primarie”. Che, però, difficilmente sarebbe potuta essere la sua, come da sondaggi che lo vedevano di poco sopra il 30%, e di poco sotto Nicola Zingaretti (Minniti non sembra tipo da secondo posto).
Insieme all’ex ministro degli Interni, dalle parti del Nazareno sono in tanti a non giocare più. Due ex premier. Enrico Letta, esiliatosi a Parigi dopo l’estromissione da Palazzo Chigi (stai sereno un corno). Paolo Gentiloni, in modalità stand by e segreteria telefonica (lasciate un messaggio, sarete richiamati se mi gira). Senza contare uno storico ex segretario: Walter Veltroni, le cui improvvise dimissioni, nel 2009, restano tuttora un mistero doloroso (la sconfitta del partito in Sardegna? Via non facciamo ridere). E un padre fondatore: Romano Prodi, che alla parola Pd oggi ammutolisce. Non gioca più Gianni Cuperlo, autorevole coscienza critica (e autocritica) di cui si sono perse le tracce. Per non parlare di Pippo Civati e dei tanti che se ne andarono senza toccare palla.
Infine: Matteo Renzi. Se fossero vere le indiscrezioni che lo vogliono presto fuori dal Pd, alla testa di un movimento della “società civile” (non mi dire), verrebbe da chiedersi se il travolgente leader del 41%, oggi al culmine della discesa, non abbia deciso di autorottamarsi. Se anche portasse via, e non è detto, il 10% di quel 16% e rotti attualmente attribuito ai Democratici avrebbe soltanto certificato la sua irrilevanza politica. Riuscendo a distruggere definitivamente il Pd, che forse è la sua vendetta (La vita è un letto sfatto, io prendo quel che trovo e lascio quel che prendo dietro me: sempre Mina).
Al di là dei destini personali, la domanda riguarda le ragioni profonde dell’implosione caratteriale di un partito capace di fare più opposizione a se stesso che al governo.
Matteo Renzi regnante, fu proprio Cuperlo ad ammettere che se anche “troppe brave persone, troppe passioni e competenze, troppi voti” avevano abbandonato il partito, “perché incompatibili con tono, vocabolario, rudezza del Capo”, non vedeva un nesso decisivo tra “l’origine del nostro scontento e un corpo estraneo a noi”. Una progressiva fiacchezza, dunque, non imputabile soltanto alle reciproche insofferenze interne, o alla “generale manifestazione di sfiducia, che si è saldata con l’onda nazionalpopulista di cui abbiamo sottovalutato le dimensioni” (Gentiloni). Siamo probabilmente all’esaurimento di una spinta propulsiva che la sinistra italiana ha già conosciuto in passato (Pci). Capace però di rinascere dalle proprie ceneri (dal Pds ai Ds al Pd). Con due differenze. La continuità delle classi dirigenti che hanno tenuto in piedi la Ditta attraverso l’esercizio del potere, e qualche lifting. E il voto di chi si turava il naso, magari per non darla vinta a Silvio Berlusconi.
Adesso allo squagliamento dei vertici potrebbe seguire quello della base. Tra protagonismi e ripicche, di quei sei milioni di voti che il 4 marzo, malgrado tutto, diedero una chance al Pd, se ne occupa qualcuno?

il manifesto 7.12.18
Renzi, la sua «cosa» a gennaio. Pd, conta fra chi resta e chi va
Democrack/ Primarie Pd. Corrente allo sbando, parte l’hashtag: #iorestonelPd, ipotesi di non sostenere nessun nome. C’è l’urgenza di trovare una nuova candidatura per evitare che ci troviamo di fronte due mezzi partiti, nessuno dei quali motivante perché poco utili all’Italia
di Daniela Preziosi


Il giorno dopo il braccio di ferro che ha convinto Marco Minniti a ritirarsi dalla corsa per le primarie Pd, la parola d’ordine del Pd è: «tutti fermi». Su Repubblica campeggia l’intervista del ex candidato con un nuovo appello all’unità: «Spero che non ci sia alcuna scissione. Sarebbe un regalo ai nazionalpopulisti». Renzi da facebook risponde con tono sprezzante verso i suoi, quasi già ex: «Chiedetemi tutto ma non di fare il piccolo burattinaio al congresso del Pd», «Non chiedetemi di stare dietro alle divisioni del Pd perché non le capisco, non le condivido, non mi appartengono», «Da mesi non mi preoccupo della Ditta Pd: mi preoccupo del Paese». Nella sua lingua il Pd è già ridotto al rango della «Ditta», quella Bersani&D’Alema, quello che per lui era il partito dei gufi, rosiconi e perdenti.
CON I SUOI BUTTA ACQUA sul fuoco della scissione: la nuova «cosa» non è alle viste, forse non arriverà neanche per le europee, giura di non voler portare con sé nessun dirigente. Smentisce Dagospia che data la nascita del nuovo soggetto al 16 dicembre, in occasione della prima riunione romana del movimento «Cittadini!». Smentisce anche Sandro Gozi a cui viene attribuita la paternità dell’iniziativa. Gozi ci sarà, ma da ospite. L’ex sottosegretario agli affari europei per Renzi è la chiave d’ingresso nei palazzi di Bruxelles, l’uomo che parla con Macron e con gli spagnoli di Ciudadanos.
E DAGLI INCONTRI di mercoledì a Bruxelles la road map della nuova creatura renziana esce abbastanza definita: lancio entro gennaio per arrivare a fare una lista europea e dunque una formazione che faccia da ago della bilancia per una coalizione fra socialisti e liberali. In modo da non consentire agli antieuropeisti di essere determinanti per il governo della prossima Unione. «Se il Pd resta fermo al centro dei vecchi Socialisti e democratici non avrà nessuna capacità espansiva». Naturalmente questa creatura descritta come «non conflittuale» con il Pd però ne contenderebbe i voti – «ma pescherà anche a destra», viene assicurato.
C’È QUALCOSA DI TROPPO FACILE in questa fantasia europeista: le firme da raccogliere per partecipare a voto sono moltissime per un movimento senza organizzazione. Ma questa sarà un’altra storia, ammesso che Renzi non cambi idea nel frattempo.
A sera su Radio1 lui ancora smentisce: «Di scissioni ne abbiamo viste già abbastanza. Non è all’ordine del giorno e non sto lavorando all’impostazione di qualcosa di diverso», dice. E perché non l’ha detto il giorno prima a Minniti?
NON L’HA VOLUTO DIRE. E ora il Pd renziano è allo sbando, la corrente è in confusione, oggetto delle attenzioni dei due candidati destinati allo spareggio, Martina e Zingaretti. Per il costituzionalista Stefano Ceccanti, dell’area liberal (Libertà Eguale) con questi candidati è impossibile andare a congresso: «C’è l’urgenza, nelle prossime ore, di trovare una nuova candidatura per evitare che ci troviamo di fronte due mezzi partiti, nessuno dei quali minimamente motivante, perché poco utili all’Italia». Ma chi? Scese le quotazioni di Teresa Bellanova, c’è chi ipotizza di convincere Paolo Gentiloni come candidato unitario, chi propone di fermare il congresso. Ma sono ipotesi della disperazione.
LORENZO GUERINI, presidente del Copasir, invocatissimo dai suoi, si blinda tutto il giorno in un provvidenziale convegno della Nato Foundation. Non prima di aver ribadito di non essere disponibile. Sale l’ipotesi di non sostenere nessuno. Sarebbe deflagrante, come e più dell’abbandono dell’ex segretario. «Oggi è tutto fermo», giurano tutti. Eppure a Palazzo Madama viene riferito di conciliaboli fra senatori renziani e Nencini, della lista «Insieme», su un nuovo gruppo.
La verità è che non è fermo niente. Il Pd è preda di uno smottamento continuo. Carlo Calenda, dato in uscita, smentisce di essere interessato alla «cosa» di Renzi. A stretto giro gli arriva il corteggiamento di Zingaretti, «credo che Calenda possa essere uno dei principali protagonisti della battaglia delle elezioni europee». Matteo Ricci, il sindaco di Pesaro che con altri 550 colleghi aveva sostenuto la candidatura di Minniti, lancia l’hashtag#iostonelPd. Inizia la conta fra chi parte e chi resta, ma al momento Renzi non ha invitato nessuno. Matteo Richetti chiede ai sindaci di confluire su Martina. Goffredo Bettini, schierato Zingaretti, elogia Minniti e lo definisce «un punto di forza del nostro partito».
NICOLA ZINGARETTI si sfila da quello che definisce «il chiacchiericcio» del partito e partecipa ad un’affollatissima lectio magistralis di Massimo Cacciari sull’Europa, organizzata a Roma all’università Roma Tre da Massimiliano Smeriglio, uno dei due coordinatori di Piazza Grande. Ci sono i Giovani democratici e quelli di Generazione Italia. Vietati i commenti sul caos Pd: «Oggi abbiamo messo la prima pietra di una rifondazione del campo progressista insieme alla comunità accademica gli studenti i docenti i precari», «Dobbiamo cambiare tutto e farlo in fretta», «Il populismo si batte innescando un nuovo movimento popolare globale ed europeo».

Corriere 7.12.18
L’ex leader, il no di Minniti
Renzi: non sono il killer del Pd
di Maria Teresa Meli


«Non sono il killer del Pd», così Matteo Renzi sul caso Minniti.
ROMA «Mi vogliono far passare per quello che vuole affossare il Pd, ma non è vero. Il Partito democratico ha dei problemi a prescindere da me, basta con queste caricature»: il giorno dopo il «gran rifiuto» di Marco Minniti, Matteo Renzi si sfoga con qualche amico.
L’ex ministro dell’Interno aveva deciso già l’altro ieri sera di lasciare la presa, gli incontri dell’indomani sono stati un rito che inevitabilmente andava consumato, ma si sapeva che non avrebbero spostato niente.
«Mi vogliono dipingere come l’assassino del Pd — riprende Renzi con gli amici — ma non lo sarò mai. Minniti ha deciso di non correre più per sue ragioni, del resto lui stesso ha sempre tenuto a dire che non era il mio candidato, quindi come mai avrebbe potuto tirarsi indietro a causa mia? Io non voglio fare un nuovo partito, sono solo cavolate. Di scissioni ne abbiamo gia viste abbastanza».
E ancora: «La verità è che hanno un’ossessione nei miei confronti, problemi loro. Però non raccontino in giro che io sono il burattinaio di questo congresso, perché non lo sto proprio seguendo. Vogliono fare una gara tra le correnti? Un scontro tra Martina e Zingaretti? Facciano, io però non starò mai appresso alle beghe e non accetto che qualcuno mi ci metta in mezzo. Mi lasciassero in pace. Mi pare che finora sono l’unico o quasi che si occupa di dare addosso a questo governo disastroso ed è questo quello che dovremmo fare tutti noi dell’opposizione».
Lo sfogo, raccolto dagli amici, fa il giro dei palazzi. E non sembra tranquillizzare tutti. Nel Pd ci si continua a interrogare sulle reali intenzioni dell’ex segretario.
In molti sono convinti che sia stato lui a far trapelare la notizia di una possibile scissione a gennaio per «destabilizzare» il Pd. Nella speranza di far rinviare il Congresso o quanto meno di bloccare il consolidarsi di nuovi equilibri di potere nel partito. In fondo Minniti non è certo un renziano, anzi, con l’ex segretario ha avuto diversi momenti di frizione.
Almeno per ora, dunque, Renzi non ha in mente di muoversi: a breve temine niente strappi in vista. Che prima si consumi il Congresso, sempre che ci sia, poi si vedrà. In realtà pare che l’unico che sta veramente pensando di creare un nuovo soggetto politico sia Calenda: «Io guardo ai sondaggi — gli hanno sentito dire — e se a gennaio daranno l’otto per cento a un nuovo soggetto politico, allora mi muoverò per andare alle europee».
I renziani nel frattempo si sono dati una giornata di silenzio e di meditazione. Ma i più di loro, in verità, sono presi dallo sgomento: «Matteo sta facendo come Mao e spara sul quartier generale». Non hanno capito bene che cosa voglia fare veramente il leader. Sono convinti che per ora non andrà via, che i sondaggi gli consigliano cautela, ma hanno anche capito che si tiene le mani libere e che non vuole essere condizionato nemmeno da quelli della sua componente: «Io non farò mai il capo corrente, non ci si può certo aspettare questo da me». E poi sono ancora sotto botta per Minniti: «Compreso che non avrebbe raggiunto il 51 per cento, ci ha mollati in mezzo alla strada», dicono.
Comunque oggi si incontreranno per decidere il da farsi. Potrebbero pure rimanere senza un loro candidato. Tanto ormai la corsa di Zingaretti appare in discesa, anche se c’è chi vorrebbe bloccarlo tirando fuori una candidatura unitaria di Gentiloni.

