mercoledì 5 dicembre 2018

La Stampa 5.12.18
Kant diventa un “traditore” della patria
di Anna Zafesova


Nel «Maestro e Margherita» di Bulgakov uno dei personaggi, un «poeta proletario», mostra la propria ignoranza proponendo di «spedire questo Kant per tre anni a Solovki».
Il viceammiraglio della flotta del Baltico Igor Muhametshin probabilmente, potesse mettere le mani sul filosofo tedesco, non si accontenterebbe di una sentenza così mite: «Kant è un traditore della patria», ha annunciato ai marinai che comanda, esortandoli a votare al referendum per impedire che l’aeroporto di Kaliningrad venga intitolato a uno «che ha scritto dei libri incomprensibili che nessuno dei presenti ha letto né leggerà mai».
Che il viceammiraglio non sia in grado di leggere Kant è indubbio, per il resto le sue nozioni sulla vita del più famoso cittadino di Kaliningrad sono abbastanza approssimative. Non si capisce di quale patria è stato traditore – durante la guerra dei Sette anni il filosofo divenne per quattro anni suddito russo, insegnando pirotecnica e fortificazione agli ufficiali russi, e nel 1794 entrò nell’Accademia delle scienze di Pietroburgo – né davanti a chi «strisciava per ottenere una cattedra all’università». Il viceammiraglio però non è stato l’unico a trattare il grande illuminista come un dissidente liberale al soldo di Soros: nelle ultime settimane degli sconosciuti hanno imbrattato di vernice il monumento a Kant, la lapide su una delle case che aveva abitato e la sua tomba. Intorno i vandali hanno sparso volantini che dicevano che «il nome di un tedesco non imbratterà il suolo russo». Diversi esponenti politici si sono espressi più o meno negli stessi termini: «Un’offesa per i veterani della guerra», ha commentato il deputato della Duma Bariev.
La campagna per il nuovo nome dell’aeroporto dell’enclave baltica ha fatto emergere il neonazionalismo russo in una delle sue manifestazioni più surreali. Non solo perché l’inventore della legge morale è nato, si è laureato, ha insegnato ed è morto a Koenigsberg, senza immaginare che nel 1945 la Prussia Orientale sarebbe stata conquistata dall’Armata Rossa, la sua città avrebbe cambiato nome in Kaliningrad e nel 2018 lui sarebbe stato giudicato non abbastanza leale al Cremlino per la sua filosofia di ragione, libertà e pace. Ma anche perché l’enclave più europea della Russia va fiera del suo concittadino: l’università porta già il nome di Kant, e nel 2024 sono previsti celebrazioni per i 300 anni dalla sua nascita. Nel referendum online per il nome dell’aeroporto, dopo aver guidato la classifica prima della campagna contro il «traditore», ha invece perso da una sua contemporanea, l’imperatrice Elisabetta, tedesca da parte di madre.

Corriere 5.12.18
Einstein, scienza e religione
La sua «Lettera su Dio» all’asta per quasi 3 milioni
La «debolezza umana» nel documento venduto a New York
di Giuseppe Sarcina


WASHINGTON «Per me la parola “Dio” non è altro che l’espressione e il risultato della debolezza umana». Firmato Albert Einstein, 3 gennaio 1954, Princeton, New Jersey. È il passaggio chiave di una delle lettere più famose del grande scienziato. E oggi anche la più preziosa, visto che Christie’s ieri l’ha venduta per 2 milioni e 892.500 dollari, compresi i diritti d’asta, a New York. La quotazione iniziale era di 1-1,5 milioni di dollari.
È un testo in tedesco di due pagine, con qualche correzione, indirizzato a Eric Gutkind, autore del libro «Choose Life: The Biblical Call to Revolt». L’appello è agli ebrei, partendo dalla «incorruttibilità» di Israele.
A quell’epoca Einstein aveva già 74 anni. Aveva ottenuto il Nobel nel 1922, rivoluzionato la fisica, e non solo, con la teoria della relatività. Da almeno vent’anni era uno dei pensatori più importanti e più popolari del pianeta. Merito anche del suo stile diretto, della sua libertà di pensiero che imponevano il confronto, se non la polemica.
Non cambio idea:
la Bibbia è una raccolta di leggende venerabili ma comunque piuttosto primitive
La «Lettera su Dio» ne è un esempio. Einstein aveva letto l’opera di Gutkind e l’aveva bocciata su tutta la linea: «La Bibbia è una raccolta di leggende venerabili ma comunque piuttosto primitive. Non c’è un’interpretazione, per quanto sottile possa essere, che mi faccia cambiare idea». E ancora: «Per me la religione ebraica nella sua versione originale è, come tutte le altre religioni, un’incarnazione di superstizioni primitive. E la comunità ebraica, di cui faccio parte con piacere e alla cui mentalità sono profondamente ancorato, per me non ha alcun tipo di dignità differente dalle altre comunità. Sulla base della mia esperienza posso dire che gli ebrei non sono meglio degli altri gruppi umani, anche se la mancanza di potere evita loro di commettere le azioni peggiori. In ogni caso non sono in grado di distinguere alcun “eletto” tra loro».
La notizia dell’asta ha rilanciato la discussione sulla spiritualità di Einstein, che di sé aveva detto: «Sono un religioso, non un credente». In questa stessa lettera lo scienziato cita «il nostro meraviglioso Spinoza», il filosofo ebreo olandese del diciassettesimo secolo che concepiva la figura di Dio come un essere senza forma, impersonale: l’artefice dell’ordine e della bellezza visibili nell’universo.
Idea ripresa da Einstein anche nel celebre dibattito all’Hotel Metropole di Bruxelles con il fisico Niels Bohr che sosteneva il «principio di indeterminazione», l’impossibilità di stabilire quale sia la legge fondante del cosmo. «Dio non gioca a dadi con l’universo», disse Einstein.
Per me la parola «Dio» non è altro che l’espressio-ne e il risultato della debolezza umana
Ma la «Lettera su Dio» conferma, più prosaicamente, il crescente valore di mercato dell’epistolario di Einstein. Fino a qualche anno fa era di proprietà della famiglia Gutkind. Nel 2009 passò di mano per la prima volta in un’asta per 400 mila dollari.
Ora vale sette volte tanto. L’anno scorso a Gerusalemme fu venduta per 1,56 milioni un’altra sua nota: «Una vita tranquilla e umile porta più felicità che l’inseguimento del successo e l’affanno senza tregue che ne è connesso».

Repubblica 5.12.18
Teologia politica
Si chiama uguaglianza la resurrezione dei laici
Perché abbiamo perso il senso del rapporto con la morte e ciç che rappresente
Il nuovo saggio di monsignor Paglia contro l’indifferenza
di Roberto Esposito


L’essenza del cristianesimo non sta in una semplice credenza dell’aldilà, in un generico messaggio di salvezza o nell’idea dell’immortalità dell’anima, ma nella fede che Cristo è risorto. E che risorgeranno tutti coloro che confidano in lui. Questa tesi radicale, già sostenuta da Oscar Cullmann alla metà del secolo scorso, è al centro del nuovo libro di Vincenzo Paglia, Vivere per sempre. L’esistenza, il tempo e l’Oltre (Piemme). Paglia ricorda che allorché l’apostolo Paolo cominciò a diffondere la dottrina cristiana tra i filosofi greci, questi lo ascoltarono fino a quando parlò della dimensione religiosa della vita, dell’opera di Gesù o della sua origine divina. Ma appena Paolo introdusse l’argomento della resurrezione, lasciarono cadere il discorso. Non capivano. Ma proprio in quelle parole risiede il nucleo, incandescente e scandaloso, del cristianesimo.
Gesù non è sopravvissuto alla morte come Lazzaro, ma è risorto dopo essere morto. Solo allora «la morte è stata inghiottita nella vittoria» (Paolo, 1 Cor., 15). È quell’evento a liberare la storia dalla schiavitù del male. A sconfiggere per sempre il Nemico. A mutare la concezione della morte e dunque anche della vita.
Benché Paglia, come gran parte dei teologi contemporanei, relativizzi la differenza tra resurrezione dei corpi e immortalità dell’anima – entrambi frutto della volontà divina –, il senso ultimo del cristianesimo poggia sul mistero della resurrezione. Contro la tendenza a diluirne la specificità in una dimensione genericamente etica, condivisa dalle altre religioni e anche da larga parte mondo laico, Paglia rivendica l’elemento peculiare del dogma cristiano. La demitizzazione dei suoi contenuti più ostici, a partire dal motivo della resurrezione della carne, rischia di oscurare la parte più rivoluzionaria del cristianesimo.
Che, essendo una religione della vita, riguarda proprio il rapporto con la morte. «In faccia alla morte l’enigma della condizione umana raggiunge il culmine», è detto nel Concilio Vaticano II. Alla sua rimozione, caratteristica della condizione contemporanea, Paglia dedica alcune delle pagine più efficaci. Nonostante l’attenzione che gli ha rivolto la filosofia contemporanea, l’atteggiamento oggi più diffuso è quello di mettere da parte il pensiero, evidentemente insostenibile, della morte. Si spera di morire senza accorgersene, all’improvviso. Inteso dagli uni come un dato puramente biologico cui rassegnarsi, da altri come qualcosa che, col progresso tecnico-scientifico, sarà possibile rimandare sempre più in là, l’evento della morte viene neutralizzato nel suo senso ultimo. D’altra parte, come afferma Hans Urs von Balthasar, ormai quello delle cose ultime è «un cantiere chiuso per restauro». Tuttavia, cacciato dalla porta, il pensiero della morte rientra dalla finestra. Intanto perché non possiamo evitare, soprattutto con l’aumentare dell’età, che la sua ombra si allunghi sulla nostra esperienza. Ma a inquietarci non è solo la nostra morte futura, ma anche quella data agli altri intorno a noi. Oggi sono in tanti a farsi, direttamente o indirettamente, complici del lavoro sporco della morte, agevolandolo o consentendolo. Mentre i genocidi, tutt’altro che esauriti nella prima metà del secolo scorso, si susseguono, le vittime della guerra, della malattia, della fame si moltiplicano in ogni angolo del mondo. Da questo punto di vista la fantasia popolare dell’inferno è superata dall’orrore della realtà circostante. L’immagine di indigenti, disperati, naufraghi di terra e di mare, chiusi dai muri, respinti dai porti, violati nei campi di detenzione, ne ripropone la figura orribile. Alla sua origine, per l’autore, è da un lato l’isolamento narcisistico dell’io, dall’altro la contrapposizione del "noi" al "loro". Il contrario della pace non è solo la guerra, ma anche l’egoismo e l’indifferenza che destina esseri umani all’abbandono e alla sofferenza.
Eppure, nel buio della morte, continua a trapelare la luce della vita. Anzi, solo la consapevolezza della fragilità dell’esistenza consente di resistere a ciò che la nega. Secondo Paglia, senza cancellare e anzi rivendicando la loro differenza, il mondo della fede può stringere un’alleanza salvifica con quello della ragione laica. Un’alleanza basata sulla consapevolezza che i popoli, tutti i popoli della Terra, sono uniti da un medesimo destino. Non si può immaginare che una parte del mondo si sviluppi a scapito di un’altra. O l’umanità si salva nel suo insieme o tutta insieme è destinata a perire. In questa convinzione c’è qualcosa di più che una semplice affermazione di pluralismo politico. C’è l’idea che l’unità dei popoli si stringe all’origine della vita. I popoli sono fin dall’inizio ibridati sotto il profilo etnico, storico, culturale. A partire da qui un ponte collega i credenti ai non credenti. Se per i primi vale il principio di Paolo che in Cristo «non c’è né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna» (Galati, 3, 28), per i secondi l’uguaglianza resta un obiettivo irrinunciabile. Per i laici la morte non è mai compimento felice di una vita. Resterà sempre la sua incomprensibile rottura. Ma ciò non cancella il significato di un impegno cristiano che sappia farsi "cattolico" nel senso originario del termine.

