lunedì 3 dicembre 2018

La Stampa 3.12.18
Abu Mazen
“Gli Stati Uniti di Trump non bastano più per raggiungere la pace”
intervista di Maurizio Molinari


«Gli Stati Uniti di Trump non possono essere gli unici mediatori in Medio Oriente». Il presidente palestinese Mahmoud Abbas è appena atterrato a Roma quando spiega a «La Stampa» l’intenzione di recapitare ai leader italiani e a Papa Francesco un messaggio assai esplicito: «L’America non basta più per raggiungere la pace». Abbas afferma di credere nel dialogo diretto con Israele, dice di aver appena tentato il canale dell’Oman e guarda ad Europa-Russia perché considera l’amministrazione Trump «un ostacolo». Da quando Yasser Arafat siglò gli accordi di Oslo a Washington nel settembre del 1993 Abbas, detto Abu Mazen, è il primo leader palestinese ad assumere una posizione così negativa nei confronti della Casa Bianca. Arrivato a 83 anni, afflitto da gravi problemi di salute e con la successione ancora tutta da decidere, Abbas gioca quella che può essere la sua ultima scommessa politica nel cambiare la dinamica del negoziato di pace: riducendo il ruolo Usa.
Tanto lei che il premier israeliano Netanyahu siete andati in Oman. È il tentativo di far ripartire il negoziato diretto?
«La mia visita in Oman è nata sulla base del legame storico fra i nostri popoli. L’Oman d’altra parte ha mostrato saggezza in passato nell’ospitare i negoziati riservati fra l’Iran e il gruppo 5+1 sul programma nucleare».
Dunque è vero che state tentando la strada delle trattative in Oman. Cosa ha detto al sultano Qaboos?
«Ho spiegato a lui e ai suoi consiglieri la posizione palestinese e la volontà di negoziati diretti con Israele per arrivare alla fine dell’occupazione iniziata nel 1967 di Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est, e Striscia di Gaza. E per risolvere tutte le questioni inerenti allo status finale: Gerusalemme, rifugiati, insediamenti, sicurezza, acque, prigionieri. Questi negoziati devono basarsi sulla soluzione dei due Stati lungo i confini del 1967, sulle risoluzioni Onu e sull’iniziativa di pace araba del 2002. Purtroppo il governo israeliano non ha ancora dimostrato la volontà di sfruttare questa occasione».
Diverse monarchie del Golfo si stanno avvicinando, nelle maniere più diverse, a Israele. In questo scenario c’è un’opportunità per rompere lo stallo con il premier Netanyahu?
«Per quanto ci riguarda Israele è ancora una potenza occupante in Palestina, inclusi i Luoghi Santi di Gerusalemme Est, e nessun leader arabo normalizzerà le relazioni con loro fino a quando i nostri diritti non saranno rispettati, inclusa Gerusalemme Est nostra capitale. Ovunque gli israeliani andranno e qualsiasi cosa faranno non avranno successo se non faranno fronte a tali obblighi».
Ma l’iniziativa araba promossa dai sauditi nel 2002 per una pace regionale resta sul tavolo?
«Non ci sarà nessuna pace regionale possibile senza fine dell’occupazione israeliana, sulla base dell’iniziativa del 2002 che resta sul tavolo come comune posizione araba sulla normalizzazione dei rapporti con Israele».
C’è la possibilità che altri Stati arabi, come l’Arabia Saudita, il Qatar o gli Emirati, possano affiancarsi alla Giordania nel Waqf che gestisce la Spianata delle Moschee nella città vecchia di Gerusalemme?
«Siamo d’accordo con il re Abdullah II di Giordania sulla continuazione del loro ruolo di custodi del Waqf. Gerusalemme Est è una città occupata dal 1967 ed è la capitale dello Stato di Palestina. Gerusalemme deve rimanere una città aperta a tutti i visitatori e fedeli delle religioni monoteistiche: islam, cristianesimo ed ebraismo. Ribadisco che abbiamo un grande rispetto della fede ebraica e non abbiamo problemi con l’ebraismo, ma con Israele che occupa la nostra terra. Vogliamo vivere con gli israeliani e costruire ponti di pace con loro ma devono consentirci di avere libertà e indipendenza. Vi sono nel mondo milioni di palestinesi, discendenti dei cananei, che sognano di avere il loro Stato nella terra degli antenati».
L’amministrazione Trump potrebbe annunciare il suo piano di pace a inizio anno. Cosa vi aspettate da Washington?
«Nel 2017 ho incontrato il presidente Trump quattro volte, si è offerto di mediare fra noi e gli israeliani ma sfortunatamente ha cambiato drasticamente la sua posizione quando ha riconosciuto Gerusalemme unificata come capitale di Israele e vi ha spostato l’ambasciata Usa, affermando che da quel momento Gerusalemme era fuori dal tavolo negoziale. Poi l’amministrazione Usa ha adottato altre misure punitive contro i palestinesi, incluso il taglio di aiuti al governo e all’agenzia Unrwa, e ha chiuso l’ufficio dell’Olp a Washington. Tutto ciò rende impossibile per gli Stati Uniti essere l’unico mediatore».
Dunque non siete interessati al piano di pace di Trump?
«Non avremo nulla a che fare con questa amministrazione Usa e non accetteremo da loro nessun piano di pace che viola la legge internazionale e non rispetta il ruolo di mediatore».