Il Fatto 7.12.18
Renzi gioca a sfasciare tutto. E stavolta molla anche i suoi
Ognun per sé - L’ex premier contro tutti: tra annunci e smentite lancia il suo movimento. Ma non vuole zavorre. Il fu Giglio Magico già guarda a Martina e Zingaretti
Il Partito democratico il 3 marzo sceglierà ai gazebo il nuovo segretario
di Wanda Marra


Luigi Marattin ha lo sguardo perso, assorto. Ma è un attimo: quando capisce di essere osservato, di scatto mette su il suo sorriso più sfavillante. Raffaella Paita cammina con gli occhi bassi. Emanuele Fiano discute animatamente con Franco Vazio, le facce che si fanno sempre più scure. Il ritiro di Marco Minniti e l’ipotesi che Matteo Renzi esca dal Pd, a gennaio, senza portarsi dietro praticamente nessuno dei fedelissimi, getta nel panico i suoi parlamentari. Che fare? Chi appoggiare al congresso? Come garantirsi un futuro in politica? Nel frattempo, quel che resta del Pd, si riorganizza, secondo la linea del salvare il salvabile. E Nicola Zingaretti parla già da segretario in pectore.
Matteo Renzi: triste, solitario y final?
L’unico punto fermo dell’operazione dell’ex segretario è avere innescato l’ennesima bomba per far esplodere il Pd. La linea la dà un post Facebook della mattina: “Chiedetemi tutto ma non di fare il piccolo burattinaio al congresso del Pd. Da mesi non mi preoccupo della Ditta Pd: mi preoccupo del Paese”. Negli stessi momenti comincia a circolare l’iniziativa cittadini2019.it, sul modello di Ciudadanos in Spagna. Portavoce Gianfranco Passalacqua, ex collaboratore di Sandro Gozi. Il primo incontro è fissato per il 16 dicembre. Lo staff di Renzi smentisce che lui c’entri qualcosa. Ma con Gozi il senatore di Scandicci è appena stato a Bruxelles a parlare del suo movimento, che dovrebbe fare da cerniera tra sinistra e centro. Lancio a gennaio, tentativo di Renzi di candidarsi alle Europee (sogno pure di Gozi). Fatto? Fermi tutti, a Radio Zapping in serata l’interessato dichiara: “Di scissioni ne abbiamo viste già abbastanza, non è all’ordine del giorno, io sto lavorando a qualcosa di diverso”. Siamo all’ennesimo schema #Enricostaisereno? Ovvero, negare per confermare? Comunque sia, un movimento parallelo, una lista, un partito nel partito, coadiuvato dai comitati civici, è cosa certa. Sull’uscita, le cose si fanno nebulose: Renzi non ha voglia di portarsi dietro nessuno, neanche il Giglio magico più stretto (un nome per tutti: Maria Elena Boschi) per evitare zavorre. Però, ha bisogno di soldi: e allora, almeno 20 deputati e 10 senatori per costituire i gruppi parlamentari li deve scegliere. Per ora, si diverte a lasciare per l’ennesima volta il Pd appeso. È la sua strategia più sperimentata: giocare su più tavoli e far affondare tutti gli altri commensali.
Luca Lotti a guardia della bad company
Sulla candidatura di Minniti c’avevano messo la faccia soprattutto Luca Lotti e Lorenzo Guerini, con l’obiettivo di consegnargli la loro parte di partito, tenendosi le chiavi. Oggi si trovano a gestire una corrente minoritaria, abbastanza mal vista e pure senza leader. Di fatto abbandonati da Renzi. La prima scelta è quella di decidere se appoggiare un candidato (ovvero Maurizio Martina), o ripiegare su uno di bandiera. Tipo Guerini, che però questo sacrificio non lo vuole fare.
La variabile impazzita di Carlo Calenda
A far accelerare Renzi ci sarebbe stato anche un sondaggio commissariato dall’ex ministro dello Sviluppo economico su un suo eventuale partito di centro. Progetto che Calenda ha in mente da mesi, ma che sembra destinato a rimanere nel cassetto: Renzi l’ha bruciato effettivamente sul tempo ed è difficile immaginare che ci sia lo spazio per un soggetto come questo, figuriamoci per due. Tanto è vero che l’interessato smentisce. Mentre gli amici, Paolo Gentiloni in testa, gli stanno vivamente consigliando di lasciar perdere. E Zingaretti gli offre di fare il capolista (del Pd) alle Europee.
Quelli che restano: Zingaretti e Martina
La scelta del governatore del Lazio è non soffiare sulle polemiche e presentarsi come l’unico argine all’estinzione Dem. Per questo, si è saldamente legato a Gentiloni: gli ha proposto di fare il presidente del partito e pure il candidato premier (ruolo molto teorico, visto che il Pd viene dato al 15%). Con lui c’è Dario Franceschini e una serie di big. Alcuni dei renziani lo stanno corteggiando. Anche Martina e Richetti continuano la corsa (per ora) congiunta. Con loro il mondo del renzismo, autonomo o in disgrazia che dir si voglia: da Matteo Orfini a Graziano Delrio, passando per Debora Serracchiani e Tommaso Nannicini. Il dubbio che al congresso si arrivi davvero, però, resta.

Il Fatto 7.12.18
La vera sfida del pd: il confronto
di Franco Monaco


Chi è decisamente critico con l’attuale governo e sollecito per la qualità della nostra democrazia, che non può prescindere da una opposizione protesa a un’alternativa, spes contra spem, non può essere indifferente alla sorte del Pd e dunque al suo prossimo congresso. Anche se le premesse sono tutt’altro che promettenti. Penso al suo clamoroso, colpevole, forse irrimediabile ritardo (Parisi ha parlato di masochismo: solo pochi giorni separano la sua effettiva chiusura dalle cruciali elezioni europee). Penso alla proliferazione di candidati improbabili, concepiti per presidiare una quota di potere e per inibire ai candidati più accreditati il quorum del 50 per cento, così da fare fallire le primarie per la leadership rimessa poi, a norma di statuto, all’assemblea del partito e dunque agli accordi tra i capicorrente. Vecchie logiche, vecchi giochi di potere, l’opposto della chiara e forte investitura di una guida espressiva di una riconoscibile proposta politica e persino identitaria per un Pd da rifondare. Penso al convitato di pietra Matteo Renzi che ancora conta eccome, ostenta distacco, occhieggia ad altre iniziative politiche fuori o oltre il Pd, distribuisce i suoi su un paio di candidati, Minniti e Martina, ma nella sostanza, con tecnica ostruzionistica, mira a boicottare il congresso trattenendo in ostaggio il partito. Ancora, penso alla circostanza, denunciata da Prodi, che la quantità dei candidati è inversamente proporzionale alla chiarezza delle loro piattaforme politiche e della tematizzazione delle rispettive differenze. Perché il confronto tra loro dovrebbe essere il cuore del congresso. Un confronto che si concentri sui nodi politici giudicati dirimenti. Due in particolare.
Primo: un giudizio sulla disfatta del 4 marzo e, ovviamente, sul corso politico legato alla leadership di Renzi. Nodo ineludibile. È l’opposto della bizzarra tesi di Delrio, secondo il quale non ci si deve dividere sul corso renziano. Un irenismo esorcistico, una retorica unitaria che è l’opposto del franco, aperto confronto politico necessario. E che, non a caso, si concreta nel sostegno alla candidatura di Martina cui si è associato Richetti, comprensibilmente reticenti sul punto, essendo stati rispettivamente il vice e il portavoce di Renzi.
Secondo: un giudizio circa gli attori politici in campo e la relazione da stabilire con essi. La legge elettorale proporzionale e la misura del Pd palesemente archiviano la vocazione/ambizione maggioritaria specie nella sua velleitaria versione renziana (e già veltroniana) di un Pd autosufficiente. Non però, suppongo, l’aspirazione a partecipare a un’alternativa di governo. Interloquendo con chi? Posso comprendere che i passaggi congressuali esaltino l’orgoglio identitario (già ma quale identità? ci tornerò), e tuttavia è difficile sottrarsi al dovere di misurare differenze e/o affinità in rapporto alle altre forze politiche: 5 Stelle, Lega, quel che resta di FI e dei soggetti a sinistra del Pd. Per paradosso, Renzi, che non corre in prima persona e anzi traguarda oltre il Pd, è il più chiaro: per lui Lega e 5 Stelle sono la stessa cosa, suscettibili di essere iscritti sotto la medesima cifra di “estrema destra” e semmai ci si deve proporre l’obiettivo di rappresentare quell’area di centro moderata e liberale che non si riconosce nel governo. Se non con FI, conquistando i suoi ex elettori. La cosa ha una sua plausibilità. Solo porta con sé un corollario e una domanda. Il corollario: il centrosinistra non è il suo orizzonte strategico.
La domanda, cui dovrebbero rispondere i candidati: è coerente o compatibile con lo statuto ideale del Pd? Appunto: quale? All’annuncio della sua candidatura Zingaretti sembrava orientato a un dialogo con i 5 Stelle, salvo poi temperare se non correggere la sua posizione. Eppure come non scorgere le differenze che ogni giorno di più si manifestano quali conflitti insanabili tra i partner di governo? E come non considerare le differenze e il disagio che attraversano elettori ed eletti pentastellati (cui Fico dà voce)? Una opposizione intelligente e di movimento (non aventiniana) – come hanno argomentato, tra gli altri, Cacciari e Carofiglio – si insinuerebbe in tali vistose contraddizioni, offrirebbe sponde a chi non si rassegna all’egemonia di Salvini, che può maramaldeggiare anche grazie all’inerzia del Pd. A meno che… A ben vedere, un’alternativa c’è per il Pd: quella suggerita dal Foglio, in nome del cosiddetto “partito del Pil”, di un patto (solo tattico?) con la Lega per negarsi programmaticamente di nuovo al confronto in caso di crisi della maggioranza così da dischiudere a nuove elezioni dall’esito già scritto, una maggioranza di destra a guida Salvini (le simulazioni di D’Alimonte la danno per sicura). La battuta renziana circa le scuse da chiedere a Berlusconi rivela quantomeno un sentimento…
Conosco l’obiezione: il Pd non può consegnarsi all’egemonia dei 5 Stelle. Preoccupazione essa sì figlia di minoritarismo e di subalternità, di sfiducia in se stessi e di ottusa cecità verso l’identità irrisolta e polimorfa del M5S. Con il 10 per cento (non il 18) il Psi di Craxi fu il dominus della vita politica italiana per tutto il decennio Ottanta, avendo a che fare non con i 5 Stelle ma con signori partiti quali Dc e Pci. Buona o cattiva che fosse la sua politica, Craxi la sapeva fare, facendo valere il proprio “potere di coalizione” (Bobbio). Qui purtroppo sta la differenza.