Il Fatto 5.12.18
L’“animale dentro” è un po’ Piccolo: nessuno l’ha visto
L’ultimo romanzo del Premio Strega non convince: amplessi e amori sono poco credibili proprio perché fingono di essere onesti fino all’esibizionismo
di Stefano Feltri


Anche Sigmund Freud partiva dai propri sogni, che ben riusciva a decodificare, per cercare di cogliere regole generali da applicare ai suoi pazienti. Quindi è legittimo che Francesco Piccolo cerchi di indagare la propria biografia di baby boomer – è del 1964, l’anno in cui sono nati più italiani di sempre – per indagare la categoria a cui appartiene. Non quella di uomo ma quella più specifica di “maschio”. E Piccolo ci racconta L’animale che mi porto dentro, un verso di Franco Battiato che usa come titolo di questo suo nuovo romanzo, molto difficile perché il primo dopo il premio Strega del 2014 per Il desiderio di essere come tutti.
Piccolo è un intellettuale brillante, scrive i film di Nanni Moretti e Paolo Virzì, è uno dei pochi della sua generazione ad aver conservato un senso della complessità, il desiderio di prendere le cose sul serio. Eppure questo romanzo sembra scritto di fretta, prodotto da un’ansia da assenza dalle librerie più che da un’urgenza narrativa. Lo schema è lo stesso di Il desiderio di essere come tutti, ma qui non funziona. Là c’era l’intreccio tra crescita personale e politica, la maturazione di una coscienza civica costruita certo su buone letture ma anche su quegli episodi minuscoli che però finiscono per connotarci più di ogni dibattito sui destini della sinistra: una partita vinta dalla Germania Est, una battuta del padre, il funerale di Enrico Berlinguer visto in tv. Qui c’è lo stesso tentativo di raccontare la sua costruzione di uomo sessualmente maturo attraverso una sequenza di frammenti cruciali. Ma analizzare episodi così banali da essere condivisi da qualunque suo lettore – la prima delusione d’amore, un flirt inappagato, la sbandata di un momento per immaginare una vita diversa – produce semplicemente un effetto ombelicale, mentre ne Il desiderio di essere come tutti le minuzie private risultavano essere i mattoni che costruivano un’esperienza del presente condivisa e dunque politica. E poi c’è questa ossessiva pretesa di verità biografica che, visti i temi, finisce per trasmettere la sensazione opposta: i racconti di amori, amplessi e tradimenti vorrebbero essere onesti fino all’esibizionismo, ma proprio questa innaturale assenza di pudore li rende, inevitabilmente, non plausibili. O forse il lettore deve credere che Piccolo stia davvero raccontando la quotidiana indifferenza della sua vera moglie per i veri tradimenti o le vere intemperanze della sua vera amante?
Troppo preso a cercare una connessione quasi deterministica tra il ragazzo imbranato che era e la sensazione di potenza della maturità (che, con singolare sciatteria, definisce “sentirsi stocazzo”) Piccolo si dimentica di raccontarci l’“animale”. A parte un paio di risse sul campo di basket, c’è pochino su questa sua violenza che – assicura Piccolo, d’aspetto massiccio ma non temibile – lo tormenta da tutta l’esistenza. L’effetto non è quello di indicare un grumo inavvicinabile, che si può capire solo aggirandolo, ma l’ammissione di non aver scavato abbastanza. O forse di aver scoperto di essere molto più “come tutti” di quanto pensava quando ha iniziato a scrivere il libro. Resta il fatto che ci sono molte più pagine sull’incubo dei brufoli giovanili o sulle emorroidi (anche istruttive, a modo loro) rispetto a quante se ne trovano sull’“animale”.
Magari a qualche lettrice il libro piacerà, si capisce che è soprattutto per loro che è scritto. Eppure neanche le più bendisposte potranno perdonare al pur talentuoso Piccolo il ricorso a uno dei più terribili espedienti: il riassunto. Quando Piccolo deve spiegare un suo momento di consapevolezza non cerca una sintesi personale, racconta il libro o il film che lo hanno illuminato. Pagine e pagine su Malizia, il film di Salvatore Sampieri, altre pagine su Elena Ferrante, e poi il Padrino, Michel Houellebecq… Il risultato paradossale è suggerire al lettore: “Se vuoi capirmi davvero, leggiti i loro libri, non i miei”. Che, tutto sommato, non è neanche un cattivo consiglio.

La Stampa 5.12.18
Non è più tempo di Dies Irae, la morte ci sprona a vivere
di Luciano Violante


Il senso della morte oscilla tra la legge naturale e la minaccia. Nel Satyricon di Petronio è scritto che durante i banchetti veniva portato a tavola uno scheletro d’argento non per ammonire gli ospiti a un memento mori, ma per invitare i presenti a godere in modo ancora più intenso dei piaceri della vita perché poi ci sarebbe stata la fine del tutto.
La seconda strofa del Dies Irae si colloca al polo opposto: Quantus tremor est futùrus, Quando Iùdex est ventùrus, Cuncta stricte discussùrus (quanto grande sarà la paura, quando il Giudice starà per arrivare, per prendere in esame sinteticamente tutte le cose) .
Nelle società prevalentemente agricole la morte aveva un effetto sospensivo della vita di tutti. Si moriva in casa. Tutto si fermava, l’evento era comunitario. La vita era sospesa, con un rito che scandiva i tempi e codificava i segni del lutto, la cui osservanza era il presupposto per la reputazione nella comunità della famiglia del morto.
Nella società contemporanea la paura della morte, aspetto di più generali paure che attraversano il mondo contemporaneo, diventa affare da liquidare in fretta, che non deve interrompere gli impegni dei vivi. Si muore in ospedale. Il lutto è diventato una condizione quasi morbosa che bisogna abbreviare e, se possibile, superare. Bisogna sbarazzarsene quanto prima. La morte ha cessato di aprire la porta ai sentimenti; li apre al business; nascono imprese, che si occupano di tutto ciò che resta dopo la morte, sino alla pensione di reversibilità.
È sorprendente che le scienze umane, così impegnate quando si tratta di lavoro, famiglia, sessualità, religione, siano poi così discrete nei confronti della morte.
Nella sfera privata non è facile parlarne. Anzi, non è facile parlare della propria morte. Si parla più spesso della morte altrui. Lo si fa con compunzione, con tristezza o con ipocrisia, a seconda dei casi. La morte è sempre dell’altro. Riempiamo la vita di ogni giorno di innumerevoli attività, andiamo a letto stanchi e l’indomani riprendiamo. Raramente c’è spazio per riflettere sul senso della vita e sulle cose che alla vita possono dare un senso.
Il libro che ha scritto sulla morte Vincenzo Paglia, vescovo, presidente della Pontificia Accademia per la vita, Vivere per sempre (Piemme, pp. 300 €17,50), esce totalmente dai vecchi e prevedibili modelli di riflessione. Il libro segue un’altra importante lavoro di Paglia contro l’eutanasia, e i suoi rischi, Sorella morte, del 2016.
Questo libro è nuovo per almeno due ragioni.
È incentrato sul valore della vita, perché siamo nati, scrive il sacerdote, non per seguirne il flusso, in attesa dell’evento finale. Siamo nati per fronteggiarla, per renderla migliore per noi e per gli altri. La vita non è una meditativa preparazione alla morte. È un impegno per sé per gli altri. Papa Ratzinger si era chiesto per quali motivi il programma del cristianesimo era stato interpretato come ricerca egoistica della salvezza personale e non anche come servizio per gli altri. Questo fenomeno, spiega Paglia, deriva dallo spostamento della fede sul terreno dell’ultraprivato e dell’ultraterreno; uno spostamento che la rende irrilevante per le vicende della vita e che ci impedisce una riflessione non traumatica né passivamente rassegnata sull’ultimo giorno.
Il cristianesimo non è «un trattato sulla sopravvivenza monotematica dello spirito e neppure sulla paura del giudizio monocratico dell’Ente supremo». «Non dobbiamo banalizzare il cristianesimo, prosegue Paglia, come fosse una consolazione a poco prezzo, che magari si vende il dramma dei perseguitati dalla storia per la quiete della propria anima».
Il dies irae è frutto di un’altra epoca.
Conseguentemente molti aspetti schematici della vita cristiana, vanno superati; molte ricchezze devono essere rese più evidenti e più comprensibili nel XXI secolo. Di qui, suggerisce l’autore, la necessità di un dialogo su questi temi tra credenti, non credenti e diversamente credenti; non per imporre un credo ma per cercare di camminare insieme superando il silenzio, l’indifferenza o il timore irragionevole sui momenti ultimi. Il cristianesimo, d’altra parte, non è la terra dell’io; è la terra del noi.

Corriere 5.12.18
Emiliano, la svolta del governatore pop: ora un trans-partito con i temi del Papa
di Fabrizio Roncone


Dopo la rinuncia (forzata) alla tessera del Pd
Arriva la notizia che il governatore della Puglia Michele Emiliano non rinnova la tessera del Pd — «Lo impone il mio ruolo di magistrato» — e allora bisogna andarselo a sentire.
Emiliano piace un sacco ai pugliesi, così alto, grosso, fintamente brusco e invece grandioso comunicatore, spiazzante e furbo, ambizioso e però anche credibile per i suoi elettori (10 anni filati da sindaco di Bari, dal 2004 al 2014, e da tre alla guida della Regione): ancora sui marciapiedi lo fermano come un caudillo pop e gli chiedono di mettersi in posa per un selfie, pacche sulla spalla, «Dai, Miché» si permettono, certi gli mollano in braccio i neonati — e lui, un filo narciso, lascia fare.
Nel Pd, diciamo (Massimo D’Alema, cit.), Emiliano non gode di pari simpatia. Per capirci: quando annunciò che avrebbe provato a candidarsi per un secondo mandato (si vota nel 2020), Carlo Calenda reagì così: «Se il Pd ha deciso di ricandidare quello lì a governatore, la mia permanenza nel Pd può ritenersi conclusa». Poi, temendo di non essere stato chiaro, aggiunse: «Tra Emiliano e il ministro Toninelli, dalla torre butto giù Emiliano» (il congresso del Pd — fidatevi — può riservarci situazioni strepitose).
Emiliano l’ha presa a ridere. A differenza di molti suoi colleghi, spesso elettrici e retrattili, sembra quasi esaltarsi davanti a chi gli è ostile. Invece di deprimersi, rintuzza. Provoca. Rilancia.
Anche stavolta.
(«Rispetto la sentenza della Corte Costituzionale: essendo magistrato, dicono, non posso avere né la tessera di un partito, né incarichi all’interno del partito. Però posso partecipare alla sua quotidianità politica e, come previsto dalla Costituzione, candidarmi di nuovo alla Presidenza della Regione. Bene: è esattamente quello che farò».
Nel Pd speravano che lei…
«Lo sport preferito del Pd è: buttamelo fuori, quello lì».
Nel vederla almeno senza tessera, Calenda e altri saranno comunque entusiasti.
«Vediamo se saranno entusiasti quelli che mi hanno votato in tutti questi anni».
Minaccia velata.
«Senta: io sono tra quelli che il Pd l’ha fondato, pur arrivando da una lista civica. E a questo partito io voglio ancora tanto bene, nonostante tutto».
Nonostante chi?
«Bah…».
Nonostante chi, presidente?
Lo «sport»
«Io voglio bene ai Democratici ma lì lo sport preferito è: quello lì, buttamelo fuori»
«No, dico: mi vuole per forza far parlare di Renzi?».
Lei lo invitò a fuggire all’estero a testa bassa.
«Renzi ha distrutto tutto quello che poteva distruggere, con quella sua idea del chi non è con me è contro di me, una patologia grave e rispettabile, ma micidiale per un partito. Ora vedo che finge di non interessarsi delle primarie, ma sappiamo com’è il personaggio. In ogni caso, il problema Renzi mi sembra superato».
Continui.
«Io penso che sia giunto il tempo, in vista delle Europee, di pensare ad un movimento trans-partitico che, contro certi populismi, metta al centro del programma tre punti: l’antifascismo, il rispetto per l’essere umano e la questione ambientale, immaginata su un asse che tenga i temi dei verdi tedeschi e i discorsi di Papa Francesco».
Un movimento: è un po’ vago, così.
«La vecchia classe politica va archiviata. Anche il M5S mi ha molto deluso. Servono personalità della società civile, capaci di unire un arco che da sinistra arrivi ai cattolici, e una grande guida».
Chi?
«Mi piacerebbe che uno straordinario personaggio come Walter Veltroni tornasse in campo»).
Vedremo. La Puglia è sempre stata un prezioso laboratorio per la sinistra italiana. Lì, del resto, anche recentemente, è stato possibile intuire più di qualcosa in anticipo.
Erano i giorni del referendum costituzionale voluto da Renzi e Maria Elena Boschi. Emiliano, secco: «Attenti: state andando a sbattere contro un muro di cemento armato».
Qualche mese dopo, alla Fiera del Levante, Emiliano passeggia con Luigi Di Maio. Che si volta di colpo: «Con Matera che state facendo?». Emiliano allora si porta una mano davanti alla bocca: «Matera… Matera è in Basilicata».
Glielo disse con incredibile delicatezza.
Astuto come un furetto, ha imparato ad essere delicato quest’omone che è stato dieci anni sotto scorta — «A Brindisi, quando cominciò il processo alla Sacra Corona Unita, fu Falcone a mandarmi una Croma blu blindata» — e che a Bari è stato sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia, fino a quando non decise di togliere la pistola dalla fondina — «Sì, giravo armato» — e candidarsi a sindaco della città (eletto, iniziò a parcheggiare la moto sotto il Comune: il soprannome di «Sceriffo» fu inevitabile).
Per non perdersi niente: lo scorso novembre ha portato il gonfalone della Puglia a New York per le celebrazioni del Columbus Day. Testimoni raccontano di averlo visto ballare la «pizzica» sulla Quinta Strada accompagnato dall’orchestra de «La Notte della Taranta».