Ma lei pensa davvero che in Medio Oriente si può arrivare alla pace senza il contributo degli Stati Uniti?
«Gli Stati Uniti, ripeto, non possono essere più l’unico mediatore. Lo scorso febbraio ho suggerito al Consiglio di Sicurezza dell’Onu che l’unica maniera per fare dei progressi è creare un meccanismo che includa tutti i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, del Quartetto ed altri. Anche l’Europa può avere un ruolo. E inoltre restiamo aperti a negoziati diretti: ho accettato più volte incontri con il premier Netanyahu, anche a Mosca su invito del presidente Putin, ma lui non si è mai presentato».
Che cosa si aspetta da questo viaggio in Italia, cosa chiederà ai leader del governo?
«Siamo grati all’Italia per il sostegno, politico ed economico, al popolo palestinese, e per il sostegno alle posizioni Ue. Palestinesi ed italiani hanno molti valori comuni: combattiamo terrorismo ed estremismo. E ci coordiniamo a più livelli su cultura, economia e politica. Vogliamo per l’Italia un ruolo maggiore nel processo di pace nella regione. Aspettiamo il giorno in cui ci riconoscerete come avete fatto per lo Stato di Israele».
Secondo indiscrezioni trapelate da Amman, l’amministrazione Trump sarebbe a favore di una confederazione fra Giordania, Israele e Palestina. Come vede tale scenario?
«Una confederazione si può formare solo fra Stati indipendenti e sovrani. Dunque la Palestina dovrebbe diventarlo per poter sottoscrivere un tale accordo».
L’ex Segretario di Stato Usa John Kerry afferma che l’ultimo tentativo di accordo fallì a causa di opposti veti: quello di Israele sullo smantellamento totale degli insediamenti in Cisgiordania e il vostro sulla rinuncia al diritto al ritorno dei profughi del 1948. A quali condizioni siete pronti a negoziare sul vostro veto?
«Kerry ha fatto del suo meglio per portare le parti a negoziare ma Israele non ha mai accettato la soluzione dei due Stati come base delle trattative. Il diritto al ritorno dei profughi non è mai stato un ostacolo: deve essere sul tavolo per trovare un’intesa basata sulla risoluzione Onu 194, come previsto dall’iniziativa araba del 2002, e ci sono molte soluzioni creative per renderla accettabile a entrambe le parti».
Hamas ha una nuova leadership a Gaza. Li considerate dei partner o dei rivali?
«Hamas ha un programma politico diverso, li abbiamo invitati ad accettare quello dell’Olp. L’Egitto sta tentando di far applicare le intese dell’ottobre 2017 sulla riconciliazione fra noi, per consentirci di assumere le responsabilità a Gaza come già facciamo in Cisgiordania, e tenere elezioni, ma Hamas non ha ancora accettato».
L’Olp ha deciso di ritirare il riconoscimento di Israele, ritiene davvero possibile rinunciare al negoziato per tornare alla lotta armata?
«Solo con mezzi politici, diplomatici e pacifici possiamo raggiungere l’obiettivo di libertà e indipendenza. Abbiamo riconosciuto lo Stato di Israele nel 1993, rispettato tutti gli accordi, costruito le nostre istituzioni basandoci sullo Stato di Diritto, combattiamo il terrorismo e restiamo sempre pronti a negoziati. Ma in cambio Israele si è trasformato in uno Stato-apartheid continuando l’occupazione della Palestina, violando gli accordi firmati e le leggi internazionali con le attività degli insediamenti, ed emanando la legge razzista sull’identità dello Stato, rifiutando di riconoscere il nostro Stato e il nostro diritto all’autodeterminazione. Insomma, noi riconosciamo ancora Israele e manteniamo una stretta cooperazione nella sicurezza ma gli chiediamo in cambio di rispettare le intese».
Come presidente palestinese, arrivato a 83 anni di età, che tipo di coesistenza vuole costruire con gli israeliani?
«Non ho mai sospeso il dialogo con tutti gli israeliani e ogni settimana continuo a riceverli. L’unico futuro per i due Stati è vivere in pace e sicurezza, da buoni vicini. La nostra concessione nel 1988 fu di accettare che Israele prendeva il 78% della Palestina storica e noi avremmo creato il nostro Stato sul restante 22%, ovvero Cisgiordania, Gerusalemme Est e Striscia di Gaza occupati nel 1967. Dunque mi chiedo cosa altro vuole Israele».
Le capita mai di pensare a chi potrebbe guidare il governo palestinese dopo di lei, che tipo di successore vorrebbe?
«Un anno fa abbiamo riunito il nostro Consiglio nazionale, eletto i nuovi membri e il comitato esecutivo dell’Olp. Il Fatah, che è il partito più grande, ha fatto lo stesso eleggendo i suoi leader. Dunque, abbiamo le istituzioni per guidare la nazione».
Olp, Fatah e governo palestinese sono espressioni nel nazionalismo arabo che attraversa una fase di declino a causa dell’affermazione dell’Islam politico. Come vede lo scontro fra queste due forze all’interno di più Stati arabi?
«Tutti i palestinesi, uomini o donne, non importa di quale colore o razza, cristiani, musulmani o samaritani, sono uguali davanti alla legge. E vogliamo che ciò continui. Siamo contro l’Islam politico. Lavoriamo duro per combattere il terrorismo nella nostra regione e cooperiamo con molti Stati a tal fine».