Repubblica 7.12.18
Dopo 5 anni da padrone
Matteo e il partito storia di un amore che non è mai nato
di Marco Damilano


Nel centrosinistra si mettono al riparo della parola noi.
Per poter dire Io bisogna diventare vecchi. Tu Matteo sei antipatico solo perché hai avuto il coraggio di dire la parola Io», gli aveva detto alla stazione Leopolda un suo sostenitore critico, l’inventore dell’Ulivo Arturo Parisi. Ma alla fine, dopo tanti scontri, sembrava arrivato il momento in cui l’io e il noi si sarebbero incontrati, un happy end, una favola a lieto fine. Era l’8 dicembre 2013, cinque anni fa. A mezzanotte, quando appena concluso il suo primo discorso da segretario del Pd nella sala del teatro Obihall di Firenze, squillò il telefono. «Le posso passare Berlusconi?». Dall’altra parte la voce di Silvio, in pizzeria con Francesca Pascale e il cane Dudù: «Caro Matteo, complimenti! Ho sempre detto che avevi i numeri, da quel pranzo ad Arcore, anche se devi ammettere che giocare contro Cuperlo e Civati era come il Milan con l’Interregionale... Con la tua vittoria finalmente il Pd diventa un partito socialdemocratico». Matteo Renzi era stato appena trionfalmente eletto capo del Pd, un anno dopo la sconfitta alle primarie per la candidatura a premier contro Pier Luigi Bersani, da pochi minuti aveva finito di parlare. «Mi avete dato la fascia di questa squadra e vi assicuro che combatterò su ogni pallone», aveva promesso ai militanti. «Forse useremo metodi un po’ spicci, ma non confondete un cambio di governo con l’ambizione di cambiare il Paese. Abbiamo preso i voti per scardinare il sistema, non per sostituirlo».
Cambiò, invece, il governo, Enrico Letta fu cacciato da Palazzo Chigi, 68 giorni dopo. Il Pd, invece, non cambiò mai.
Cinque anni dopo, ieri il capitano, titolo nel frattempo passato ad un altro Matteo, Renzi ha dato il benservito alla squadra. Non vincono più, lui non vuole affondare con loro.
«Da mesi non mi occupo della Ditta Pd: mi preoccupo del Paese. Che è più importante anche del Pd», ha scritto. Da squadra a Ditta: lo chiama così, come ai tempi di Bersani, il partito di cui Renzi però è stato per quattro anni padrone assoluto: l’ex sindaco di Firenze ha disegnato i gruppi parlamentari a sua immagine e somiglianza, chiuso in una stanza lui e i fedelissimi del Giglio Magico. Ha lasciato Francesco Bonifazi a vigilare sulle casse del partito, il penultimo atto di imperio tre settimane fa, quando ha deciso all’ultimo momento di parlare in aula al Senato sul decreto sul ponte Morandi; il capogruppo Andrea Marcucci è un uomo suo, ha acconsentito. L’ultimo l’altro giorno, quando ha lasciato per strada il candidato Marco Minniti.
È la storia di un amore mai nato: il rapporto tra un partito che divora i suoi capi e il capo che riduce a macerie il partito.
Quando fu eletto segretario, nel 2013, mi ricordai di un articolo del quotidiano francese "Le Figaro" che così aveva raccontato nel 1971 al congresso di Epinay l’elezione di Francois Mitterrand alla guida dei socialisti francesi: «Finalmente il leader ha trovato un partito e il partito ha trovato un leader».
Mitterrand, carismatico e manovriero, aveva conquistato il partito per lanciare la lunga corsa all’Eliseo, lo avevano ribattezzato le Florentin, il fiorentino. Come il Principe di Niccolò Machiavelli, che cinquecento anni aveva terminato il suo scritto sull’arte della conquista e del mantenimento del potere.
L’elezione di Renzi sembrò il capovolgimento di una storia, di una tradizione. Non più il mito gramsciano del partito moderno-Principe, l’organismo collettivo che oltrepassava le storie, le volontà, le aspirazioni individuali, la cultura di riferimento degli ex comunisti, avversari interni di Renzi, ma il ritorno del principe, con la sua corte gigliata, con la sua ambizione personale e con un partito al servizio. E anche lo sbocco del travagliato partito del centrosinistra italiano in un porto sicuro. Senza il Pd il sindaco di Firenze sarebbe rimasto un outsider e il Pd un partito amorfo. Ma l’incontro è durato la notte del quaranta per cento alle elezioni europee del 2014. Per Renzi il Pd è sempre rimasto quella roba là, la Ditta. E per il Pd Renzi è rimasto un corpo estraneo, anche quando tutti si precipitavano a omaggiarlo.
L’ex leader non ha mai speso un minuto del suo tempo per mutare il partito, nell’organizzazione, nella sua cultura politica, nella sua classe dirigente nazionale e locale.
Nessun lanciafiamme anti-De Luca è stato estratto, e neppure le scuole di formazione e le app per gli iscritti e i militanti, Pasolini, Bob e chi se le ricorda. O forse, al contrario, l’ha cambiato fin troppo. Come in un maleficio, Renzi ha contratto i vizi del Pd e ora si prepara a trasformarsi nel leader di un partito da legge elettorale proporzionale, quel sistema che per definizione non ammette capi ma solo tavoli di trattative dove i voti come le azioni si pesano e non si contano. Mentre il Pd dopo la cura assomiglia al suo ex capo, è una tribù nevrotica, con le sue percentuali di voto che non sono all’altezza dell’arroganza di molti suoi dirigenti. Il partito che doveva diventare uno strumento al servizio del Paese, è diventato uno strumento per conto dell’Io.
In mezzo un popolo sempre più smarrito. Senza capitano, senza squadra. È rimasta l’antipatia.

Repubblica 7.12.18
Renzi, l’azzardo fra destra e sinistra
di Stefano Folli


In omaggio a quel velo di ipocrisia tipico dei rapporti politici, il Pd reagisce all’addio imminente di Renzi con un appello all’unità interna e quindi con l’invito a ripensarci. Ma si tratta in molti casi di forma senza sostanza. In realtà quel che resta del partito che appena cinque anni fa era il maggiore della sinistra europea vive un duplice stato d’animo. Molti, non si può negarlo, si sentono sollevati dalla fine dell’oppressione. Vivevano con ansia estenuata la presenza del "senatore semplice", privo di cariche eppure sempre incombente. Soprattutto dopo il 4 marzo, anzi dopo il dicembre di due anni fa, con la sconfitta del referendum, Renzi aveva cessato di essere il profeta di un futuro luminoso. Era diventato un peso da sopportare di malavoglia, come capita ai perdenti. Per cui adesso c’è chi assapora la libertà, sebbene intorno sia un panorama di macerie e ci sia poco di cui rallegrarsi.
L’altra metà circa è composta dai seguaci a vario titolo dell’ex premier, non tanto il famoso "giglio magico" quanto la rete del potere locale e dei gruppi parlamentari.
Una rete che ha rappresentato fin qui l’ossatura del potere renziano e ora è angosciata. Perché a quanto pare, se il fiorentino lascerà il Pd — manca l’annuncio ufficiale — , non porterà con sé quasi nessuno degli amici. Il suo sarà davvero uno strumento personale, da far impallidire la stagione del "partito di Renzi", come Ilvo Diamanti aveva battezzato il Pd. Del resto, l’operazione non sembra nemmeno una scissione.
Semmai è l’uscita sdegnosa di un politico di temperamento e a suo modo carismatico, dall’istinto raramente felice, chiuso da tempo nel perimetro delle sue ambizioni e ormai delle sue ossessioni, in un rapporto idealizzato con il popolo, ossia il corpo elettorale.
Non c’è da meravigliarsi se egli voglia riorganizzare il futuro con i campioni della cosiddetta società civile: qualche giovane, lo studente, il precario, il professore, l’imprenditore. Ma è un azzardo di non poco conto perché non si avverte nell’aria la tensione morale che accompagna le grandi svolte. Il rischio di Renzi è di ripetere, spostandola a destra, l’esperienza modesta di Liberi e Uguali.
Infatti non abbiamo di fronte un personaggio fresco e imprevedibile, portatore di idee da scoprire, bensì un politico sconfitto in cerca di rilancio. Uno che avrebbe dovuto ritirarsi a suo tempo, subito dopo l’insuccesso del referendum, magari trasferirsi all’estero a studiare: nel giro di due-tre anni sarebbe tornato rigenerato e in grado di farsi valere, data la carenza di talenti. In fondo aveva fatto così persino Churchill negli anni Trenta, una figura che forse Renzi ritiene alla sua altezza.
Il problema è che oggi non si capisce cosa voglia o possa essere il nuovo partito. Una volta era lui, il giovane italiano, l’esempio per l’Europa riformista. Di Macron all’inizio si diceva che fosse il Renzi francese. Nell’ex sindaco di Firenze si avvertiva una vitalità non comune e il desiderio di ritrovare il filo con il mondo esterno sulla falsariga di generose illusioni come "l’Ulivo mondiale" e la "terza via" di Clinton e Blair. Adesso invece è una rincorsa a esperienze eterogenee: dal macronismo, peraltro in crisi drammatica, ai Verdi tedeschi, alla destra moderata di Ciudadanos in Spagna. Nella speranza di ritagliarsi un ruolo, sia pure minore, sul palcoscenico europeo in chiave anti populista. Può raccogliere i voti di Emma Bonino, dei centristi delusi, forse del mondo berlusconiano smarrito. Certo non sarà un mini-Nazareno: non è difficile intuire quanto poco Berlusconi e i suoi siano contenti di trovarsi un Renzi che cerca di entrare nel loro residuo elettorato.

Il Fatto 7.12.18
“Si sono dati alla macchia”. Dopo tre mesi Minniti ha capito che volevano fregarlo
Toccata e fuga - L’amarezza dell’ex ministro: Matteo voleva usarlo per dividere ancora
di Tommaso Rodano