Repubblica 5.12.18
Emiliano
"Basta tessera Pd ora va difeso il creato Ho sbagliato con i grillini"
di Giuliano Foschini


BARI Michele Emiliano, e allora?
«Mi sono sbagliato. Anzi, ci siamo sbagliati, in milioni di italiani.
Pensavamo che il Movimento 5 Stelle fosse in grado di mantenere le promesse fatte e invece ha tradito tutto quello che aveva raccontato. Su Ilva nessuno nemmeno pronuncia più la parola ambiente, la riforma del lavoro è come il Jobs Act, lavorano a braccetto con le lobby».
Michele Emiliano tra qualche settimana non sarà più un iscritto al Partito democratico, dopo che la Corte costituzionale ha stabilito che i magistrati non possono avere tessere di partito.
«Ma possono essere capi coalizione. O essere iscritti ai gruppi in consiglio regionale, come me. Mi sembra una contraddizione ma ne prendo atto. Dopodiché io, come sempre, sono qui».
In realtà, presidente lei è ovunque: con i No Tap, con i No Ilva, con gli anti Xylella.
«No, no. Io sono con il popolo. È vero, sono abituato ad ascoltare tutti ma a differenza di alcuni miei colleghi non mi faccio dettare le cose che devo fare da nessuno.
Sono un cane sciolto. Dicono che sono inaffidabile perché sono incontrollabile. Sulla Xyllela come su ogni cosa sono sempre stato dalla parte della scienza e della legge. E sono sempre stato nel Pd.
Quando mi hanno offerto di fare il capo politico della sinistra ci ho pensato. Ho tentennato. Ma poi ho detto che la battaglia bisognava farla nel partito. Avevo ragione».
Voterà alle primarie?
«Certo. E aspetto di vedere i programmi per decidere chi. La situazione è delicata, c’è un attacco alla democrazia. E io penso sia necessario aprire un fronte democratico e antifascista comune, con i Socialisti europei, con i Verdi, tutti insieme per gli Stati Uniti d’Europa contro chi sta con Orban, Le Pen, Salvini e ha intenzione di applicare politiche autoritarie in Europa».
Lei è tra quelli che pensano che esista un pericolo democratico in Italia, come in Europa?
«Io la penso come Paolo Villaggio, quando con un paradosso disse a Salvini: non siete all’altezza di fare le cose che dite. Ma tremo a pensare che possano, e possono, passare da far finta a fare sul serio. Sono passati 70 anni, ma potremmo essere travolti: web, giornali, social, tutto sotto controllo. Non è il tempo più dei distinguo. Ecco perché in Europa servono persone straordinarie non un refugium di vecchi trombati».
Chi le piacerebbe fosse in Europa?
«Qualcuno che assomigliasse a Walter Veltroni».
Nel Pd Calenda ha detto di aver stappato alla notizia del suo non tesseramento.
«Lo avranno fatto in tanti. Nel Pd da Renzi in poi pare che si festeggi quando la gente va via. E invece io penso che il Partito democratico sia nato per includere, allargarsi».
L’accusano di aver esagerato, tirando dentro pezzi del centrodestra.
«Sono loro che vengono da noi, sui nostri temi, i nostri programmi. C’è stato un incontro che mi ha cambiato la vita, quello con Papa Francesco. Ho capito che bisogna essere intransigenti su alcuni temi, come l’ambiente, la difesa del creato. E invece ascoltare, aprirsi a culture che sono diverse dalle nostre».

La Stampa 5.12.18
“La democrazia rappresentativa non basta più
Parola al popolo”
Riccardo Fraccaro, il ministro per la Democrazia Diretta
di Carlo Bertini


Il dimezzamento degli stipendi dei parlamentari lo voterebbe subito ma rispetta l’autonomia del Parlamento. Tuttavia la riduzione di un terzo degli onorevoli di fatto «sarà una sforbiciata dei costi dei parlamentari», fa notare Riccardo Fraccaro. Piuttosto, il ministro per la Democrazia Diretta rivendica la svolta che rappresenta il referendum propositivo. Una vera rivoluzione istituzionale, già foriera però di polemiche, come dimostrano le obiezioni dei costituzionalisti delle opposizioni sollevate in commissione.
Ministro, il 17 dicembre volete partire in aula. Perché tanta fretta con l’ingorgo legislativo che c’è ora?
«La proposta è stata depositata più di due mesi fa, è oggetto di dibattito in Commissione, ci sarà un ampio confronto parlamentare. Restituire centralità ai cittadini è una priorità del Governo del cambiamento. Le Camere lavorano a pieno ritmo per mantenere gli impegni programmatici, l’avvio dell’iter di approvazione del referendum propositivo soddisfa un altro punto del contratto».
Poco gradito all’opposizione che si prepara a dare battaglia. Sbagliano a lanciare l’allarme sul rischio di indebolire il Parlamento?
«Dalle audizioni in Commissione è emerso chiaramente un concetto: la democrazia diretta migliora quella rappresentativa. Le Camere avranno comunque un ruolo centrale: il referendum si attiva solo in caso di loro inerzia e possono presentare una controproposta. Con il referendum propositivo il Parlamento sarà rafforzato e i cittadini potranno esercitare pienamente la sovranità. L’Italia entrerà di diritto nella Terza Repubblica».
Ma i critici dicono che la democrazia si basa sulla delega che i cittadini assegnano ai loro rappresentanti eletti e non nel suo contrario.
«Il sistema della rappresentanza per delega resta, ma è evidente come non sia più sufficiente: va integrato dando la possibilità ai cittadini di incidere sulle decisioni pubbliche. La crisi della democrazia riguarda proprio la rappresentanza, perché da parte del popolo c’è sempre più voglia di partecipare».
Certo, ma un referendum senza quorum darebbe a pochi un’arma per approvare leggi per tutti. Non le pare il caso di inserire almeno una soglia di partecipazione?
«L’abolizione del quorum è raccomandata dalla Commissione di Venezia, un organismo del Consiglio d’Europa che ha spiegato come la presenza di una soglia scoraggi la partecipazione. Deve poter decidere chi va a votare, non chi resta a casa».
Un’altra obiezione: se nel derby tra legge dei proponenti e testo votato in Parlamento vincesse la norma popolare, si dovrebbero poi sciogliere le Camere a quel punto delegittimate. O no?
«L’esperienza internazionale insegna che nella maggior parte dei casi i cittadini scelgono la proposta parlamentare. E in ogni caso non è previsto lo scioglimento delle Camere perché è sbagliato subordinare la permanenza in carica del Parlamento all’approvazione della proposta, sarebbe una deriva plebiscitaria. In generale il referendum non va interpretato come una contrapposizione, ma come un confronto tra cittadini e istituzioni per trovare la legislazione migliore».
L’altra rivoluzione, quella finora incompiuta, sarà il taglio dei parlamentari. Mette in conto dei mal di pancia diffusi anche nella maggioranza e qualche defezione?
«Il taglio dei parlamentari è previsto nel contratto di Governo. Mi auguro piuttosto che anche l’opposizione condivida questa proposta, ci vorrebbe coraggio a votare contro la riduzione di deputati e senatori visto che siamo il Paese con il più alto numero di rappresentanti d’Europa».
La domanda che le farebbero tutti se fosse un dibattito aperto, magari in rete: perché non votate una legge per dimezzarvi gli stipendi, diarie e forfait compresi? Ritiene che il vostro sia un ruolo istituzionale di enorme responsabilità e quindi vada ben retribuito?
«Al contrario: taglieremo 345 stipendi dei parlamentari con la riduzione a 400 deputati e 200 senatori. Noi portavoce del M5S poi ci tagliamo già gli stipendi, abbiamo donato oltre due milioni di euro al Fondo per i terremotati. Le altre forze politiche facciano lo stesso».

