La Stampa 6.12.18
Solženicyn non è più “spennato”
Il grande affresco della Russia staliniana in traduzione integrale Manuale di psicologia di tutti i dittatori
di Anna Zafesova
Dalla
prima traduzione di Nel primo cerchio, nel 1968, in poi in Italia
veniva pubblicata la versione «spennata», come la definisce lo stesso
Solženicyn, che lo scrittore cercò di adattare alla censura sovietica.
Non ci riuscì, ma fu proprio questa stesura a venire pubblicata in
Occidente e a meritare allo scrittore il Nobel. A venire sacrificati
furono, ovviamente, i capitoli su Stalin, e altri passaggi cruciali ma
troppo taglienti, per un totale di nove capitoli, oltre alla molla
stessa del plot, resa più innocente.
Un romanzo concepito nel
1945-1953, durante la prigionia nel Gulag, scritto nel 1955-58,
modificato nel 1964, ricostruito nel 1968, e che la casa editrice Voland
propone al lettore italiano mezzo secolo dopo nella versione integrale,
in tutta la sua grandezza da cattedrale, alla quale lo paragonò
Heinrich Böll, con arcate, volte, travi a sorreggersi in un insieme
imponente e leggiadro allo stesso tempo, tenuto insieme in una tensione
perfetta da migliaia di mattonelle. Della cattedrale possiede il respiro
della navata - il panorama multidimensionale della Russia staliniana,
dalle campagne desolate ai salotti della borghesia rossa, e dalle
segrete del Gulag alla dacia del leader - e la vertiginosa guglia dei
capitoli su Stalin, ma anche la moltitudine di angoli reconditi,
cappelle, affreschi, statue che emergono dall’oscurità, composti da
singole storie, scene, personaggi, in un quadro che ricorda nella
ricchezza e terribile nitidezza un gigantesco Giudizio universale a
tutta parete.
Tutti finiscono dannati, in una Russia paragonata
all’inferno fin dal titolo. Buona parte dell’azione si svolge nella
šaraška, il primo girone «di lusso» del Gulag, la prigione privilegiata
alle porte di Mosca dove ingegneri e matematici detenuti inventano
apparecchiature che aiuteranno i loro carcerieri a fare altri
prigionieri. Ci sono tutti i temi più cari a Solženicyn: la rivoluzione,
la religione, la donna, il popolo contadino, la monarchia, la lingua
russa, l’Europa, il marxismo. Ma non è un romanzo didattico e
ideologico, è un racconto polifonico, mirabilmente reso nella traduzione
di Denise Silvestri, con decine di storie (i personaggi sono tutti
realmente esistiti) che si diramano dalla trama principale.
L’azione
è invece pressata in meno di tre giorni, con però decine di flashback
che vanno indietro di decenni, e lontano migliaia di chilometri, con
improvvisi cambiamenti di ritmo, voragini filosofiche che si alternano a
intermezzi quasi comici, in un incastro che sa di perfezione
matematica, ma anche di musica. Il fucile appeso alla parete nel primo
atto spara nel terzo, come raccomandava Cechov, l’infinito puzzle di
dettagli, sfumature, oggetti, suoni, odori e frasi si compone senza
lasciare fessure, in uno dei panorami più ampi e realistici della Russia
del Novecento.
Un giorno, forse, si leggerà «soltanto» come un
grande romanzo. Ma oggi, un secolo dopo la nascita dello scrittore e
cinquant’anni dopo la prima pubblicazione «spennata», è ancora
impossibile distinguere questo imponente affresco dal suo soggetto: lo
stalinismo. L’enigma di un Paese enorme totalmente soggiogato dal suo
sovrano, dove la verità e lo sguardo disincantato sulla realtà sono
punibili con la prigione, e solo nella prigione diventano possibili.
Tutti mentono a tutti - i mariti alle mogli, i genitori ai figli, i
superiori ai sottoposti, i giornali ai lettori, i ministri a Stalin e
Stalin a sé stesso, con le «fake news» di cui Solženicyn descrive il
funzionamento in intuizioni che sembrano tratte da studi di
comportamentismo moderno. Un sistema dove tutti sono carnefici, e tutti
prigionieri, a cominciare dal Capo Supremo, che vive da recluso nella
sua dacia, di notte, nell’autunno di un patriarca che non ha conosciuto
una primavera gloriosa, un vecchio rancoroso, paranoico, vanitoso e
permaloso, l’antirivoluzionario per definizione: più che ispirato
dall’utopia marxista, è il suo becchino, un Grande Inquisitore
dostojevskiano che sogna una gerarchia patriarcale.
Solženicyn
voleva dimostrare che Stalin non fosse una tragica «deviazione», ma il
prodotto inevitabile e logico dell’ideologia comunista. Cinquant’anni
dopo, oltre ai paralleli con la Russia contemporanea, il romanzo
colpisce un bersaglio non circoscritto più nello spazio e nel tempo, un
manuale di psicologia del dittatore, da Mao alla dinastia dei Kim, dai
peronisti latinoamericani ai rais mediorientali, fino ai sovranisti e
populisti europei e americani che, in quella triste farsa che, secondo
Marx, è sempre la ripetizione della storia, inneggiano al popolo per
trasformarlo in plebe.