“Si sono dati alla macchia”. Chi è vicino a Marco Minniti la riassume così, la breve storia triste della non candidatura dell’ex ministro dell’Interno. Loro – quelli che si sono dati alla macchia – sono ovviamente i renziani. E lui – Matteo Renzi – è passato in un amen dal ruolo di grande elettore di Minniti sul trono del Pd a quello di chi tramava per distruggere ciò che resta del partito (e poi andarsene via): “Volevano usare Marco per dividere e creare il caos”, ragiona oggi il minnitiano anonimo. L’hanno capito, dice, negli ultimi dieci giorni.
Un po’ tardi. Perché nel frattempo l’ex ministro ci ha messo la faccia, in un balletto che ha fatto male soprattutto alla sua credibilità. Questa, in estrema sintesi, la cronistoria. Il pressing renziano sul “candidato tentenna” inizia sotto traccia, ma con una certa insistenza, a settembre: l’ex ministro è considerato l’ultima carta per contendere il partito a Zingaretti. L’endorsement diventa ufficiale il 12 ottobre, con un appello pubblico firmato da 15 sindaci renziani (tra cui Dario Nardella, Matteo Ricci e Giorgio Gori): “Abbiamo bisogno di individuare un profilo forte e autorevole contro l’incompetenza e l’estremismo gialloverde. Marco Minniti, figura dal forte profilo democratico e unitario, potrebbe essere quella giusta per guidare il nostro partito”.
È l’inizio di un travaglio politico e mediatico. E di una scissione quasi psichiatrica: Minniti può vincere il congresso solo con l’appoggio di Renzi, ma non vuole essere identificato con Renzi. Ha bisogno dell’appoggio di tutti i renziani, ma non vuole contrattare con i renziani i termini della sua corsa e della futura segreteria . È candidato, ma non è candidato.
L’ex Lothar dalemiano pronuncia una lunga serie di “Sto riflettendo”. Il 16 ottobre dice che scioglierà la riserva dopo il Forum programmatico del Pd del 28 ottobre. Due giorni dopo ribadisce: “Ne parleremo al momento opportuno, nei prossimi giorni”. Il 20 ottobre è nel parterre della Leopolda renziana, ma assolutamente non ne vuole parlare (i riflettori della kermesse, d’altra parte, sono per Paolo Bonolis). Quando arriva il benedetto forum del 28 ottobre, Minniti spinge l’orizzonte un po’ più in là. È sibillino: “Io non scommetto sulla mia candidatura, però prendo atto del fatto che voi stiate scommettendo, e mi auguro che non perdiate i soldi”. Il 12 novembre a Nemo, su Rai Due, passa alle percentuali: “Mi candido al 51%”. Il 16 novembre è a Palazzo Vecchio a presentare il suo libro con Renzi e Nardella. Tutti si aspettano l’annuncio ufficiale, invece ne concede uno a metà, per negazione: “Se il mio impegno servirà a rendere più unito e più forte il Pd io non mi sottrarrò”.
Il grande giorno, finalmente, è il 17 novembre. La corsa viene lanciata con un’intervista su Repubblica, insieme a un’orgogliosa rivendicazione d’autonomia: “Io non sono lo sfidante renziano. In campo c’è solo Marco Minniti”. Renzi benedice l’operazione qualche giorno dopo in un’intervista al Tg2: “Marco Minniti è un perfetto candidato contro Matteo Salvini. Mentre Salvini parla di legalità e sicurezza, Minniti la pratica”.
E invece l’ex premier “si dà alla macchia”. Scompare. A Minniti era stato promesso un documento d’appoggio con le firme dei circa 100 parlamentari renziani. Non arriva. L’ex Lothar vorrebbe un impegno formale a non lasciare il Pd dopo il congresso. Non arriva nemmeno quello. C’è puzza di bruciato. Com’era iniziata, finisce. Diciotto giorni dopo, Minniti richiama Repubblica e chiude la malinconica campagna da non candidato: “Lo faccio per amore del Pd”.

La Stampa 7.12.18
Nell’Ue non c’è più posto per il partito democratico
di Christian Rocca


Siamo sicuri che il Partito democratico serva ancora?
In giro per il mondo i partiti tradizionali non esistono più o sono stati fortemente ridimensionati. In Italia governano la Lega e i Cinquestelle, ovvero il più longevo dei nostri partiti di protesta e il prodotto di e-marketing di una srl milanese. L’opposizione è guidata dalle piazze borghesi e produttrici del Nord, colte tardivamente di sorpresa dall’inadeguatezza del sovranismo al potere. In Francia c’è il movimento personale di Emmanuel Macron, non in grande spolvero un anno e mezzo dopo il trionfo delle presidenziali, e ora l’alternativa al presidente elitario sono i gilet gialli. In Spagna resistono faticosamente socialisti e popolari, ma perdono continuamente pezzi e consensi a favore di nuovi movimenti civici dai nomi poco ideologici che semmai ricordano i titoli dei talk show populisti della tv italiana: Podemos, Ciudadanos, Vox, più indipendentismi vari. Stessa cosa in Germania: la Merkel è ancora lì, ma sempre meno solida, i socialdemocratici perdono voti e aumentano i consensi i Verdi e le destre nostalgiche.
Nei Paesi anglosassoni apparentemente c’è più stabilità, grazie a sistemi istituzionali ed elettorali secolari e seri, ma il mondo conservatore americano è stato dirottato da Donald Trump e dall’egemonica dottrina Trump First, mentre quello liberal è indeciso se cercare un nuovo campione o trasformarsi in partito socialdemocratico all’europea. In Gran Bretagna, la sinistra è tornata a ricette economiche già archiviate negli Anni Ottanta, pre thatcheriane, e i Tories sono stati trascinati dagli indipendentisti su posizioni isolazioniste. Insomma, i partiti novecenteschi non se la passano bene, parlandone da vivi. Il Partito democratico italiano, dopo aver governato sette anni in coalizione con l’ala responsabile del centrodestra, non sfugge a questo destino, anche se in realtà è tra quelli che se la passano meglio, intanto perché è nato post ideologico dieci anni fa, come un movimento nuovo, fondato sulla legittimazione popolare delle primarie e sulla vocazione maggioritaria, un concetto rivoluzionario in un paese proporzionalista e consociativo come il nostro. Il dinamismo di Renzi, più Leopolda che Rosa Luxemburg, ha fatto il resto, ritardando di una legislatura la presa populista del potere e ammantando di novità, populista ma democratica, una tradizione politica in sofferenza.
Può anche darsi che la fine dei partiti tradizionali sia una notizia fortemente esagerata e che i de profundis siano prematuri, il precipitato di un ciclo storico come tale destinato a finire, ma magari no, magari questa è la nuova realtà e i partiti tradizionali sono come le carrozze a cavallo dopo l’invenzione dei motori a scoppio, come le tv in bianco e nero appena arrivato il colore, come le cabine del telefono al momento del lancio degli iPhone.
Nel qual caso, c’è da chiedersi a che cosa serva oggi il Pd; quale sia il ruolo di un partito tradizionale, l’unico rimasto, che abbandona la narrazione ottimista di Renzi, che non rivendica le politiche pro crescita degli anni di governo e semmai rigetta quella sulla sicurezza di Minniti. Probabilmente un’organizzazione politica tradizionale che invoca solite politiche socialdemocratiche e schiaccia l’occhio ai cinquestelle non è più adeguata ad affrontare le sfide della società contemporanea e non è in grado di aggregare un ampio fronte repubblicano anti populista. C’è da tenere conto di questa possibilità, ineluttabile, quando si analizza il dibattito sulle primarie del partito e si interpretano le rapsodiche mosse di Renzi, il ritiro della candidatura di Minniti e il sapore antico della piattaforma di Nicola Zingaretti.

La Stampa 7.12.18
Scure del governo su accoglienza e luoghi di culto
Pronto un ddl per limitare i finanziamenti dei centri islamici e obbligare gli imam a fare la predica in italiano
di Maria Rosa Tomasello


Dalla stretta alle Ong impegnate nel soccorso ai migranti nel Mediterraneo al giro di vite sui luoghi di culto. Un tassello dopo l’altro, il governo compone il mosaico della sua politica sull’immigrazione, e il prossimo è ritagliato sul modello della controversa legge «anti-moschee» varata in Lombardia nel 2015 che, dopo aver subito una «revisione» da parte della Consulta a seguito di un ricorso del governo Renzi, dovrà affrontare un nuovo giudizio di legittimità costituzionale. «Il disegno di legge è depositato, ce ne occuperemo partire da gennaio - spiega il capogruppo della Lega al Senato Massimiliano Romeo -. L’obiettivo è fissare una serie di paletti ai centri islamici sul piano urbanistico e dei finanziamenti, istituire un registro degli imam, che devono parlare italiano. È uno dei nostri cavalli di battaglia, ne discuteremo con gli alleati di governo». Un paragrafo sulla regolamentazione dei luoghi di culto, del resto, è contenuto nel contratto Lega-M5S.
L’esecutivo a trazione leghista porta avanti così il disegno della sua idea di Paese. Le iniziative più recenti sono state affidate a due aggiustamenti alla manovra, con la cancellazione degli stranieri dall’elenco dei beneficiari della carta sconti destinata alle famiglie (limitando la platea ai cittadini italiani o appartenenti a Paesi Ue), e con l’abolizione del fondo destinato all’assistenza degli stranieri non iscritti al Servizio sanitario. I 30,99 milioni vincolati a questo scopo confluiranno, si legge nell’emendamento dei relatori alla legge di bilancio, «nella quota indistinta del fabbisogno standard nazionale».
Mario Morcone, direttore del Consiglio italiano rifugiati (Cir), fa l’elenco di tutti i provvedimenti restrittivi varati dal governo: «La rottura della concertazione con Comuni e Regioni sull’accoglienza diffusa, l’abolizione della protezione umanitaria, la stretta sulla cittadinanza, porta finale dell’inclusione, che ora sarà data con il contagocce. A questo si aggiungono la tassa (1,5%) sulle rimesse degli immigrati, che danneggia chi lavora e manda i soldi a casa, e il taglio dei servizi alle persone in accoglienza. È un grande passo indietro non solo nei diritti, ma nella qualità dell’accoglienza - afferma - con il rischio che persone più fragili e frustrate diventino disponibili a piccoli e grandi reati e si avvicinino a percorsi di radicalizzazione che finora siamo riusciti a evitare». Ma per Simona Bordonali, ex assessore regionale in Lombardia con delega all’Immigrazione e parlamentare leghista, la strada è tracciata. «Adesso lavoriamo per applicare il decreto sicurezza, con la creazione di quasi 1600 nuovi posti nei Cpr (i Centri di permanenza e rimpatrio) entro il primo semestre 2019 per chi non ha diritto alla protezione internazionale e velocizzando gli accordi bilaterali coni Paesi di provenienza per accelerare i rimpatri. Nessun accanimento: la differenza oggi è tra chi fa parte della comunità e ha un permesso di soggiorno o la cittadinanza e chi è clandestino».

La Stampa 7.12.18
Niente moschea, kebab e venditori ambulanti
I leghisti portano a Pisa il vento dei divieti
Da 5 mese l’ex roccaforte rpssa è un laboratorio del Carroccio: nel mirino ci sono stranieri, mendicanti e anche studenti troppo esuberanti
Approvate mozioni per il presepe nelle scuole e in crocifisso negli uffici pubblici
Il sindaco: è vero, il nostro è un esperimento e io sono popolare
reportage di Niccolò Zancan