Il Fatto 5.12.18
Primarie per salvare i socialisti europei
di Gian Giacomo Migone


È probabile che, quando si riuniranno a congresso a Lisbona, il 6 e il 7 dicembre, i socialisti e democratici europei compiranno una monumentale sciocchezza, fingendo d’ignorare che le prossime elezioni del Parlamento europeo offrono loro un’occasione per rilanciare l’unità europea e costituire un antidoto alle tendenze antidemocratiche incombenti in tutto il nostro continente. Persino per vincere elezioni altrimenti perse in partenza.
La destra europea è divisa tra popolari e movimenti e partiti di estrema destra, a loro volta in conflitto. Anche se, con il tramonto di Angela Merkel, buona parte della Cdu e soprattutto la Csu è disposta a sposare la formula austriaca che prevede di allearsi con la destra estrema, non è pensabile che, nei sei mesi che ci separano dalle elezioni, Kaczinsky e Salvini, i paranazisti tedeschi e scandinavi, guidati dal carismatico Aakesson, possano confluire in un rassemblement de droite che, pur con liste divise, indichi un candidato unitario, uno Spitzenkandidat, alla presidenza della Commissione.
Il Partito del Socialismo Europeo, pur in declino, ha un potenziale di coalizione superiore. Si osservino le coalizioni che governano Portogallo e Spagna (Podemos compresa), la capacità dimostrata da Tsipras nel subire le imposizioni della Troika continuando a governare democraticamente la Grecia (anche se ora bisognosa di voltare pagina). Soprattutto, si prenda atto dell’ascesa simultanea dei verdi in tutta l’Europa centro-settentrionale, con la conseguente attrattiva esercitata nei confronti dei frammenti della sinistra radicale. Fa eccezione soltanto quella sovranista di Mélénchon che, divisa al proprio interno, stenta a cavalcare l’insurrezione popolare che colpisce il governo di Macron. Esistono, insomma, le condizioni per una convergenza di forze di sinistra che, pur presentandosi separate e divise, potrebbero trovare in una candidatura unica alla presidenza di Commissione lo strumento per battersi ad armi pari contro una destra divisa.
Il candidato, o preferibilmente la candidata, socialista dovrebbe però segnare una rottura con la condizione attuale dell’Ue che ha determinato la crisi di coscienze europeiste storicamente collaudate. Il combinato disposto di politiche ottuse di austerità e di paralisi decisionale intergovernativa non poteva che produrre questi risultati. Ne consegue che candidature come quella di Frans Timmermans, versione più sobria, ma anche più mediocre di Jean Claude Juncker, sono all’opposto di Another Europe (Per un’Altra Europa) che fornirebbe l’elemento ideale e programmatico unificante di una coalizione vincente e anche la piattaforma di rilancio dell’Europa che non siamo, ma che ancora in molti vorremmo essere.
Another Europe: non ho usato a caso la parola d’ordine di Momentum, l’organizzazione di oltre 200.000 giovani britannici che, iscrivendosi al Partito laburista, hanno concorso in misura determinante all’ascesa di Jeremy Corbyn e che costituiscono la punta di diamante di un nuovo europeismo, con l’obiettivo di rovesciare la Brexit. Basta scopiazzare il loro programma, a cui il vicecancelliere tedesco, Olaf Scholz, in un discorso appena pronunciato all’Università Humboldt di Berlino, ha aggiunto una proposta provocatoria: seggio europeo nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu al posto di quello francese (e, aggiungo io, britannico, se si rovesciasse la Brexit). Un’Europa politica, sempre più aperta, integrata ed egualitaria, non più succube di quella minoranza finanziaria globalizzata che erode costituzioni e istituzioni democratiche, sopprimendo diritti e indebolendo un welfare di cui, invece, saremmo naturali custodi. Un’Europa che ha posto fine a secoli di guerre intestine e che richiede una difesa integrata, ispirata al principio di “sicurezza umana” a suo tempo formulato da Javier Solana e sposata da Federica Mogherini, che sottrarrebbe l’Europa a giochi di guerra dei vari Trump, Putin e – in prospettiva – Xi Jinping.
Il primo passo di una lunga strada in questa direzione è proprio una candidatura socialista, una Spitzenkandidat, capace di trasformare in governo una Commissione che oggi surroga la politica con violazioni sistematiche del principio di sussidiarietà. Basterebbe che i socialisti e democratici europei che si riuniranno a Lisbona tentassero di vincere, di aprirsi a potenziali alleanze, rinunciando a formule collaudate ma prive ormai di consenso: alleanza coi popolari, metodo intergovernativo, Commissione burocratica, quando non prevaricatrice. Anziché incoronare Timmermans o un altro candidato votato a una sicura sconfitta, dovrebbero scegliere il loro Spitzenkandidat attraverso primarie aperte, fondate su un confronto programmatico e valoriale.
Cosa ne pensano i tre principali rivali allo scettro di segretario del Pd? Anche Zingaretti è per Timmermans?

La Stampa 5.12.18
Scioperi e proteste contro violenza sulle donne


Migliaia di persone sono scese in strada ieri in Israele per chiedere al governo di intervenire contro gli abusi domestici e le violenze sulle donne. La protesta, accompagnata da uno sciopero nazionale, è stata indetta dopo l’uccisione, la scorsa settimana, di due ragazze di 12 e 16 anni. Secondo i dati, dall’inizio dell’anno 24 donne sono state uccise in incidenti di violenza domestica. Nella città di Tel Aviv, i manifestanti hanno ricoperto con centinaia di scarpe rosse da donna una parte della centralissima piazza dell’Habima.

La Stampa 5.12.18
Ucciso dal pugno di un amico
“Era sfida a chicolpiva più forte”
di Flavia Amabile


Dicono tutti che è stato un «gioco» a chi colpiva più forte, non una lite, a far morire Emanuele Tiberi (detto Fanalino) la notte del 29 luglio scorso all’esterno della Vineria di Norcia. A colpirlo era stato Cristian Salvatori (detto Lu Picchiu), 33 anni. Un solo pugno al volto lo aveva fatto crollare a terra, uccidendolo. Secondo quanto riporta l’edizione online del quotidiano «La Nazione», la tesi del gioco e quindi dell’omicidio avvenuto per caso è confermata dalle testimonianze dei clienti del locale che incitavano i due a colpirsi dicendo «Daje, daje», e anche da una consulenza tecnica fatta eseguire dal pm Vincenzo Ferrigno della Procura di Spoleto. Sono state estrapolate dai telefonini dei presenti alcune sequenze di quello che sembra essere stato un omicidio preterintenzionale avvenuto in diretta, e poi circolate nelle chat di amici e conoscenti con la dettagliata ricostruzione dei fatti. Dai racconti circolati emerge che Emanuele ha colpito Cristian con uno schiaffo, poi, quando è toccato all’altro, è partito un pugno che ha fatto cadere a terra, in coma, il rivale. «Lu Picchiu gli ha detto: “Dammi un pugno”, lui gliel’ha dato ma piano. Dopo gli ha detto “mo’ tocca a me” e gli ha dato una pesca». E ancora: «Stavano facendo un gioco. Fanalino stava scherzando, gli ha dato un cazzottello sulla guancia». L’altro invece ha colpito con forza.
La vicenda giudiziaria
Salvatori è stato arrestato con l’accusa di omicidio preterintenzionale. Mesi dopo, ha chiesto gli arresti domiciliari per sottoporsi a un programma di reinserimento sociale in una struttura specializzata. Il pm si è detto favorevole, il gip no: «Non può ritenersi meritevole di accoglimento» anche « in considerazione della personalità aggressiva e violenta dimostrata dall’indagato, il quale potrebbe, in un ambiente comunitario, reiterare condotte violente analoghe a quelle già perpetrate... ». La difesa, quindi, ha fatto appello al Riesame di Perugia: secondo gli avvocati il fatto che si sia trattato di un «gioco» cancella la valutazione di un ragazzo con impulsi aggressivi e incontrollabili. Inoltre Salvatori ha offerto la disponibilità al risarcimento dei danni e a seguire un percorso rieducativo in una comunità dedita al reinserimento sociale. «Questo - dicono i difensori - in conformità al principio sancito dall’articolo 27 della Costituzione: l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato». Adesso saranno i giudici del Tribunale a valutare la vicenda.

Corriere 5.12.18
La battaglia per Lisippo
La Cassazione boccia il ricorso del Getty e ordina la confisca dell’«atleta vittorioso»
Ma il museo di Malibu avvisa: ce lo teniamo
di Paolo Conti


È scontro aperto tra lo Stato italiano e i vertici del Getty Museum di Los Angeles. Ieri la Corte di Cassazione ha respinto integralmente il ricorso dei legali del museo statunitense contro la decisione presa nel giugno scorso dal Giudice per le indagini preliminari di Pesaro, Giacomo Gasparini, di confiscare il bronzo «l’atleta vittorioso» del IV secolo avanti Cristo, attribuito a Lisippo, ripescato al largo di Fano nel 1964 e ora esposto al museo di Malibu.
La decisione della Cassazione rende operativa immediatamente proprio la confisca «ovunque si trovi», ovvero nel cuore della collezione di antichità del grande museo americano. Il pubblico ministero Silvia Cecchi annuncia presto una rogatoria internazionale.
Ma dal Getty Museum arriva un'immediata quanto perentoria reazione che lascia ben pochi spiragli alle trattative. Dice Lisa Lapin, vice presidente delle comunicazioni del Getty: «Continueremo a difendere il nostro diritto al Lisippo. La legge e i fatti non giustificano la restituzione al governo italiano di una scultura che è stata esposta al pubblico a Los Angeles per quasi mezzo secolo. Oggi la Corte non ha offerto spiegazioni scritte della decisione che contraddice la posizione presa cinquanta anni fa secondo cui non c’erano elementi per stabilire una proprietà italiana. La statua non è mai stata parte del patrimonio culturale italiano. La scoperta accidentale da parte di cittadini italiani non la rende un oggetto italiano».
La posizione del Getty, insomma, non cambia da anni: la statua venne ritrovata in acque internazionali al largo di Fano nel 1964, non in acque italiane, dunque il successivo acquisto nel 1977 sul mercato internazionale (la valutazione sfiorò ai tempi i 4 milioni di dollari) è regolare.
Ricostruzione che nega alla radice quella del nostro Paese: le acque erano italiane, il bronzo deve tornare in Italia dove si consolida un fronte molto ampio pronto a battersi per la restituzione del bronzo esposto a Malibu. Il ministro per i Beni e le attività culturali, Alberto Bonisoli, evita lo scontro diretto ma chiede comunque la restituzione: «Auspichiamo che al più presto le autorità Usa si attivino per favorire la restituzione del Lisippo all’Italia, siamo soddisfatti che finalmente si sia chiuso questo iter giudiziale e sia stato riconosciuto al nostro Paese il diritto di recuperare un’importantissima testimonianza del nostro patrimonio». L’ex ministro per i Beni culturali, Francesco Rutelli, commenta: «Il successo italiano è completo, i grandi musei internazionali sanno che acquistare capolavori senza una trasparente carta d’identità può portare a pesanti sconfitte». Sulla stessa linea Tristano Tonnini, legale dell’associazione culturale marchigiana «La cento città», che nel 2007 presentò l’esposto alla Procura di Pesaro e avviò il procedimento: «Qui non c’è in gioco solo la statua di Lisippo, ma tutto il patrimonio culturale, artistico, storico italiano».
Intanto L’Atleta resta a Malibu, ammirato ogni anno da un milione e 600 mila visitatori.

Repubblica 5.12.18
"Il Getty deve restituire l’atleta di Lisippo all’Italia"
di Francesco Erbani