La prima cosa che vedi è il cantiere per sradicare le panchine dai giardini della stazione. Piccole ruspe. Reti metalliche. E poi eccole: le hanno messe in fila, una dietro l’altra, per portarle via. Ma cosa avevano di tanto sbagliato quelle panchine? «Erano brutte e in più erano state concepite in modo da risultare comodissime per chi voleva sdraiarsi» dice Luca Fracassi, portavoce del sindaco. Non ci si può sdraiare a Pisa. E nemmeno sedere. Non sulle panchine. Non sulle rastrelliere. Non sui gradini. Non sulle spallette del Lungo Arno.
«È vietato». I cartelli sono dappertutto. Da via Gramsci a piazza Vittorio Emanuele, davanti alle Poste e nel centro storico. Vietato mangiare, bere, dormire. «Occupare con alimenti, contenitori, sacchi, carte o altri oggetti il suolo pubblico». Pisa, già città rossa della Toscana, da cinque mesi si è trasformata nel più spinto laboratorio leghista d’Italia. Da quando cioè Michele Conti, 48 anni, ex consigliere comunale di Alleanza Nazionale ed ex direttore del consiglio agrario provinciale, ha vinto le elezioni con la Lega e ha deciso di concentrare la sua azione politica contro i venditori ambulanti, i mendicanti, i migranti in lista d’attesa per le case popolari, i negozi di cibo etnico e anche gli studenti universitari troppo esuberanti.
Ogni sera l’idropulitrice comunale va a sparare acqua sulle pietre antiche di Piazza dei Cavalieri, davanti alla sede storica della Scuola Normale Superiore di Pisa. «Qui era sempre pieno di ragazzi e ragazze, c’erano chitarre, canzoni, frisbee» dice la studentessa Nicoletta Grittani, 25 anni, da Bari. «C’erano anche canne e birre. Nessun bagno, è vero. Però niente di terribile. Era un ritrovo pacifico di studenti». Ora Piazza dei Cavalieri è deserta. L’acqua ha spazzato via tutti. Mentre si è riempita piazza delle Vettovaglie, poco distante. Ma questa tattica contro gli eccessi notturni così come gli onnipresenti cartelli di divieto, sono solo il lato più visibile della guerra dichiarata. Altre decisioni sono già state prese dalla giunta comunale durante l’autunno.
La nuova delibera sull’emergenza abitativa stabilisce che, d’ora in avanti, per potere accedere alle graduatorie delle case popolari gli stranieri dovranno presentare una certificazione consolare autenticata sui patrimoni posseduti nel paese d’origine. È il modello Lodi. Quello che teneva fuori dalle mense i figli dei migranti. Poi c’è stata la mozione approvata per il presepe in ogni scuola. Quella per il crocefisso nelle sale di rappresentanza del Comune e in tutte gli istituti di proprietà comunale. La variazione al piano regolatore per rendere impossibile la costruzione della nuova moschea, in un edificio già acquistato dalla comunità islamica. Il convegno dal titolo: «Eurislam, l’invasione dell’Europa e la caduta dei valori occidentali». Patrocinato e ospitato dal Comune. Certo, c’è stata anche la nuova ordinanza contro i bivacchi, inasprita rispetto a quella dell’amministrazione precedente. E la rinuncia a un piccolo fondo da 3700 euro per fare una campagna contro l’omofobia. Perché Pisa ha deciso di uscire dalla rete dei comuni sensibili a queste tematiche. E sempre Pisa, per voce dell’assessore alla Cultura Andrea Buscemi, ha ipotizzato di cancellare il murales di Keith Haring che sta a metà strada fra la stazione e la famosa torre. «Tuttomondo», si chiama.
Lì davanti, adesso, gli studenti in gita della scuola media Pellegrini di Massarosa sono in contemplazione. «Non conoscevo le polemiche su questo murales bellissimo», dice il professore Lorenzo Bertolà. «Ma siamo stati messi in guardia sul fatto che non avremmo potuto mangiare i panini nelle piazze di Pisa».
Il sindaco Conti rivendica ogni singolo atto politico: «È vero. Qui stiamo facendo un esperimento. Stiamo cercando di mettere in pratica tutte quelle cose di buon senso che gli elettori chiedevano da anni. Le reazioni sono ottime, sono super gettonato. Residenti e commercianti forse vedono in me una persona normale che cerca di fare cose normali. Siamo dovuti intervenire in modo anche un po’ forte perché vogliamo affermare che questa è una città dei doveri prima che dei diritti». E a chi solleva dubbi sulle graduatorie che penalizzano i cittadini stranieri, l’assessore alle Politiche sociali Gianna Gambaccini replica così: «Per fortuna siamo ancora in Italia! Preservare i nostri cittadini è un dovere. Lo dobbiamo ai padri della nostra patria».
Pisa. 92 mila residenti di cui 10.520 di origini extracomunitarie, più 49 mila studenti che gravitano intorno alla città. Abdou Faye, presidente dell’associazione Senegal Mbolo, è preoccupato: «Il clima è cambiato. È una cosa bruttissima. Ti gridano dietro: “Andate a casa vostra”. Ma io vivo a Pisa da 13 anni, lavoro e rispetto gli altri. È dura. Mi ha appena chiamato un amico piangendo, vende fazzoletti. Gli hanno dato una multa da 5 mila euro».
Sono poche le voci critiche che si alzano dalla città, su questo ha ragione il sindaco Conti. Quando in consiglio comunale è stata votata la mozione per rendere obbligatorio il crocefisso, c’è stato un solo voto contrario. Quello di Ciccio Auletta, consigliere di una coalizione di sinistra formata da Possibile e Rifondazione Comunista: «Assistiamo a una vera e propria crociata. La mia solitudine durante quel voto è la dimostrazione plastica della profonda distanza che c’è fra il palazzo e Pisa. Perché questa città ha sempre avuto tradizioni laiche e progressiste».
In piazza della stazione e in piazza Vittorio Emanuele hanno chiuso le fontane. «Per evitare usi indecorosi», ha spiegato l’assessore alla Sicurezza Giovanna Bonanno. Così, senza nemmeno prendersi il fastidio di un atto formale, ha aggiunto nuove voci all’elenco. Non ci si può lavare la faccia. Non si può bere. Non si può dare da bere ai cani. È vietato.

La Stampa 7.12.18
Scontro sul nuovo congedo di maternità
Una legge che toglie diritti, danneggia le più vulnerabili
di Linda Laura Sabbadini


Le donne potranno lavorare fino all’ultimo giorno prima del parto a seguito dell’emendamento della Lega della legge di Bilancio e fruire del congedo di maternità di 5 mesi tutto solo dopo il parto. È una estensione della libera scelta delle donne, dicono alcuni. In realtà si tratta di una vera e propria restrizione della libertà femminile perchè espone a pressioni e ricatti da parte del datore di lavoro le donne più vulnerabili, precarie e dipendenti nelle piccole imprese. Dietro parole di modernità, la libera scelta appunto, si celano insidie e passi indietro sul fronte dei diritti delle donne. E potrebbe essere solo il primo passo. Con questo approccio, secondo lo stesso criterio domani si potrà dire «lasciamo la libera scelta alle donne se essere assenti tutti e cinque i mesi oppure se tornare a lavorare prima». Ci sono tante donne nel mondo dello spettacolo o in altre situazioni che ricominciano a lavorare prima. Ma , in genere, si tratta di donne che possono scegliere. Le norme servono per tutelare tutte e non solo le più forti. Sono volte a regolare il comportamento dei singoli e della collettività. In questo caso la norma garantisce alle donne il diritto a fruire di due o un mese di assenza prima del parto e tre o quattro mesi dopo il parto. E obbliga il datore di lavoro a garantirne la fruizione. Togliere l’obbligo di garantire l’assenza della donna nell’ultimo mese prima del parto apre la strada alla possibilità di pressioni e ricatti da parte dei datori di lavoro, che sono frequenti già oggi. Per difendere i diritti di tutte bisogna in primis verificare che la norma tuteli anche le donne più vulnerabili. Ebbene in questo caso non le tutela. Anzi le espone di più. Purtroppo siamo un Paese dove le norme sulla gravidanza sono state per anni calpestate. Un Paese dove le dimissioni in bianco sono state molto diffuse, prima della recente legge. Indebolire gli obblighi per i datori di lavoro sulla possibilità che le donne possano viversi in serenità il mese precedente al parto è un terribile passo indietro e, in realtà, le rende meno libere. La maternità è una delle esperienze più belle della vita di una donna. Ciascuna deve poterla vivere liberamente e felicemente. Spero che le donne della Lega e del Movimento 5 Stelle riflettano e rivedano l’emendamento. Solo se sappiamo difendere i diritti delle più vulnerabili possiamo far avanzare i diritti di tutte le donne.

Il Fatto 7.12.18
Francesco Gaetano Caltagirone. L’ottavo Re di Roma: affari d’oro, giornali e sindaci sotto scacco
Dalle assicurazioni al cemento, l’imprenditore romano ha interessi dappertutto. E con i quotidiani locali presidia il suo vasto impero
di Fabio Pavesi


Cemento, mattone, grandi opere e finanza. E a condire il tutto una rete di quattro giornali che regnano da anni su Roma, Napoli, Venezia, Ancona cui si aggiungono il Quotidiano di Puglia e la stampa free press Leggo. Il Messaggero, Il Mattino e Il Gazzettino sono gli alfieri del regno editoriale di Francesco Gaetano Caltagirone, l’“ottavo Re di Roma”, il potente palazzinaro che da sempre è uno degli imprenditori più liquidi d’Italia. Nella sua cassaforte ultima, la holding Fgc che sta in cima allo sterminato ginepraio societario che conta quattro società quotate, da Caltagirone Spa a Cementir Holding fino a Caltagirone editore e Vianini, e un centinaio di partecipazioni non quotate, giacciono più di 830 milioni di liquidità, tra conti correnti e depositi a breve. Una potenza di fuoco formidabile che consente alla famiglia dell’immobiliarista divenuto industriale del cemento e banchiere di dormire sonni tranquilli. Una ricchezza cumulata nel tempo e che vede la finanziaria della famiglia romana governare un piccolo impero: con la Fgc che siede su un patrimonio netto di 1,8 miliardi che arriva a 3,3 miliardi con le quote di terzi.
Il gioiello della corona è la Cementir holding posseduta al 65% dalla Caltagirone Spa, la prima quotata in cima alla catena, controllata a sua volta dalla Fgc con il 54% e dal fratello di Francesco Gaetano, Edoardo con il 33,3%. Il grande produttore di cemento opera ormai in oltre 15 Paesi nel mondo. Da lì viene il grosso del fatturato dell’intero gruppo. Più di 1,1 miliardi di euro con un margine industriale oltre il 20% e che assicura utili per una settantina di milioni. Di recente la società si è sbarazzata delle attività italiane (in perdita) riuscendo a vendere Cementir Italia con un incasso di 315 milioni. I soldi in parte sono stati investiti in un gruppo americano leader nel “cemento bianco” quello a più alta redditività. Cementir ormai fa affari fuori d’Italia. Soprattutto nei Paesi scandinavi e in Turchia, dove il gruppo pagherà dazio quest’anno alla svalutazione della lira turca. L’altro braccio quotato è la Vianini Spa che ha assorbito le attività di Domus nella gestione immobiliare. Poca cosa in termini di ricavi, così come la Vianini Lavori delistata qualche anno fa che lavora nelle commesse pubbliche. Ha quote nel Consorzio per la Metro C di Roma, così come le aveva per la Metro B. Fatturato che gira attorno a 140 milioni di euro con utili per 14 milioni e zero debiti. Non male dato che l’intero comparto dei grandi contractor è nel ciclone di una crisi senza precedenti. Ma la grande ricchezza, oltre a Cementir, e poco visibile perché distribuita nel grande ginepraio delle decine e decine di società non quotate del gruppo è il portafoglio immobiliare, la genesi della famiglia romana.
Nel bilancio consolidato della Fgc Spa, quella che ha cassa liquida per oltre 800 milioni e patrimonio netto per 1,8 miliardi ecco spuntare gli immobili di pregio. Da via Barberini a via Nazionale, a via del Corso, a via Bissolati fino a due grattacieli nel centro direzionale di Napoli. I palazzi di prestigio del centro di Roma sono dei Caltagirone che li hanno a bilancio per 1,5 miliardi. L’altra grande passione del 75enne capostipite è la finanza, o meglio le banche. Il Caltagirone banchiere è stato un po’ ovunque. Ha assaporato il profumo delle banche nella stagione dei furbetti del quartierino con l’assalto alla Bnl. L’Opa francese gli regalò una maxi-plusvalenza di oltre 300 milioni. Investiti poi in Mps. Nella banca senese Caltagirone era azionista di peso e vicepresidente durante la sciagurata gestione Mussari. Uscirà dalla banca a inizio del 2012 con pesanti perdite. Adocchia poi Unicredit dopo l’amara vicenda Mps. Entra nel capitale con uno degli ennesimi aumenti, finirà per perdere 42 milioni, uscendone.
Ora la nuova passione si chiama Generali. Caltagirone è in realtà entrato nel Leone da tempo e dal 2010 ne è vicepresidente. Ora però ha schiacciato l’acceleratore: ha comprato per tutto il 2018 piccoli pacchetti ed è titolare di una quota ormai vicina al 5%. Con lui Del Vecchio e i Benetton che insieme al vecchio Calta insidiano Mediobanca primo azionista con il 13%. L’investimento è di circa 1 miliardo e il patriarca sa che ogni anno porterà a casa oltre 60 milioni di soli dividendi. E poi il piede dentro l’Acea, il forziere del Comune di Roma dove i Caltagirone posseggono ora il 5% del capitale dopo aver girato una loro quota ai francesi di Suez di cui sono a loro volta divenuti azionisti con il 3,9% destinato a salire al 6%. Che ci fa la famiglia nel capitale dell’Acea posseduta al 51% dal Comune? Anche qui la caccia è al dividendo, ma si sfrutta anche il peso politico di una partecipazione pubblica.
Dentro a tutto ciò, o meglio fuori, c’è la Cenerentola dei giornali. Il business è ovviamente gracile: la Caltagirone editore vede il fatturato scendere ogni anno. A fine 2017 i ricavi erano a 144 milioni con margine industriale nullo e una perdita per 29 milioni. Nel 2016 la perdita è stata di 62 milioni. Oltre 90 milioni bruciati per i ricavi in calo e soprattutto le svalutazioni delle testate. Il Gazzettino è stato svalutato da solo per 28 milioni, Il Messaggero è in carico a bilancio per 90 milioni e tutte le testate sono valutate poco più di 200 milioni. Valori che rischiano di essere troppo elevati data la congiuntura pessima. Eppure il partito dei sindaci ha sempre da temere dai giornali della casa. Ne sa qualcosa Ignazio Marino a Roma o il fuoco di sbarramento iniziale sulla Raggi.
O l’atteggiamento non certo tenero con De Magistris. Quando c’è in ballo un piano urbanistico nelle città dove Caltagirone ha la sua sfera d’influenza, o quando c’è da fare la guerra ai Parnasi di turno (sui cui terreni dovrebbe sorgere il nuovo stadio della Roma) ecco che avere i primi giornali di Roma, Napoli e Venezia ha il suo peso. Per Caltagirone i costi quanto a perdite dei suoi giornali sono noccioline rispetto al ruolo che svolgono. Ma pur sedendo su liquidità per oltre 800 milioni, quando c’è da ristrutturare i giornali con esuberi e prepensionamenti pagati dallo Stato ecco che i giornali di Calta sono sempre in prima fila a chiedere stati di crisi ed esuberi. Forse il Re Mida se li potrebbe pagare da solo, senza andare col cappello in mano a bussare a Inps e Inpgi.

il manifesto 7.12.18
Kiev celebra il fascista Bandera e il teorico nazi
Ucraina. Appello per ridare al fondatore dell'Esercito Nazionale il titolo di "eroe", mentre il sindaco della capitale fa apporre una targa in ricordo di Dmitry Denzov, teorico dell'antisemitismo durante la seconda guerra mondiale
di Yurii Colombo


In Ucraina, paese associato alla Ue, prosegue l’opera di recupero dei peggiori protagonisti della storia europea. Ieri alla Rada è stata approvata una risoluzione-appello (primi firmatari Yaroslav e Bogdan Dubnevich del Blocco Petro Poroshenko) al presidente della repubblica perché sia riassegnato il titolo di «Eroe dell’Ucraina» a Stepan Bandera, il collaborazionista fascista fondatore del tristemente noto Esercito Nazionale Ucraino durante la seconda guerra mondiale.
Il titolo gli era stato tolto nel 2010 durante l’amministrazione di Viktor Janukovich, anche se statue e busti di Bandera sono sorti come funghi in tutte le città dell’Ucraina occidentale anche negli ultimi anni. Ma fa ancora più scalpore la decisione del sindaco di Kiev, l’ex pugile Vitaly Klicko, di far apporre una targa commemorativa in onore del traduttore in ucraino del Mein Kampf di Hitler e principale teorico fascismo ucraino, Dmitry Denzov.
La targa a Denzov, posta nel pieno centro della capitale sulla facciata dell’agenzia di stampa di Stato Ukrinform, ricorda il propagandista dell’antisemitismo più radicale, del razzismo biologico che durante la guerra visse a Berlino e nella Praga occupata, del collaboratore attivo delle autorità naziste, fuggito poi in Canada alla fine del conflitto.
Per onorarlo le autorità cittadine hanno in mente altre iniziative. Come quella già in fase di attuazione, nel quadro della «decomunistizzazione del paese», di dare il suo nome a una via della capitale, oggi dedicata a Ivan Kudri, eroe comunista della resistenza ucraina.
Tali iniziative hanno prodotto una forte indignazione della comunità ebraica internazionale. Il più importante portale di notizie ebraiche Vainet ha denunciato la riabilitazione di Dontsov in Ucraina ricordando le sue tesi sull’«ebraismo internazionale come potere della decomposizione e castrazione dell’anima popolare».
Il rabbino della Transcarpazia Wilhelm Menachem-Mendel ha aggiunto che «l’antisemitismo in Ucraina è antico e tradizionale» e non legato agli attuali conflitti in Medio Oriente.

Il Fatto 7.12.18
La Nato in Ucraina? Sarebbe troppo lenta
Uno studio Usa mette in risalto i limiti dell’Alleanza e dà consigli per agire
di Roberta Zunini


L’Ucraina è uno dei 13 Paesi associati alla Nato. La maggior parte dei suoi abitanti però vorrebbe che il Paese ne diventasse membro a pieno titolo per sentirsi più protetto dalle aggressioni. Il problema è che la Nato non sembra voglia rispondere con celerità e in modo efficace sul proprio fianco orientale dove ci sono anche i Paesi baltici, ossia gli Stati membri che più di altri manifestano la volontà di tornare sotto la protezione russa.
Sull’arretratezza della Nato nel versante orientale sono stati effettuati alcuni studi. Uno dei più completi è quello della Rand Corporation, tra i più autorevoli istituti, non profit, di ricerca statunitense a livello internazionale .
La Nato dovrebbe, secondo gli analisti, continuare a rafforzare il posizionamento delle forze di terra e dell’artiglieria pesante. La riconfigurazione e la realizzazione di ulteriori investimenti, il miglioramento degli inventari delle attività di trasporto e delle procedure di attraversamento delle frontiere, potrebbero, almeno in parte, colmare le lacune. Secondo la Rand Corporation, gli alleati dell’America dovrebbero essere più attivi. Paesi come la Germania, la Francia e il Regno Unito devono essere in grado di dispiegare molte più forze di terra sul campo di battaglia
Le forze della Nato devono aspettarsi che, in caso di guerra, lo spazio aereo sopra il territorio russo e le sue forze di terra verranno difesi con ogni mezzo. Per poter contrastare efficacemente, le forze aeree e terrestri dovrebbero essere in grado di “raggiungere” lo spazio aereo nemico non appena iniziassero le ostilità. Questo però può essere fatto a patto che elabori nuove e più moderne piattaforme di ricognizione. Allo stesso tempo, la Nato deve potenziare gli investimenti in velivoli stealth (invisibili ai radar) di quinta generazione, migliorare i sistemi di disturbo elettronico e missili radar homing a lungo raggi. Inoltre dovrebbe investire nuove risorse per dispiegare artiglieria a lungo raggio soprattutto in Polonia e nei Paesi baltici. Dopo la fine della Guerra Fredda, è venuto meno l’impegno a mantenere attive le procedure che garantivano il funzionamento delle linee di rifornimento e di trasporto dei mezzi militari in Europa attraverso percorsi prestabiliti in tutti gli stati membri della Nato.
Ciò è dovuto al cambiamento della percezione delle minacce. Senza più il timore di una guerra su vasta scala, non è stato aumentato il potere di deterrenza. Le funzioni e le capacità logistiche sono state spesso esternalizzate a società private, portando a una riduzione delle capacità di trasporto organico. Inoltre, l’odierno cattivo stato della mobilità militare Nato è causato dal fatto che alcuni dei suoi attuali stati membri, specialmente a Est, non hanno l’infrastruttura che esisteva nei Paesi occidentali.
Paesi come la Polonia e gli stati baltici facevano parte del Patto di Varsavia, dove le infrastrutture militari erano più leggere di quelle utilizzate dalla Nato. Si aggiunga l’ambiente operativo sempre più complesso che ha cambiato il rapporto tra logistica e strategia. Oggi è necessaria una logistica flessibile adatta a campi di battaglia non tradizionali, spesso remoti, con infrastrutture danneggiate o distrutte.
Dalla fine della guerra fredda, la logistica militare in Europa è spesso passata in secondo piano rispetto alla politica e alla strategia. È dirimente che la Nato riesca a dispiegare rapidamente le truppe e le attrezzature militari in un’area prima che si trasformi in una vera e propria crisi aperta. Inoltre, la maggior parte della potenza di combattimento statunitense precedentemente stanziata in Europa si è trasferita negli Stati Uniti e tutti gli stati membri dell’Alleanza che possono contribuire con forze pesanti dovranno spostarle di centinaia di chilometri.

Repubblica 7.12.18
Il caso Huawei
La partita Usa-Cina
di Federico Rampini


L’affare Huawei spezza la fragile tregua fra Stati Uniti e Cina. La sospensione dei super- dazi maturata dopo il G20 era già precaria, ora passa in secondo piano. L’arresto in Canada su mandato Usa, con richiesta di estradizione della potentissima Meng Wanzhou, top manager legata al regime di Pechino, suona quasi come una dichiarazione di guerra. Le Borse tremano, a ragione. A motivare l’azione della giustizia Usa c’è un’accusa di violazione delle sanzioni sull’Iran, che sarebbero state aggirate quando alla Casa Bianca c’era ancora Barack Obama ( prima che Donald Trump rinnegasse il patto nucleare). Dietro si scorge una partita ben più grande. È l’allarme americano per l’ascesa della Cina nelle tecnologie avanzate: una sfida per la supremazia mondiale che ha ricadute non solo industriali ma strategico-militari.
Huawei era nel mirino già da molto. Gli americani sospettano il colosso delle telecomunicazioni di essere un cavallo di Troia dello spionaggio cinese, sia industriale che militare. Mesi fa Washington cominciò ad allertare le capitali alleate, da Roma a Berlino: attenzione alle infrastrutture telefoniche made in China, vendute agli operatori telefonici occidentali, spesso pericolosamente vicine alle basi militari americane e della Nato. Con la transizione al 5G, la quinta generazione che sarà il nuovo standard della telefonia mobile, la penetrazione di impianti cinesi nei nostri Paesi rischierebbe di consegnarci a una vasta rete di spionaggio. L’Internet delle cose, come viene chiamato un futuro in cui dialogheranno fra loro tutte le macchine che usiamo grazie all’intelligenza artificiale, sarebbe ancor più vulnerabile al cyber-spionaggio cinese.
La vicenda Huawei ci proietta verso una dimensione ancora più cruciale rispetto all’antico contenzioso commerciale con la Repubblica Popolare. Accumulare attivi nella bilancia del commercio estero è " mercantilismo all’antica", dannoso ma riparabile, tant’è che già alcuni aggiustamenti la Cina aveva cominciato a farli (aumentando i propri consumi interni e quindi le importazioni). Ben altra sfida è quella contenuta nel "piano 2025" di Xi Jinping, quello che più spaventa gli americani. Un presidente cinese che ha di fronte a sé un orizzonte di lunghissimo termine ( ha cambiato la Costituzione per eliminare limiti al suo mandato) può pianificare la conquista di posizioni egemoniche nelle tecnologie strategiche.
Gran parte delle classi dirigenti occidentali — che invece sono appiattite sul brevissimo periodo — non hanno visto arrivare questa nuova offensiva cinese. Troppi leader politici erano fermi alla Cina di dieci o vent’anni fa, "fabbrica del pianeta", nazione emergente. Oggi un pezzo portante della sua economia è emerso eccome, assomiglia a un Giappone con gli steroidi, a una Singapore al multiplo. Alcune élite occidentali, pur intuendo il fenomenale salto di qualità, hanno visto solo vantaggi opportunistici: l’avanzata della finanza cinese è stata assecondata, le si vende volentieri l’argenteria di famiglia, pezzi pregiati dei nostri sistemi produttivi, delle infrastrutture, delle piattaforme logistiche globali. Magari omaggiando i discorsi " globalisti" di Xi Jinping al World Economic Forum, prendendoli alla lettera come un’alternativa virtuosa al protezionismo di Donald Trump. Senza vedere quanto il globalismo cinese sia la versione aggiornata e modernissima di una millenaria vocazione imperiale, che unita alla natura autoritaria del regime è tutt’altro che rassicurante. Osservare il pericolo Xi con lucidità non significa prendere sempre per virtuose le mosse americane. Quando un’egemonia è in declino e un’altra in ascesa, la transizione è turbolenta, conflittuale, gravida di pericoli. Atene-Sparta o la trappola del Peloponneso, secondo l’antica metafora di Tucidide.