La Cassazione boccia il ricorso del museo californiano. Il pm: "Ora la rogatoria internazionale"
La Cassazione potrebbe aver scritto la parola "fine" alla travagliata contesa sull’Atleta vittorioso, opera in bronzo del IV secolo a.C., attribuita a Lisippo. La statua, ora al Getty di Malibu in California, deve tornare in Italia, dicono i giudici della Suprema Corte. Ma non è detto che la vicenda si concluda così, con una vittoria delle autorità italiane sul museo americano, che quella statua possiede dal 1977 e che potrebbe fare ulteriori ricorsi.
Oppure puntare i piedi e basta, alimentando uno scontro che pareva sopito su pezzi pregiati del patrimonio archeologico trafugati in Italia, venduti e acquistati, talvolta incautamente, talvolta no.
«Continueremo a difendere il nostro diritto al Lisippo», dice da Los Angeles una portavoce del Getty. «La legge e i fatti non giustificano la restituzione al governo italiano di una scultura che è stata esposta al pubblico a Los Angeles per quasi mezzo secolo (in realtà, quarant’anni, ndr) ».
La sentenza della Cassazione, che ha respinto l’istanza presentata dai legali del Getty Museum contro la confisca della statua decisa dal Gip di Pesaro nel giugno scorso, è stata salutata con soddisfazione dal ministro per i Beni culturali Alberto Bonisoli e da uno dei suoi predecessori, Francesco Rutelli.
Rutelli e l’allora presidente del Consiglio superiore dei beni culturali, Salvatore Settis, furono artefici nel 2006 di una complessa trattativa per la restituzione di 52 opere in vario modo trafugate e in vario modo riemerse negli Stati Uniti. Con loro si adoperarono Giovanni Nistri, allora alla guida del Nucleo dei carabinieri per la tutela del patrimonio culturale (ora Comandante generale dell’Arma), gli archeologi Daniela Rizzo e Maurizio Pellegrini, l’avvocato dello Stato Maurizio Fiorilli, il pubblico ministero Paolo Ferri. Fra le opere che dovevano rientrare c’era anche l’Atleta di Lisippo, che però non venne riportato in Italia, in attesa, si disse, che venisse risolta la vertenza giudiziaria. Alla fine furono 40 i pezzi restituiti.
La storia dell’Atleta è fra le più tormentate nel capitolo delle razzie condotte ai danni dell’archeologia italiana, una pratica criminale che vedeva in azione una catena di tombaroli, di scavatori clandestini, poi di mediatori e di trafficanti e infine di acquirenti che poche domande si ponevano sulla provenienza di quei beni. L’Atleta è parte di quel bottino, ma ha una storia a sé. La statua rimase impigliata nelle reti di un peschereccio al largo di Fano, nelle Marche. Era l’estate del 1964.
Invece di denunciarne la scoperta alla Soprintendenza, i pescatori la sotterrarono in un campo di cavoli. Successivamente l’Atleta fu venduto a un industriale di Gubbio, che lo pagò 3 milioni e mezzo di lire. Poi la statua finì a un antiquario milanese. Nel 1971 transitò nelle mani di un commerciante bavarese che la fece stimare: l’Atleta fu datato al IV secolo a.C. e si ipotizzò fosse opera di Lisippo. A quel punto si scatenò la gara per appropriarsene e a prevalere fu il Getty, che entrò in possesso della statua nel 1977 pagando quasi 4 milioni di dollari.
E approfittando che in Italia poche fossero le resistenze.
La statua è alta un metro e mezzo e raffigura un atleta che con il braccio destro sta poggiando sulla testa la corona che spetta ai vincitori di una gara di atletica.
Non tutti gli studiosi sono concordi nell’attribuzione a Lisippo. Alcuni propongono che sia di mano di un allievo del grande scultore. La statua potrebbe essere caduta in mare durante il naufragio di una nave che dalla Grecia era diretta sulle coste adriatiche della penisola. Ma il punto dell’affondamento e dunque del ritrovamento nel 1964 non è stato accertato. Ed è questo il punto sul quale fanno leva al Getty: «La statua non è e non è mai stata parte della eredità culturale italiana. La scoperta accidentale da parte di cittadini italiani non la rende un oggetto italiano».
La partita non è chiusa. Sebbene Silvia Cecchi, il pm pesarese che da 11 anni conduce l’inchiesta, mostri sicurezza: «Aspettiamo le motivazioni della sentenza e, subito dopo, preparerò una rogatoria internazionale per riavere il Lisippo».

Il Fatto 5.12.18
“Le poltrone di casa nostra sul set di Eyes Wide Shut”
Al Noir in Festival – Katharina, figlia della seconda moglie di Kubrick, è a Milano in qualità di giurata
di Anna Maria Pasetti


Kubrick, il genio assoluto del cinema. “Sì, forse. Ma soprattutto il mio adoratissimo papà”. Fra un boccone e un bicchiere di vino, Katharina condivide generosamente un patrimonio inestimabile: il ricordo personale del “patrigno” Stanley, che l’ha sempre considerata una propria figlia quando da piccola è arrivata a casa Kubrick con mamma Christiane, la seconda (e definitiva) moglie del grande cineasta americano. A quasi 65 anni portati benissimo, Katharina Kubrick è a Milano in qualità di giurata del Noir in Festival, dove si è fatta intervistare, ha tenuto una masterclass pubblica, ma soprattutto ha risposto sul suo (a dir poco) ingombrante genitore. “Perché mio padre anche questo mi ha insegnato, a condividere il meglio che la vita ti ha dato”. E il bene più prezioso che lei poteva condividere si chiama Stanley Kubrick, né più né meno. Un uomo e un artista il cui universo iniziava e finiva in famiglia.
Come sua madre, lei è anche un’artista (scenografa, pittrice, arredatrice..) e ha dipinto il ritratto della gatta Polly che appare in Eyes Wide Shut, è così?
Certo, gliel’ho regalato per il suo sessantesimo compleanno. Lui adorava Polly, temeva potesse morire perché era anziana, ed essendo molto superstizioso aveva paura che se fosse mancata prima della fine del film questo sarebbe andato malissimo. Chiaramente la gatta ha resistito, io l’ho ritratta e papà era così felice del regalo che per ringraziarmi ha deciso di metterlo in evidenza nel film.
Lavoro e famiglia, dove iniziava l’uno e finiva l’altra?
Questa domanda mi aiuta a sfatare il mito di un Kubrick divorato dalle ossessioni, disumano e quasi “demoniaco”. Niente di tutto questo. L’ho sempre detto, ma nessuno sembra ascoltarmi. Per mio padre era fondamentale avere attorno la sua famiglia, cioè mia mamma, noi tre figlie, i gatti e i cani. Per questo allestiva il lavoro in casa. Anzi, quando poteva si portava la casa dentro i set: l’esempio arriva da Eyes Wide Shut, il film che lui considerava il suo migliore e più complesso, perché la casa di Tom (Cruise, ndr) e Nicole (Kidman, ndr) era arredata con oggetti di casa nostra. C’erano i divani, le sedie, e naturalmente i quadri, incluso il mio ritratto di Polly. Stanley ci voleva sempre vicine, era amorevolmente protettivo, adorava danzare con mia madre per casa circondato dai cani scodinzolanti, teneva in braccio la gatta mentre montava i film, gli piaceva cucinare specie dopo che era diventato vegetariano e si era inventato ricette assai “speciali”. La nostra era una family circus sempre coinvolta nei film, anche perché lavoravamo gratis! Che vi piaccia o no, era il miglior uomo di famiglia che io abbia conosciuto.
Qual è il regalo più prezioso che le ha fatto, umanamente e professionalmente parlando?
La passione e la precisione in ogni cosa che faccio. Ma anche a non sprecare il tempo con attività noiose. Mi diceva: “Devi provare gioia in quello che fai, altrimenti lascia perdere”. Queste erano le sue ossessioni vere, ecco perché per me la parola “ossessione” ha una connotazione positiva.
Lei ha iniziato a lavorare con lui su Barry Lyndon, continuando su Shining, Full Metal Jacket per concludere con Eyes Wide Shut…
Ricordo che il mio “esordio professionale” – se così vogliamo definirlo – con Barry Lyndon avvenne solo perché avevo 19 anni e papà non voleva lasciarmi da sola a Londra, essendo il set in Irlanda. Dunque mi ha portato con la famiglia e mi ha assegnato varie attività, fra cui la fotografa di location. Ricordo come manovrasse gli obiettivi sulle luci naturali, sembrava un mago, ma soprattutto ricordo come gestiva gli attori che talvolta arrivavano post sbronza – o proprio ubriachi – sul set, che non riuscivano a volte a ricordare neppure il proprio nome: diventava furioso, li guardava diritto negli occhi e loro si vergognavano come ladri.
Cosa direbbe oggi Stanley del decadimento culturale e di valori ormai diffuso?
Sarebbe un uomo depresso. Non sopporterebbe di vedere come siamo caduti in basso, un Occidente senza valori e piegato all’estinzione, i politici che non fanno più politica. Ma d’altra parte lui lo sapeva, nel suo cinema regna il sentimento dell’autodistruzione che in Eyes Wide Shut tocca le vette più acute e dolorose. Per quanto fosse intimamente un ottimista, sapeva che l’umanità era destinata ad annientarsi, forse e purtroppo aveva ragione.

La Stampa 5.12.18
Armando Spataro
L’amarezza del procuratore
“Questo ormai è il Paese”
di Paolo Colonnello


Il 14 dicembre sarà il suo ultimo giorno in Procura, poi organizzerà un viaggio, forse in Cambogia, un Paese che per la dolcezza degli animi e le sofferenze vissute, gli ha legato il cuore: «Sto contando i giorni…».
Armando Spataro è in ufficio e se la ride sonoramente quando gli si fa notare che il ministro degli Interni con scarsa eleganza lo ha invitato a lasciare al più presto l’incarico per andarsene in pensione. «Che ci dobbiamo fare? – ridacchia il procuratore - È quello che ormai ci riserva il Paese». Ma chi lo conosce, sa bene come Spataro, fondatore insieme a Giovanni Falcone della corrente di Movimento per la Giustizia, protagonista di mille inchieste e altrettante battaglie, mastichi amaro. L’uomo che combatté il terrorismo rosso e poi quello nero, che svelò le tresche e le torture intorno al rapimento di Abu Omar ottenendo, unico al mondo, la condanna di 14 agenti della Cia, che ha fatto arrestare e condannare interi clan di ’ndranghetisti, insomma, un pezzo vero di storia giudiziaria dell’Italia contemporanea, è stato liquidato ieri mattina dal rampante ministro degli Interni come un vecchio pensionato rancoroso. La colpa? Aver stigmatizzato e precisato, con un comunicato di una paginetta, che raccontare di arresti in corso di presunti mafiosi nigeriani, esagerarne il numero rivelando comunque che la caccia è ancora aperta, non è un comportamento istituzionale, tanto meno se arriva dal responsabile del dicastero che sovrintende le Forze dell’Ordine. «Non è tanto lo sfottò nei miei confronti, di quello non mi curo, ci rido sopra. Ma è il fatto che avere certi atteggiamenti paga. E questa è la cosa che più preoccupa».
L’indagine delicata
La giornata comincia alle 8,57 del mattino con un tweet garrulo di capitan Matteo che affronta sbrigativamente l’arresto di 49 mafiosi palermitani da parte dei carabinieri per concentrarsi sul quello che per lui è il vero pezzo forte della giornata: l’operazione dell’Antimafia di Torino sui nigeriani e una della polizia di Bolzano su 8 spacciatori extracomunitari: «Grazie alle Forze dell’ordine! La giornata comincia bene!».
Non altrettanto si può dire per il Procuratore torinese che nel giro di mezz’ora, mentre l’operazione è ancora in corso e i nigeriani non si sa bene se siano già stati arrestati tutti, viene informato del tweet ministeriale e si arrabbia non poco. Il problema infatti è che questa indagine non è una bazzecola, va avanti da tempo, condotta con i metodi dell’antimafia perché si tratta di contrastare una vera e propria organizzazione criminale. Il che significa appostamenti, intercettazioni, flussi di denaro. Un’inchiesta talmente delicata che ancora a metà pomeriggio Spataro si rifiuta di fornire altri dettagli, perfino sul numero degli arresti andati a buon fine. Vuol dire insomma che forse, se non si fossero pubblicizzati gli arresti dell’alba, qualche pesce ancora sarebbe finito nella rete. O forse no. Ma ormai non ha importanza, chi doveva capire ha capito. «Per questo ci sono delle regole, e andrebbero rispettate...».
Il rimprovero
Ma il procuratore sa anche perfettamente che trattandosi di un’inchiesta su extracomunitari per il ministro della Lega è come un invito a nozze. Spataro a mezzogiorno decide di diffondere la sua nota di “rimprovero” che suscita la reazione stizzita di Salvini: «Se il procuratore è stanco, si ritiri dal lavoro...». Sorride ancora una volta Spataro che ricorda bene come l’annuncio ad effetto non sia un’invenzione di Salvini. Negli ultimi anni, quasi tutti quelli che si sono avvicendati sulla poltronissima del Viminale, hanno cercato l’annuncio ad effetto. Il magistrato fa spallucce. «Che ci vuoi fare? Tutto ormai fa spettacolo».