Il Fatto 7.12.18
Miracolo di Roma: è ancora in sala (e già su Netflix)
di Federico Pontiggia


Un po’ di chiarezza. Il Leone d’Oro di Alfonso Cuarón, Roma, è targato Netflix, che lo diffonderà sulla propria piattaforma dal 14 dicembre, ma dal 3 al 5 dicembre è approdato nelle nostre sale distribuito dalla Cineteca di Bologna. Ebbene, quel triduo s’è allargato, Roma è ancora programmato e, lasciano trapelare dal servizio streaming, a discrezione dei singoli esercenti potrà esserlo anche dopo il 14, aprendo dunque a una diffusione theatrical-VOD contemporanea, come tra mille polemiche fu per Sulla mia pelle, il film sul caso Cucchi di Alessio Cremonini. Vedremo in che misura, ossia quante sale lo manterranno in tenitura, ma qualcosa pare essere cambiato dal 12 settembre di Cucchi, e a favore di Netflix.
Purtroppo, ché è risoluzione anti-trasparenza, la società di Reed Hastings non comunica dati su utenti, visioni, e nemmeno dà contezza degli spettatori in sala e relativi incassi: per Roma abbiamo visto sui social le code davanti ai cinema, e sappiamo che la proiezione a Pietrasanta alla presenza di Cuarón, che lì vive, mercoledì sera ha registrato il sold out (500 posti).
Ma che film è quello che Netflix cavalca come proprio cavallo di Troia agli Oscar? Emblematica è la decisione dell’American Film Institute (Afi), che annualmente distingue il meglio della produzione cinetelevisiva stelle & strisce, di tributargli uno Special Award, volendo ricompensarlo sebbene sia un film messicano, ovvero in lingua straniera. Categoria in cui, al contrario di Dogman di Matteo Garrone, lo troviamo nominato ai 76esimi Golden Globes, i riconoscimenti della stampa estera accreditata a Hollywood: Roma incassa tre candidature, anche per regia e sceneggiatura.
Regista, sceneggiatore, appunto, nonché produttore, direttore della fotografia e montatore, Cuarón vi riversa in bianco e nero 65mm i ricordi formato famiglia a Città del Messico, nel quartiere residenziale Roma, tra il 1970 e il ’71, addossandoli all’abbandono di due donne, la biochimica Sofia (Marina de Tavira) e la domestica Cleo (Yalitza Aparicio), da parte dei compagni, il medico fedifrago Antonio e il giovane Firmin, che mette incinta la ragazza e si dà. È girato da Dio, la sequenza del massacro dell’Halconazo probabilmente non ha eguali nel 2018, ma Cuarón vi distilla un senso di colpa borghese e denuncia una carenza d’empatia che gli inibiscono forse lo status di capolavoro. Del resto, i premi, sopra tutto Oltreoceano, non certificano i capolavori, anzi. E di premi il 56enne Alfonso ne sa a pacchi, lui e i sodali connazionali Alejandro González Iñárritu e Guillermo Del Toro (era presidente di giuria a Venezia, per Netflix ora farà l’agognato Pinocchio) si sono spartiti quattro degli ultimi cinque Oscar per la regia: Cuarón nel 2014, per Gravity; Iñárritu nel 2015 e nel 2016, per Birdman e The Revenant; del Toro quest’anno per La forma dell’acqua. Sì, dice bene il proverbio: Roma non fu fatta in un giorno.

Corriere 7.12.18
Classicità «Gli amori degli altri» (La nave di Teseo): una mappa dei sentimenti che segue il filo del mito e della storia
Nel cuore degli antichi
Eros, amicizia, nozze: Eva Cantarella racconta gli affetti dei greci e dei romani
di Giulia Ziino


Di cosa parliamo quando parliamo d’amore? Di sicuro di qualcosa che cambia attraversando i secoli e le geografie. Altrimenti come potremmo portare come esempio di matrimonio riuscito quello di Marzia e Catone? Sposati, due figli all’attivo e lei incinta del terzo, Catone pensa bene di cederla all’amico Ortensio che, per rinsaldare il legame amicale, gli chiedeva di avere dei «figli in comune». Marzia, ceduta suo malgrado, partorisce in casa del nuovo consorte il figlio di Catone e, più tardi, ne concepisce anche uno con Ortensio. Quando quest’ultimo, sessantenne all’epoca delle nozze, muore, Marzia torna da Catone. Secondo Lucano, che lo racconta nella Farsalia, la donna (con ancora tra i capelli la cenere della pira di Ortensio) bussa al portone del primo marito e lo implora: «Ho fatto quello che mi hai ordinato di fare. Ora torno da te, sfinita dai parti, in uno stato nel quale non posso essere ceduta a un altro uomo. Concedimi di riannodare i casti legami del primo letto, dammi soltanto il nome di moglie, così che sulla mia tomba possa essere scritto: Marzia, moglie di Catone». E Catone, prontamente, apre la porta.
Niente di strano, a Roma, dove cedere una moglie ancora in grado di procreare era cosa considerata normale. Anzi buona e giusta, poiché liberava il primo marito dal rischio di mettere al mondo troppe bocche da sfamare e dava invece al secondo la possibilità di avere figli. Tutto senza che la capacità di generare della donna andasse sprecata in epoche — come quella di Augusto — in cui la denatalità stava diventando un’emergenza sociale. E c’era anche chi, tra le matrone, sapeva fare buon viso a cattivo gioco e sfruttare la situazione. Come Livia, anche lei sposata e in attesa del secondogenito, ceduta (non si sa quanto spontaneamente) dal marito ad Augusto, che se ne era innamorato a prima vista (e per lei non aveva esitato a ripudiare la moglie Scribonia il giorno stesso in cui costei aveva partorito la loro unica figlia, Giulia). Livia sposa il princeps e sfrutta a suo vantaggio la situazione riuscendo a fargli succedere Tiberio, il figlio avuto dal primo marito. Operazione portata a termine al netto di due morti sospette (quelle dei figli di Giulia, nipoti diretti di Augusto, avvelenati, scrive Tacito, «a seguito delle trame della matrigna Livia») e di un altro matrimonio (quello fra Giulia e lo stesso Tiberio).
Cessioni, divorzi, ritorni. Li racconta Eva Cantarella in Gli amori degli altri (La nave di Teseo). Dove gli altri sono i greci e i romani, antenati da cui molto deriviamo ma dai quali, però, ci separa una concezione dei sentimenti e dell’amore in cui è difficile per noi identificarci. Troppo distante e diversa. Cantarella prova a orientarci in questa mappa del cuore servendosi dei miti e della letteratura (ma anche di testimonianze scritte di altro tipo: corpi di leggi, iscrizioni, graffiti) in cui l’amore è protagonista. Al modo dei greci, per i quali, per esempio, le relazioni adulterine dell’uomo erano tollerate col sorriso dalle brave mogli al punto che Andromaca — altra metà di una delle coppie più solide della tradizione letteraria — si vanta per bocca di Euripide di aver allattato i figli illegittimi del marito, per non amareggiarlo e anzi «conquistare il suo amore»: proprio quell’Ettore con cui, sulle porte Scee alla vigilia della battaglia, aveva dato vita a uno dei quadretti di vita familiare più famosi (e commoventi) dell’antichità.
Inutile cercare di immedesimarsi: mentalità troppo lontane dalla nostra. Meglio cercare di contestualizzare e poi lasciarsi travolgere dal fascino delle testimonianze, delle storie: dèi che rapiscono ragazze (e ragazzi) come se nulla fosse (le mille conquiste di Zeus: Callisto, Europa, Metis, Semele, Io, Ganimede, Leda...), fiumi e venti che insidiano ninfe bellissime, mariti che, come Ulisse, smaniano per tornare dalle mogli ma non disdegnano di ritardare il rientro trascorrendo anni nel letto di maghe. Ma anche la forza ancora viva di sentimenti più simili ai nostri, meno difficili da condividere: la gelosia che fa impazzire Catullo mentre pensa a Lesbia, i sospiri di Sulpicia — preziosa e rara voce di poetessa donna —, i vivacissimi graffiti di Pompei («Costringimi a morire, poiché mi costringi a vivere senza di te», ma anche il meno romantico, seppure tardivamente ritroso: «Io qui, con le natiche al vento, ho fatto l’amore con la mia donna: ma scrivere queste cose è stato turpe»). E la philia — misto di eros, amicizia e rapporto tra discepolo e maestro — che univa Achille e Patroclo e gli uomini di Grecia e Roma ad altri uomini: nel 559 d. C. Giustiniano per la prima volta la bollerà come «contro natura». Cambia l’etica, e si chiude un’era.

Corriere 7.12.18
Cause per molestie
La ginnastica Usa è in bancarotta
Il caso del medico-orco. «Risarciremo tutti»


È come se trent’anni di occhi e porte chiuse, d’indifferenza e omertà di fronte a molestie e abusi gravissimi avessero cancellato di colpo 115 medaglie olimpiche conquistate in oltre un secolo. Come una qualunque azienda che affonda di fronte ai creditori, Usa Gymnastics, la Federazione americana di ginnastica artistica, ha aderito al famigerato Chapter 11, la procedura di amministrazione controllata che prevede la consegna dei libri contabili in tribunale e precede il fallimento.
Ai dirigenti federali è sembrata l’unica via di uscita di fronte a 140 cause di risarcimento individuali o collettive avanzate da 350 ginnaste vittime di molestie sessuali. Atlete ed ex atlete accusano i vertici federali di non aver voluto fermare Larry Nassar, il medico-mostro del team olimpico e condannato lo scorso gennaio a 60 anni di carcere per aver abusato di centinaia di atlete. Il processo a Nassar, che si è svolto davanti al tribunale di Ingham, nel Michigan, ha visto sfilare davanti alla giudice Rosemarie Aquilina tutte atlete che hanno raccontato decenni di abusi e orrori. L’arresto, il mese scorso, del presidente federale Steve Penny, accusato di aver coperto Nassar, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Le accuse
La Federazione accusata di non aver fermato le violenze
«Sono tempi duri»
L’indagine, nata da un’inchiesta del piccolo quotidiano Indianapolis «Star», i cui giornalisti si sono autofinanziati per poter far luce sui fatti, ha portato alla luce una rete di complicità federali estesissima. Sospetti, segnalazioni, report di medici e psicologi non hanno indotto nessuno nella ricca Federazione — con cui Nasser aveva cominciato a collaborare già nel 1986, diventando ben presto un guru — a fermare il mostro a cui le atlete venivano inviate e raccomandate per trattamenti medici e manipolazioni osteopatiche. A testimoniare contro Nasser si è presentata anche Simone Biles, stella planetaria della ginnastica con le sue quattro medaglie d’oro ai Giochi di Rio e 14 titoli mondiali.
Il rinnovamento dei vertici politici e amministrativi della Federazione non ha fermato la valanga di cause civili e richieste di risarcimento. Ieri Kathryn Carson, la nuova responsabile della Federazione, ha annunciato il ricorso al Codice di Bancarotta. «Sono tempi durissimi per la ginnastica americana — ha ammesso Carson — e la procedura ci consentirà di andare avanti, voltando pagina, con le attività di allenamento e competizione sia dei ragazzi che del team olimpico. Pagheremo debiti e risarcimenti fino all’ultimo centesimo grazie alle polizze assicurative sottoscritte in passato. Tutte le nostre iniziative — dal Capitolo 11, al lavoro di mediazione e cura dei sopravvissuti degli orribili abusi di Nassar, alle iniziative di sicurezza che abbiamo implementato, al sostegno dei nostri atleti e club — sono prese con l’ammissione delle colpe del passato e l’obiettivo di rendere la ginnastica negli Stati Uniti virtuosa e rispettosa degli atleti e ancora vincente».