Repubblica 5.12.18
Intervista a Gian Carlo Caselli
"Clima inquietante e l’intolleranza parte dai vertici dello Stato"
di Sarah Martinenghi


TORINO Gian Carlo Caselli, Salvini twitta e svela dettagli di un’operazione in corso, Spataro lo "bacchetta" spiegando che "deve prima informarsi per evitare rischi di danni alle indagini in corso" e il ministro controreplica suggerendogli di andare in pensione. Cosa ne pensa?
«Il procuratore capo Armando Spataro è un magistrato di grande esperienza e capacità.
Se sostiene che potrebbero esserci state ripercussioni su un’indagine in corso, è come se parlasse da una specie di cattedra: merita perciò ogni più scrupolosa considerazione e soprattutto rispetto»
A lei, nella sua lunga carriera, era mai capitata una cosa simile?
«Non che mi ricordi. Polemiche con uomini di governo e contrasti, si, anche una legge contro la mia persona se è per questo. Ma un fatto simile no, non lo rammento»
Secondo lei Salvini ha anticipato l’operazione in buona fede o senza rendersi conto delle conseguenze pratiche?
«Non ho titolo per fare un processo alle intenzioni di chicchessia meno che mai a quelle di Salvini. So però per certo che non è giusto pretendere da altri un silenzio ossequioso, come Salvini ha in pratica fatto nelle sue dichiarazioni, pretendendo un dialogo senza aver prima fatto nulla per instaurarlo».
Salvini dice anche: "Nessuno si permetta di dire che il ministro mette a rischio operazioni di sicurezza. Lo dico nel rispetto della stragrande maggioranza dei magistrati. Ma gli attacchi politici e gratuiti lasciamoli fare ai politici che si candidano alle elezioni".
Secondo lei è una reprimenda politica quella di Spataro nei suoi confronti?
«La tesi secondo cui può parlare solo chi si candida alle elezioni è ormai un ritornello stantio. Se tutti dovessero stare zitti salvo candidarsi sarebbe la qualità stessa della nostra democrazia a soffrirne».
Questo botta-risposta è un segnale di tensione tra diversi poteri dello Stato oppure lei intravede anche qualcos’altro?
«Avverto un pesante clima di intolleranza e insofferenza nei confronti di chiunque la pensi diversamente da chi può e conta. Un clima piuttosto inquietante, specie se un esempio decisamente non positivo viene dal massimo rappresentante dello Stato, tutore degli interessi generali e non soltanto di quelli che propagandisticamente gli interessano».
Lei dunque come si sarebbe comportato da procuratore di fronte a un "tweet" che svelava dettagli su un’operazione come quello di Salvini? Avrebbe anche lei reagito proprio come ha fatto il procuratore Spataro?
«Mi sembra implicito da quanto ho detto sin qui che se mi fossi trovato nelle condizioni di Spataro (presumo quindi l’esistenza di elementi in fatto e diritto che lo autorizzassero ad intervenire) mi sarei comportato nello stesso identico modo».

Corriere 5.12.18
La confusione istituzionale di Salvini
il corto circuito del leader leghista
I toni da bar e le istituzioni
di Pierluigi Battista


Ora Matteo Salvini, che è ministro dell’Interno, la cui missione dovrebbe essere la tutela della sicurezza pubblica, invita bruscamente e inurbanamente il magistrato Armando Spataro a ritirarsi in pensione.
Reazione sproporzionata, oltre che maleducata, a una considerazione critica del Procuratore capo di Torino su un precedente e intempestivo tweet di Salvini su un’operazione di polizia contro la mafia nigeriana, con il rischio di mandare per aria tutta l’indagine. Un’istituzione dello Stato e del governo gioca pesantemente contro un altro uomo delle istituzioni. Ma è solo l’ultimo caso. Poche ore prima Salvini, capo della Lega e ministro dell’Interno riuniti in un’unica figura, aveva sbrigativamente liquidato come un molesto boicottatore il presidente di Confindustria. Confindustria non è un’istituzione e una critica alla sua linea e ai suoi metodi è legittima e democraticamente necessaria, figurarsi. Ma che senso ha una risposta come «andate a lavorare» come se la critica al governo, anch’essa legittima e democraticamente necessaria, fosse un'inammissibile perdita di tempo? Prima ancora Salvini aveva rinfacciato al leader della Commissione europea una sua presunta inclinazione al consumo alcolico. E poi aveva preso in giro la Commissione europea, esortandola a scrivere una «letterina di Natale». E ancora prima aveva detto al presidente della Camera Fico, peraltro membro di un partito coalizzato al governo con la Lega, di farsi un po’ gli affari suoi, come se una legge uscita dal Parlamento non fosse anche un po’ affare del suo presidente. Prima aveva bersagliato il presidente dell’Inps, invitandolo a levare il disturbo anzitempo e presentarsi alle elezioni con il Pd. Prima aveva deriso i magistrati palermitani che gli avevano spedito un avviso di garanzia per la nave Diciotti, sbertucciandoli pubblicamente e dicendo loro che, non essendo eletti, non avrebbero avuto titolo a indagare un politico eletto. Fatti diversi, con interlocutori e bersagli diversi. La magistratura, un’istituzione dello Stato, non è un associazione di categoria, un gruppo di interesse, per esempio. E il presidente dell’Inps ha un profilo politico molto marcato, che ovviamente può essere discusso anche polemicamente. Ma tutti questi fatti, queste dichiarazioni tonitruanti, queste battute beffarde da bar che sostituiscono lo sforzo dell’argomentazione, hanno in comune un’insofferenza assoluta e incondizionata per ogni genere di critica. Un crescendo di derisione, di liquidazione brutale, di demolizione aggressiva dell’interlocutore che appare sempre più incompatibile con i modi e gli atteggiamenti che un rappresentante del governo è tenuto ad osservare, qualunque sia il colore e la linea politica di quel governo. Il problema non è solo stilistico, o estetico, qualcosa che riguarda soltanto il lessico o la posa di un politico e nemmeno lo strumento, Twitter e Facebook, che Salvini usa con perizia collaudata, peraltro. Il problema è che Matteo Salvini non solo non sa distinguere il suo ruolo di capo della Lega e di ministro dell’Interno, ma soprattutto usa la sua tribuna di ministro dell’Interno per dare massimo risalto alla sua figura di capo della Lega. Qui è il corto circuito, che non è solo questione di «toni» e di buona creanza (che pure non andrebbe calpestata con tanta voluttà da curva dello stadio), ma è una confusione istituzionale che avvelena il dibattito politico e svilisce il ruolo di governo. Come capo della Lega Salvini rappresenta una parte degli italiani, di italiani che ne condividono la linea e che nutrono per lui consenso, ammirazione e anche amore, ma come ministro dell’Interno rappresenta tutti gli italiani, anche quelli che non lo hanno votato e che, legittimamente e in forme ovviamente civili e non violente, lo detestano sul piano politico. Come capo della Lega Salvini può entrare in conflitto con chiunque, ma come membro del governo di tutta l’Italia non può, pena il caos istituzionale, entrare in conflitto aspro e senza esclusione di colpi con tutte le istituzioni, nazionali ed europee. Come capo della Lega può scontrarsi con chiunque, è la democrazia. Ma come ministro dell’Interno e addirittura come aspirante al titolo di premier alle prossime elezioni, il suo dovere è di non consumarsi e anche incarognirsi in uno scontro permanente e distruttivo con chiunque gli si pari davanti, nel mondo delle istituzioni soprattutto. Una sovrapposizione pericolosa. Il ministro dell’Interno è obbligato a tenerne conto, anche a costo di qualche sacrificio sul terreno della propaganda.

Repubblica 5.12.18
Le battaglie di Spataro
Dagli islamici agli 007 il magistrato instancabile che non fa sconti ai potenti
di Liana Milella


ROMA Procuratore? Ma il tweet di Salvini lei lo ha visto?». Sta per scoccare mezzogiorno, e un giornalista invia un messaggio ad Armando Spataro per dargli la notizia che poi arroventa la sua giornata. Il procuratore di Torino scopre così, mentre l’operazione di polizia è ancora in corso in quel preciso momento, che Salvini l’ha annunciata quattro ore prima.
Una rapida consultazione con i colleghi, una telefonata al procuratore generale Francesco Saluzzo, nessun dubbio sulla difesa delle regole che, come gli dirà nel pomeriggio il suo ex capo Edmondo Bruti Liberati, «non sono mai state violate da nessun ministro dell’Interno in modo così clamoroso, neppure da Maroni o da Alfano». Non bastasse la gaffe delle 7.22, Salvini — che rischia il processo per vilipendio della magistratura proprio per mano di Spataro — maltratta il magistrato.
Ironizzando, Bruti dice a Spataro: «Hai visto? C’è stato un downgrade negli insulti contro la magistratura, prima arrivavano dal presidente del Consiglio, ora dal ministro dell’Interno...».
Da quel momento Spataro incassa decine di messaggi di solidarietà.
Non parla. «Mi chiama per un’intervista? No, grazie. Devo lavorare». «Ma come pure oggi?».
«Sì, certo, sempre» dice a chi insiste. Si limita a ricordare un episodio: «Quando venne arrestato Mario Moretti nell’81 ricevetti una telefonata dell’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni che mi chiese di fargli sapere quando avrebbe potuto dare una notizia così importante per il Paese, perché in ogni caso prima venivano le esigenze dell’autorità giudiziaria». Un ricordo. Senza ulteriori commenti. Giungono le telefonate, quella di David Ermini, il vice presidente del Csm, che lo ha difeso. I colleghi di Area, la corrente di sinistra delle toghe, vogliono che se ne discuta in Consiglio. L’sms del collega Giancarlo De Cataldo. Quello di Gianni Canzio, l’ex presidente della Cassazione. Sono tutti contro Salvini.
La telefonata più lunga è quella con Bruti che non nasconde la sorpresa: «Non è mai accaduto che un ministro dell’Interno annunciasse gli arresti. Ne ho un’esperienza diretta come ex procuratore di Milano. Vi sono prassi pacifiche con le forze di polizia con cui si concorda tutto, non solo i tempi dell’annuncio, ma anche le virgole da mettere nei comunicati. E tutto avviene sotto la direzione del pm. E poi l’uso di quell’espressione "15 nigeriani"... mai scritto presi 15 calabresi».
Brucia ai colleghi l’irridente riferimento alla pensione. Già, perché Spataro in pensione ci va davvero. Ultimo giorno di lavoro venerdì 14 dicembre. Settant’anni, una vita spesa per la magistratura, ma anche per battaglie in cui ha creduto profondamente, come quella contro la riforma costituzionale di Renzi, che lo ha visto protagonista di decine di dibattiti e di battute sul "no". Ma ora quell’insistere «sul futuro serenissimo da pensionato» suona offensivo.
Ma forse Salvini ha un "conto" aperto col Spataro che un mese fa ha chiuso le indagini per vilipendio contro il capo della Lega che aveva definito le toghe «una schifezza». Ma il ministro si è ben guardato dall’annunciare che sulla sua scrivania è giunta da Torino la busta gialla. Eppure quest’indagine nata nel 2016, per cui Spataro con cocciutaggine ha chiesto il via libera tre volte ai ministri della Giustizia (alla fine dato da Bonafede), è forse la chiave per capire l’acredine di Salvini. Eccolo a luglio quando bacchetta il procuratore. Lui dice che «nessuno può vietare l’attracco dei barconi», Salvini replica che «bloccare i porti è un dovere e se qualcuno la pensa diversamente può candidarsi».
Ma la procura di Torino potenzia le indagini sui reati «insopportabili e odiosi» contro gli immigrati e comincia a usarli nelle cancellerie.
Ma, come si chiede Bruti, Salvini sa chi è Spataro? Un procuratore che due giorni dopo il dolore più grande della sua vita — la morte a 36 anni del figlio Andrea che aveva scelto di fare l’avvocato penalista — era già al lavoro in procura. Un pm, ricorda Bruti, che «non ha temuto né i terroristi rossi, né quelli islamici, né la mafia, né gli 007 deviati». E neppure i superagenti della Cia.
Eccolo pm a Milano accanto al giudice istruttore Guido Galli, poi ucciso, indagare su Curcio e Prima Linea. Eccolo in via Dogali, nel covo delle Br. E poi, da pm antimafia, indagare sulla ‘ndrangheta ormai padrona del traffico di droga. Duemila arresti, duemila condanne e 70 ergastoli.
Dopo la parentisi al Csm con il Movimento per la Giustizia fondato con Giovanni Falcone, si apre la stagione delle indagini sul terrorismo islamico, «più condanne a Milano che nel resto d’Europa» come ricorda spesso, e di certo l’inchiesta più famosa, quella sul sequestro di Abu Omar, con la soddisfazione di vedere la Corte dei diritti umani di Strasburgo dalla sua parte nel condannare i governi attestati sul segreto di Stato e le grazie concesse agli agenti della Cia da Napolitano e Mattarella. Come dice Vito D’Ambrosio, un collega in pensione del Movimento giustizia, «quando Salvini avrà lavorato un quarto di Spataro allora potrà misurarsi con lui». Un toga al servizio dello Stato, che per lo Stato ha rischiato la vita, e che nessuno, tantomeno un ministro dell’Interno, può dileggiare.

il manifesto 5.12.18
Spagna, lo sconquasso a sinistra del voto andaluso
Spagna. A conquistare il Sud sono le destre peggiori. Si incrina così la positiva diversità spagnola, che sembrava esente dall’onda nera che sta sommergendo l’Europa
di Massimo Serafini


Inumeri parlano chiaro e inquietano. In Andalusia hanno vinto le destre e perso tutte le sinistre, dal Psoe a Unidos-Podemos. La percezione della gravità e pericolosità del voto andaluso, la rendono bene le decine di migliaia di persone che sono scese in strada.
Che si sono riversate, spontaneamente, a protestare per le strade di Granada, Malaga e Siviglia. Richiamano alla mente le manifestazioni nelle città americane dopo la vittoria di Trump. Stesso stupore, incredulità e paura per il voto di domenica nella ex-roccaforte socialista spagnola, che potrebbe aprire un varco ai peggiori scenari, non escluso la tenuta dell’assetto democratico dell’intero paese.
DI SICURO incrina la positiva diversità spagnola, che sembrava esente dall’onda nera che sta sommergendo l’Europa. A conquistare il sud della Spagna sono le destre peggiori, quelle razziste del ’prima gli spagnoli’, quelle che odiano le femministe e vogliono le donne a casa e gli stupratori in libertà, le destre che odiano gli ambientalisti e negano il cambio climatico, le destre nostalgiche di Franco e di chi, come lui, aveva saputo “risolvere” la questione territoriale spagnola e in particolare quella Catalana. Fare distinzioni pensando che esista una destra democratica e costituzionalista, ovviamente recuperabile e una neo-franchista da combattere, è un errore. Se è vero, come da più parti si scrive, che gran parte dell’astensione viene da sinistra, non si può però ignorare che a mobilitare il voto a destra, a spingere quell’elettorato ad andare ai seggi, sono stati i toni e i contenuti di Vox e non di Ciudadanos e Pp. Non a caso ora stanno negoziando per poter governare insieme l’Andalusia.
NON SI PUÒ in altre parole pensare che lo sconquasso andaluso dipenda dal fatto che a confrontarsi con le destre c’era il peggior partito socialista di Spagna, intriso di corruzione, guidato dalla Diaz, la principale antagonista di Sánchez, contraria al rapporto con Podemos e sostenitrice delle larghe intese. Né è sufficiente a spiegare un esito tanto disastroso il fatto che al voto ci si è arrivati con in una regione con il record di disoccupazione, di persone a rischio di povertà, con la peggiore spesa sanitaria per abitante di tutta la Spagna e con un bilancio ambientale e di inquinamento terrificante. Questo spiega solo una parte della verità, ma non chiarisce come mai Adelante Andalusia, la confluenza con cui Podemos e Izquierda Unida si sono presentate in Andalusia, non abbia raccolto, nonostante una campagna elettorale fortemente antagonista e chiusa a ogni rapporto con il PSOE della Diaz, nessuno dei 400mila voti socialisti, che invece hanno preferito l’astensione.
IL VOTO di domenica può travolgere il fragile equilibrio che permette a Sánchez di governare. Ne svela infatti le difficoltà. Quelle di dare un senso compiuto al suo rapporto con Unidos-Podemos, alleanza sottoposta ad un continuo fuoco amico per tenerlo il più lontano possibile dalla esperienza di governo e impedire soprattutto che Sánchez lo riconosca come la forza indispensabile per cambiare il paese.
LO STESSO patto sul bilancio solennemente sottoscritto, che distribuisce giustizia sociale a una popolazione in sofferenza da anni, se resta sulla carta e non si trasforma in misure concrete che facciano percepire al paese che il cambiamento è in atto, non è pensabile che produca quello spostamento dei rapporti di forza necessario per conquistare stabilmente la Spagna alle prossime elezioni. Ha pesato l’incertezza con cui si è provato di consolidare la maggioranza per approvare il bilancio.
È MANCATO, pur giustificato dall’intransigenza delle forze indipendentiste catalane, un impegno ad offrire un percorso credibile che riportasse alla politica e non alla giustizia il compito di risolvere la questione territoriale. Una scelta che non solo non ha evitato l’accusa delle destre di dialogare con i golpisti e quindi di spaccare la Spagna, ma non ha neppure inciso sulle divisioni del fronte indipendentista assediato dalle manifestazioni di protesta per i tagli selvaggi allo stato sociale, prodotte dal governo indipendentista e a cui il bilancio dello stato dava risposte concrete.
È DEL TUTTO evidente che la pressione delle destre nelle prossime settimane cercherà di far precipitare gli equilibri e portare il paese alle elezioni. Pensare di evitarle, mantenendo le ambiguità e le incertezze, soprattutto ridimensionando la portata degli obiettivi di cambiamento, condannerebbe ad una sconfitta certa.
È augurabile quindi che l’appello lanciato da Unidos-Podemos di avanzare proposte per riunire e consolidare la maggioranza, necessaria ad approvare il bilancio, venga raccolto da Sánchez. Rilanciare il progetto di cambiamento, offrendogli soprattutto gambe per camminare è l’unica risposta in grado di contrastare l’onda nera che si è abbattuta sull’Andalusia.

il manifesto 5.12.18
Regeni, nei cinque indagati sta tutto il sistema-al Sisi
Egitto. Non «lupi solitari» ma alti funzionari dell’Nsa, i potenti servizi segreti: la Procura dà nomi e ruoli agli aguzzini. Centrali le bugie del ministero degli interni, cuore del regime: 1,5 milioni di «impiegati» tra agenti e informatori
di Chiara Cruciati


Ieri, come annunciato, la Procura di Roma ha iscritto nel registro degli indagati cinque cittadini egiziani, ufficiali della Nsa (National Security Agency) e della polizia investigativa del Cairo accusati del sequestro, il 25 gennaio 2016 nella capitale egiziana, di Giulio Regeni.
L’iscrizione è giunta dopo quasi tre anni di indagini di Ros, Sco e del team del procuratore Pignatone e del sostituto Colaiocco che hanno individuato nei cinque funzionari gli esecutori materiali del rapimento del ricercatore. Hanno un nome e un volto gli aguzzini di Giulio. Non nomi qualsiasi, non «lupi solitari», ma figure centrali della macchina statale di controllo e repressione: il generale Sabir Tareq, i colonnelli Usham Helmy e Ather Kamal, il maggiore Magdi Sharif e l’agente Mahmoud Najem.
Chi dava gli ordini e chi eseguiva. Najem seguiva Giulio, prese contatti con il portiere del palazzo di Dokki dove viveva e con il suo inquilino, Mohamed el Sayad, per impossessarsi dei suoi documenti e procedere a perquisizioni segrete. Kamal ha gestito i rapporti con Mohammed Abdallah, capo del sindacato degli ambulanti, già informatore dei servizi e arruolato per spiare Giulio; fu Kamal a condurre Abdallah nell’ufficio della Nsa.
Qui, Helmy lo ha «assunto», gli ha dato l’ordine di fornire informazioni su Giulio, mentre Sharif coordinava l’intera operazione sotto l’ala del generale Tareq. Sono stati loro a catturare Regeni nella rete, a mettere addosso ad Abdallah una telecamera in dotazione della polizia e a ordinare il sequestro del giovane, la sera del quinto anniversario della rivoluzione di piazza Tahrir, in una capitale spettrale.
Abdallah non era nuovo a collaborazioni con il mukhabarat, i servizi segreti. Il suo ultimo incontro con Giulio, il 6 gennaio 2016, è il punto di svolta: il colonnello Sharif, secondo un’inchiesta del Nyt, gli promise una ricompensa quando il «caso Regeni» fosse stato chiuso.
Ingranaggi fondamentali del sistema di controllo totale del regime di al-Sisi, ereditato dal predecessore Mubarak e amplificato a dismisura. La Nsa non è un ente qualsiasi: «chiuso» dopo la rivoluzione del 2011 (si chiamava Ssis), è riapparso poco dopo con un nuovo nome, ma sempre sotto il diretto controllo del ministero degli Interni e del potente e feroce ministro Magdy Abdel Ghaffar, un dicastero che da solo impiega 1,5 milioni di persone tra poliziotti, agenti dei servizi e informatori.
Tra loro anche dei condannati per torture su detenuti e ancora al loro posto, come il generale maggiore Khaled Shalaby: nel 2003 la Corte di Cassazione egiziana lo condannò per aver torturato a morte Shawqy Abdel Aal e aver poi falsificato i verbali, ma nel 2015 è stato promosso a capo del dipartimento investigativo di Giza. Fu Shalaby che dopo il ritrovamento del corpo martoriato di Giulio disse che si era trattato di «un’incidente stradale». Smentito da Ahmed Nagy, il procuratore del Cairo che in quegli stessi giorni parlò di «torture» e «morte lenta».
E fu invece proprio Ghaffar – braccio destro di al-Sisi, 31 anni trascorsi nel Ssis – a presentarsi in tv per dire che mai i servizi egiziani avevano avuto a che fare con Regeni: «Questo è la mia ultima parola sulla questione: non è successo». Bugie, smentite palesemente dalle indagini e che con un filo rosso conducono al cuore del regime.
Già nell’aprile 2016 la Reuters, citando sei tra poliziotti e funzionari dei servizi egiziani, diceva di poter ricostruire il sequestro di Giulio, portato dopo il rapimento nella sede della Nsa al Cairo dopo essere transitato per la stazione di polizia «fortezza» di Izbakiya. In risposta a quell’articolo, il portavoce della Nsa, Mohammed Ibrahim, affermò la non esistenza di connessioni «tra Regeni e la polizia o il ministero degli interni o la sicurezza nazionale»: «L’unica volta che è entrato in contatto con la polizia è stato quando dei funzionari hanno timbrato il suo passaporto all’arrivo in Egitto».
Altra bugia: Giulio è stato pedinato mentre svolgeva il suo lavoro, sicuramente a dicembre 2015 all’assemblea dei sindacati indipendenti, e poi tramite Abdallah. La sua casa è stata perquisita e gli è stata tolta la vita.