Repubblica 7.12.18
Evviva le lingue morte che non smettono di vivere
Il grande successo con "Repubblica" dei libri di Nicola Gardini e Andrea Marcolongo
di Paolo Di Paolo


Una ragazza è alle prese con le versioni di latino. Si sconforta: «No, non ce la faccio!», la madre la sprona, la incoraggia. La ragazza reagisce e fa la domanda delle domande: «Ora tu mi spieghi a che serve il latino». La madre azzarda una spiegazione: «Oh! Il latino è importante, eh! Il latino serve a ragionare, a costruire così... un discorso, a scrivere». Si confonde, parla della "struttura logica" che viene dal latino, scoppia a ridere: «Non mi ricordo, so che serve a qualcosa, ma non mi ricordo più a cosa, va bene?». È una scena di un film di Nanni Moretti, Mia madre. È la domanda che generazioni di studenti si sono portati dietro: a che cosa servono il greco e il latino? Forse il successo di La lingua geniale e Viva il latino allegati a Repubblica — oltre cinquantamila copie in pochi giorni — è già una risposta. Due bestseller — decine di edizioni in libreria — diventano bestseller anche nella riproposta in edicola. È il segno che le lingue cosiddette morte restano vive prima di tutto in noi, come una specie di muscolo dimenticato, o un secondo cuore. Chi ha trafficato con i paradigmi, con le declinazioni — lì per lì, magari, maledicendole — si porta dietro una strana cassetta degli attrezzi. Inutilizzabili, o almeno pare, nel quotidiano: con chi parli la lingua di Sofocle o di Seneca? Con nessuno, in effetti. Inapplicabili alle emergenze pratiche: una perifrastica non salva e non risolve. Ma quanto più te la porti dietro nella vita, quella cassetta degli attrezzi fuori tempo, tanto più si alleggerisce.
Al punto che dimentichi di averla con te. E dopo quarant’anni di assenza dai banchi di scuola, se qualcuno se ne esce con "rosa, rosae" sbianchi, ti allarmi, sospiri, metti le mani avanti: non mi ricordo niente. Non è così: di tutto resta un poco; e del greco e del latino una specie di scia, un sentimento. Sono convinto che i libri di Andrea Marcolongo e di Nicola Gardini abbiano rimesso in gioco, prima ancora che un sapere, quel sentimento. E il desiderio — in decine di migliaia di studenti, in corso e fuori corso — di alimentarlo, risvegliarlo, di non disperderlo. Un tesoro, o tesoretto che, seguitando a mandare il proprio bagliore, illumina imprevedibilmente la quotidianità, il presente.
Inciampi su una parola — e la vedi meglio, ne cogli la storia, il tempo, lo spazio.
Ma non basta. Senti risuonare, nelle frasi che dici, una musica complessa e misteriosa. Mentre provi a leggere i segni del mondo — concetti, idee, conflitti — il fascio di luce investe un dettaglio, lo rivela e insieme lo complica. E magari fa sbucare un’altra strada, sempre all’improvviso. Una grande della fisica, Fabiola Gianotti, una che ha lavorato sul bosone di Higgs, ha raccontato una volta il suo amore per le lingue "morte": «Amavo il greco e il latino, e soprattutto la filosofia antica. Lì ho intuito che la fisica mi avrebbe permesso di aiutare in maniera pratica le domande filosofiche».
Non è questione dunque di accanimento grammaticale, il punto è la sfida che le lingue di un passato remoto — e la vastissima sapienza dell’umano che traghettano — lanciano al presente. Ars interrogandi.
Tutto qua. L’arte di non smettere di farsi domande, di tenere viva e vitale una staffetta tra moderni e antichi, a costo di ritrovarci nei panni di quelli che stanno più indietro.

Repubblica 7.12.18
Non spegnete radio radicale, voce per tutti
di Roberto Saviano


La furia di questo governo si abbatte sui media più piccoli — ma non marginali — che a causa dei tagli all’editoria rischiano la sopravvivenza. La giustificazione? Il risparmio. Ma si può mai risparmiare su Radio Radicale che ci permette di assistere e comprendere i processi decisionali entrando nelle stanze del potere? Si può risparmiare su Avvenire che racconta, ogni giorno e quasi da solo, le sorti dei migranti in mare? Si può risparmiare sul Manifesto che è rimasto tra i pochissimi quotidiani a occuparsi con assiduità di temi sociali con un taglio diverso, mai banale? Proprio quel Movimento e quel governo che si presentano come difensori dei diritti del "popolo" impediscono poi al "popolo" di avere accesso alla conoscenza, determinando la chiusura di realtà fondamentali. Mai nessun governo, da quando esiste la convenzione con Radio Radicale, aveva osato tanto. Mai.
L’ultima battaglia di Marco Pannella, fondatore di Radio Radicale, è stata per il diritto alla conoscenza che in apparenza sembra una cosa tanto banale e scontata, ma ovviamente non lo è. Diritto alla conoscenza non significa diritto ad accedere a internet o possibilità di acquistare un quotidiano, ma il diritto che ciascuno di noi ha a conoscere ciò che davvero accade nelle stanze del potere. E siccome Pannella prima agiva e poi comunicava, nel 1975 fonda la radio, un organo di informazione fondamentale che, negli ultimi 40 anni, ha fatto entrare il cittadino in Parlamento per ascoltare le sue sedute, nelle aule di giustizia per assistere in maniera integrale ai processi più importanti, nei congressi dei partiti fino alle sedute del Consiglio superiore della magistratura. E tutto questo è la reificazione del controllo sociale sul Potere e sul suo esercizio di cui si nutre una sana democrazia.
Il punto è tutto qui: esiste una politica che preferisce cittadini disinformati — resi timorosi e pieni di rancore da semplificazioni della realtà che sono veri e propri attacchi alla democrazia — ed esisteva, perché adesso non esiste più, una politica capace di volere bene e esortare in maniera sfrontata, quasi impertinente — come faceva Pannella — a non avere paura del prossimo, ma fiducia nelle persone e nella conoscenza. Una politica che invitava a rivolgere l’attenzione agli ultimi, a chi sta in carcere perché ha sbagliato e sta pagando, meritando al contempo un’occasione di reinserimento tra noi. Una politica in grado di non esasperare le differenze, ma di mostrare le vicinanze. Pannella era l’uomo della gente, non del "popolo". Uno che se gli avessi chiesto un selfie, prima avrebbe accettato ma poi ti avrebbe coinvolto nella raccolta delle firme necessarie a dare supporto alle iniziative del Partito Radicale. Una razza rara che oggi siamo costretti a rimpiangere.
Radio Radicale è per noi un dono prezioso: la radio che sta "dentro, ma fuori dal palazzo", come ogni mattina ci ricorda la bella (per sempre) voce di Dino Marafioti; la radio che consente a chiunque di sapere ciò che accade in Turchia, in Cina, in Europa, negli Stati Uniti, nel Mediterraneo, in Africa, sulle droghe, nei tribunali, nelle carceri, nel mondo culturale. La radio dove tutti i politici sono ascoltati e dove tutti i giornalisti hanno un solo obiettivo: rendere il miglior servizio possibile agli ascoltatori. La radio di Antonio Russo. Perdere Radio Radicale significa perdere un patrimonio preziosissimo, e non ce lo possiamo permettere. Radio Radicale ha subito il taglio del 50% della convenzione che ha con il Mise, e questo significa la chiusura per una radio che non ha pubblicità con la quale sostenersi, perché è l’unico media di servizio pubblico integrale. Lo sa questo Vito Crimi, sottosegretario all’editoria, per il quale gli organi di informazione fanno troppa politica? Ma a Crimi — parlamentare da più di cinque anni — sfugge il significato stesso della parola politica. Fare politica significa occuparsi di ciò che accade perché tutto, nella nostra vita, è politica. Crimi non sa che la sua società ideale, quella in cui i media non esprimono più opinioni ma si limitano a "raccontare i fatti" non è una novità: la mancanza di opinioni pubbliche e quindi della possibilità che vi sia una pubblica opinione, è stata il tratto distintivo di tutti i regimi totalitari. Non a caso il principale organo di informazione dell’Unione Sovietica si chiamava Pravda, come se oggi un giornale si chiamasse La Verità, senza che a nessuno venisse da ridere. Crimi probabilmente tutto questo lo ignora, ma altri, nel suo Movimento, con l’armamentario tipico dei regimi totalitari hanno maggiore confidenza: basti pensare all’orrida autocritica cui è stato costretto il padre di Luigi Di Maio. Del resto la libertà un popolo la può perdere a causa di perfidi aguzzini, ma di solito la strada la lastricano gli inconsapevoli, di se stessi e del mondo. L’8 dicembre il Ministro della Mala Vita porta in piazza i suoi sostenitori, per far vedere che il culto della sua personalità non si nutre di soli like, ma di persone in carne ed ossa, che sono state invitate a partecipare anche sul presupposto che io, come molti altri, non ci saremo. Non perché ci sia vietato, ma perché saremmo diversi da tutti quelli che ci saranno.
Penso a Pannella e, se anche in quella piazza non ci sarò, so che dovrei esserci. Dovrei essere accanto non a quella che qualcuno chiama l’Italia peggiore, ma accanto all’Italia che si sente peggio trattata e che crede, sbagliando, che la risposta possa offrirla questo governo. Dovrei esserci per dire a tutte le persone accanto a me di accendere la radio e di ascoltare Radio Radicale, di farsi questo regalo, per una settimana: sarà come un risveglio dal sonno. Poi magari continueranno a sostenere questo governo, ma lo faranno in maniera più consapevole, più informata. La conoscenza passa necessariamente per la pluralità dell’informazione, per l’informazione che vi piace e con cui vi trovate d’accordo e per quella che mai riuscirete a condividere.
La conoscenza passa per le opinioni, non per il racconto asettico dei fatti, un racconto che non esiste, e chi lo auspica è un truffatore. E allora, contro questi nuovi barbari — che si fingono amanti di selfie e gattini e che non esitano a infliggere, per ambizione, pubblica umiliazione ai propri familiari – abbiamo una sola alternativa: difendere ciò che di prezioso abbiamo, la nostra libertà di informarci. Difendiamo Radio Radicale ascoltandola, mostrando quanto sia necessaria, perché oggi Radio Radicale garantisce il nostro diritto alla conoscenza ed è un’arma pacifica a disposizione di tutti, per resistere a chi nulla sa e nulla vuole sapere. A tutti quelli che, per mantenere il potere, pretendono che venga raccontata solo "la verità", la loro verità.




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