il manifesto 5.12.18
Israele-Hezbollah, nel tunnel verso la guerra
Medio oriente. Dopo l'incontro di domenica in Belgio tra Netanyahu e Pompeo, Israele ha annunciato ieri la scoperta di una galleria sotterranea scavata dal movimento sciita Hezbollah sotto la linea di confine. Si teme un nuovo conflitto
Il nord di Israele visto dal versante libanese del confine
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Non vanno presi sottogamba il richiamo di una parte dei riservisti e lo spostamento verso nord di batterie di artiglieria annunciati ieri dalle forze armate israeliane nell’ambito dell’operazione “Scudo del Nord”, ufficialmente diretta a individuare e neutralizzare i tunnel che il movimento scita Hezbollah starebbe scavando tra il territorio libanese e il nord di Israele. Ieri è apparsa evidente la rilevanza del viaggio improvviso di Netanyahu in Belgio dove due giorni fa ha incontrato il Segretario di stato Mike Pompeo per informarlo delle iniziative che Israele avrebbe compiuto il giorno dopo a ridosso della linea di confine con il Libano. «Stiamo prendendo azioni determinate e responsabili in tutti i settori e continueremo con altre operazioni, aperte e coperte, in modo da assicurare la sicurezza di Israele», ha proclamato ieri Netanyahu aggiungendo che «chiunque attacchi Israele pagherà un prezzo pesante».
Di tunnel di Hezbollah si parla da anni. Così come di un nuovo “round” tra Hezbollah e Israele, dopo la guerra del 2006. Il movimento libanese ha ammonito che, in caso di conflitto, attaccherà con i suoi uomini in Alta Galilea in modo da far provare agli israeliani ciò che provano i libanesi durante le offensive dello Stato ebraico. Qualcuno ipotizza un piano di Hezbollah per prendere il controllo, per diverse ore, di un centro israeliano e le gallerie sotterranee avrebbero la funzione di favorirlo. Non è chiaro quando Israele ha localizzato ciò che definisce il primo “tunnel di attacco” scavato da Hezbollah. Un portavoce militare ha detto che la galleria, lunga 200 metri, alta due metri e larga altrettanti, partiva da Kafr Kela in Libano per arriva nei pressi di Metulla, nel nord di Israele. Esisterebbero altri tunnel e tutti saranno distrutti. Hezbollah, almeno fino a ieri sera, non ha commentato la notizia.
Ci si interroga sui motivi che hanno spinto il governo israeliano a dare solo ora la notizia. La guerra è imminente? Amos Harel, esperto militare del quotidiano israeliano Haaretz, tende ad escluderlo. Potrebbe però essere cominciata la fase della preparazione mediatica di una offensiva che potrebbe scattare nei prossimi mesi. Israele forse prepara l’opinione pubblica in Usa ed Europa a una guerra “preventiva” in Libano. Il quadro della situazione però è più complesso. Il viaggio di Netanyahu a Bruxelles indica che Israele vuole risposte immediate dagli alleati occidentali riguardo al suo potere di deterrenza messo in forte dubbio dai missili di Hezbollah. Da diverse settimane gli analisti israeliani scrivono che terminata, di fatto, la crisi siriana con la vittoria del presidente Bashar Assad, Hezbollah sta richiamando in patria centinaia di combattenti ben addestrati dopo anni di battaglie accanto alle truppe siriane. E questi uomini sarebbero stati mandati a sud. Non solo, sostengono ancora gli israeliani, l’Iran avrebbe deciso di rifornire di missili e armi Hezbollah direttamente in Libano, per prevenire gli attacchi aerei israeliani.
Netanyahu in Libano ha le mani legate. Lì la sua aviazione non può bombardare liberamente come ha fatto in Siria per anni – fino allo scorso 17 settembre quando è stato abbattuto un velivolo da trasporto russo (15 morti) e Mosca ha lanciato pesanti avvertimenti a Tel Aviv – perché le bombe israeliane scatenerebbero la reazione immediata di Hezbollah. Il movimento sciita ha già avvertito di considerare qualsiasi azione offensiva in Libano come un casus belli. Netanyahu perciò deve decidere se portare il paese in una guerra della durata forse di mesi, con pesanti conseguenze anche per la sua popolazione. Nel frattempo, con la scoperta dei tunnel, allerta gli alleati e ammonisce Hezbollah.

il manifesto 5.12.18
Cannabis, il Messico verso la legalizzazione
Fuoriluogo. Il Paese si avvia ad essere la terza nazione dopo Uruguay e Canada, a permettere la produzione, il commercio ed il consumo. Secondo la proposta i maggiorenni potranno richiedere un permesso per seminare, coltivare, raccogliere, preparare e trasformare fino a 20 piante destinate all'uso personale
di Hassan Bassi


Il 1° dicembre si è insediato il nuovo governo messicano sotto la guida del Presidente Andrés M. López Obradorin, e di cui fa parte la senatrice Olga Sánchez Cordero prima donna nella storia messicana ad essere nominata a capo della Secretaría de Gobernación ovvero del Ministero dell’Interno. Olga Cordero aveva presentato al Senato, ad inizio novembre un progetto di legge di regolamentazione della cannabis, promosso già in campagna elettorale, ma reso ancora più urgente dai pronunciamenti della Corte Costituzionale messicana. Alla fine dello scorso ottobre infatti la Corte si era pronunciata per la quinta volta a favore del diritto fondamentale per un adulto alla libertà dello sviluppo della propria personalità, libera da proibizioni insensate, come quella di essere perseguito per uso e coltivazione personale di marijuana.
Questa pronuncia ha di fatto dichiarato incostituzionali le norme proibizioniste vigenti nel paese, ed imposto ai tribunali di assolvere gli imputati per i reati di uso e coltivazione a scopo personale. «Non siamo favorevoli alla liberalizzazione totale delle droghe, ma siamo a favore della libertà e dei diritti, (…) all’autodeterminazione, e per liberare coloro che sono sotto la minaccia del crimine organizzato», queste sono le parole usate dalla senatrice nel presentare la proposta al Parlamento e che ha aggiunto: «Non vogliamo più morti, non importa che siano poliziotti, militari o narcotrafficanti, non vogliamo più vittime collaterali, non vogliamo famiglie in lutto, non vogliamo più sangue che sporchi il nostro paese quando avremmo potuto evitarlo».
Il Messico è infatti uno dei paesi più martoriati dalle guerre causate dal narcotraffico e solo lo scorso anno gli omicidi sono stati 31.000 secondo l’Istituto Nazionale di Statistica messicano, mentre da quando l’esercito è stato impegnato nella «guerra alla droga» 12 anni fa, i morti sarebbero 235.00. Numeri da guerra civile. La legge sulla legalizzazione della cannabis sarà il primo passo per una nuova politica sulle droghe, che affronti il tema fuori dall’ottica repressiva e proibizionista, ma dal punto di vista dei diritti umani e della tutela della salute. Promotore nel 2012 insieme con Guatamela e Colombia dell’appuntamento speciale dell’Onu sulle droghe Ungass 2016, durante il quale anche il Presidente Peña Nieto aveva preso posizione seppure con cautela e qualche indecisione iniziale contro «i limiti del paradigma proibizionista», il Messico si avvia così ad essere la terza nazione dopo Uruguay e Canada, a legalizzare la produzione, il commercio ed il consumo di cannabis.
Secondo la proposta i maggiorenni potranno richiedere un permesso per seminare, coltivare, raccogliere, preparare e trasformare fino a 20 piante di cannabis destinate al consumo personale con una produzione che non superi i 480 grammi all’anno, e non vi sarà alcun divieto di fumare negli spazi pubblici. Per la commercializzazione sono previste delle licenze per coltivazione, conservazione, trasporto e vendita a negozi specializzati, mentre rimane vietata la pubblicizzazione, la vendita o cessione ai minorenni. Rimane anche l’indicazione di divieto di guida di veicoli sotto l’effetto della cannabis.
Con l’approvazione della legge si potrà attraversare il continente nord americano sulla costa ovest dal Canada al Messico senza mai uscire da una giurisdizione che abbia legalizzato la marijuana. E chissà che questo non rappresenti il primo passo della previsione espressa dall’ex Presidente della Repubblica Vincente Fox che ha dichiarato: «Tutte le droghe, inclusa la cocaina, l’eroina e la metanfetamina saranno legali in Messico entro 10 anni. La marijuana è un primo passo, ma il processo è irreversibile».

Corriere 5.12.18
La fiera Da oggi Più libri più liberi
L’editoria italiana (anche piccola) che piace all’estero
di Cristina Taglietti


Un’editoria che piace sempre di più all’estero, che cerca occasioni per farsi conoscere e proporsi sul mercato globale. Anche i piccoli e medi editori che da oggi a domenica 9 si ritrovano a Roma nella Nuvola di Fuksas per Più libri più liberi mettono sempre di più la testa fuori dai confini nazionali. Un fenomeno che viene analizzato domani in un incontro (sala Aldus, ore 14.30) che si intitola proprio Perché l’editoria italiana piace sempre di più all’estero?. «Per anni siamo rimasti un po’ arretrati, trincerati dietro lo schermo della lingua — dice Diego Guida presidente del gruppo Piccoli editori di Aie — e ora, avendo compreso che il mercato italiano è un po’ asfittico, ci siamo aperti all’estero con più convinzione, grazie anche alle iniziative dell’Aie e dell’Ice, l’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, come la partecipazione dell’Italia alla Non/Fiction International Book Fair di Mosca, che è stata una vetrina preziosa per la nostra letteratura».
I dati elaborati dall’Ufficio studi dell’Aie vedono un aumento del 36.5 % della vendita di titoli italiani all’estero rispetto al 2014, mentre gli acquisti sono diminuiti del 10,7%. L’indagine è il punto di partenza per riflettere sui temi dell’internazionalizzazione che non significa soltanto vendita dei diritti ma anche coedizioni, progettazione e realizzazione di volumi per editori stranieri. «Intendiamoci: l’acquisto di libri all’estero — dice Giovanni Peresson dell’Ufficio studi dell’Aie — è importante. Mostra comunque un interesse, un’apertura verso ciò che viene prodotto fuori dall’Italia che per l’editoria è vitale. Rimaniamo un pubblico di lettori curiosi. Però le due curve, vendita e acquisto, si stanno avvicinando. In particolare, i piccoli e medi editori cominciano ad affacciarsi sui mercati stranieri, anche al di là dei casi più macroscopici come L’amica geniale di Elena Ferrante o dei gialli di Sellerio. Questo fenomeno, ormai consolidato, è stato favorito dalla nascita di figure professionali nuove, come le agenzie di scouting. La nostra narrativa trova sempre più voce fuori dall’Italia, mentre nei ragazzi, dal 2012/2013, le vendite di titoli italiani hanno superato gli acquisti».
La Fiera cresce negli spazi e nei numeri, con più di 650 appuntamenti e 545 espositori. «L’evento culturale c’è, bisogna trovare la formula migliore perché sia anche commerciale», dice ancora Guida. Oggi, dopo la cerimonia di inaugurazione ufficiale, entrerà nel vivo del tema conduttore (non semplice), di quest’anno: Per un nuovo umanesimo. Alle 12.30, nella sala Luna, si parlerà di «etica della responsabilità»: il direttore del «Corriere della Sera» Luciano Fontana dialoga con il capo della Polizia Franco Gabrielli, mentre alle 16.15, nella sala La Nuvola, Ilaria Cucchi assieme a Carlo Bonini, presenta la graphic novel Il Buio, dedicata alla lunga notte del fratello Stefano Cucchi. Mentre alle 17.30 nella sala Luna Paolo Conti intervisterà il ministro dei Beni culturali Alberto Bonisoli nell’incontro Lettura: primo motore della cultura. Alla stessa ora (sala La Nuvola) l’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano racconta a Francesco Merlo la sua esperienza. A chiudere la giornata (alle 18.45 , sala La Nuvola) ci sarà lo scrittore israeliano Abraham Yehoshua con Leonetta Bentivoglio. Si partirà dal nuovo romanzo, Il tunnel (appena uscito da Einaudi), per parlare di paura, identità, amore: una vicenda privata che è, inevitabilmente, anche collettiva.

https://spogli.blogspot.com/2018/12/la-stampa-5.html