lunedì 3 dicembre 2018

La Stampa 3.12.18
A 14 anni accoltella il compagno di scuola
di Antonio Emanuele Piedimonte


A scuola con il coltello. Tragedia sfiorata l’altro ieri nell’Istituto tecnico “Alessandro Volta” di Aversa. Era appena suonata la campanella di fine lezioni, alle 14, quando è scattata l’aggressione ai danni di uno studente disabile. Non era la prima volta, stavolta però il capobanda aveva una questione personale in sospeso e così mentre la vittima cercava di scappare gli ha sferrato una coltellata da dietro colpendolo nella parte alta del torace, all’altezza della spalla. Il ragazzino, un 14enne, si è accasciato con il sangue che gli colava sulla maglia. A soccorrerlo gli insegnanti, che hanno tamponato la ferita e sollecitato l’interveto degli agenti del commissariato e dell’ambulanza che ha portato lo studente all’ospedale Cardarelli di Napoli, in codice rosso. Mentre i medici stabilizzavano le condizioni del ferito (fuori pericolo ma ricoverato e monitorato per il rischio complicazioni) i poliziotti stavano già braccando l’aggressore. 
Fermato con l’arma sporca di sangue
Dopo una rapida identificazione, infatti, sono andati a cercarlo prima nella sua abitazione e poi nel bar del padre, e dopo ulteriori ricerche l’hanno acciuffato. Non c’è voluto molto, non si era nascosto e non era in fuga, stava facendo una passeggiata con la sua minicar; talmente tranquillo da aver ancora con se il coltello sporco di sangue. Il ragazzo ha ammesso il fatto e con una certa sufficienza ha spiegato che il coltello lui se lo porta dietro per difendersi da eventuali pericoli. Inevitabile il quesito: la vittima (che è seguita in aula da un insegnante di sostegno) lo aveva forse minacciato? No, ma ha importunato una ragazzina che mi piace, ha chiarito il baby criminale agli inquirenti. Una spiegazione lucida quanto cinica che gli ha aperto la strada per il Centro di prima accoglienza dei Colli Aminei del Tribunale dei minori di Napoli. Il magistrato ha optato per l’accusa di lesioni gravissime (e non di tentato omicidio). 
L’episodio ha turbato la comunità casertana facendo rivivere la tragedia del 2013, quando un altro 14enne, Emanuele Di Caterino, fu ucciso con un coltellata al cuore da un 17enne poi condannato (a quindici anni), ma il processo fu poi annullato dalla Cassazione e sarà ricelebrato tra un mese. E sempre nel Casertano è ancora forte lo choc per il ferimento di una professoressa, Franca Di Blasio, sfregiata (32 punti di sutura al volto) in aula con una lama da un suo studente lo scorso febbraio a Santa Maria Vico. «Finirà che dovremo mettere i metal-detector nelle scuole», fu l’amaro commento di una giovane docente.

Repubblica 3.12.18
Se la sicurezza diventa tema di sola polizia
di Nadia Urbinati


La legge sulla sicurezza approvata dal Parlamento assegna larghissimo spazio all’immigrazione, facendone a tutti gli effetti un tema di ordine pubblico, di polizia. Regola la presenza dei migranti in maniera molto restrittiva, abrogando il permesso di soggiorno per motivi umanitari e togliendo la protezione a chi chiede asilo da trattamenti disumani e degradanti.
Propone una lettura disumana della Costituzione, ed esce dall’alveo delle convenzioni internazionali sulla protezione dei diritti di bambini e ragazzi, che l’Italia ha sottoscritto (l’art. 10 della Costituzione dice che "La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali). Come ha scritto Chiara Saraceno su Repubblica, "dopo l’approvazione della nuova legge sulla sicurezza i figli di coloro che hanno ottenuto protezione umanitaria dovranno seguire il destino dei genitori, obbligati a lasciare i luoghi in cui avevano trovato accoglienza e progetti di inserimento". Mario Morcone, rappresentante del Consiglio italiano per i rifugiati, ha spiegato che "richiedenti asilo e rifugiati non hanno commesso alcun reato. La Convenzione di Ginevra prevede esplicitamente che gli Stati non possano adottare sanzioni penali contro i rifugiati solamente per il loro ingresso o soggiorno irregolare".
La legge e la sua approvazione sollevano il problema del ruolo degli organi di controllo, in primis le corti e chi si occupa di sorvegliare affinché venga garantito al paese il governo della legge: al paese, ovvero a chi lo abita (cittadini e cittadini naturalizzati, immigrati residenti e ammessi, e rifugiati.) I diritti umani sono diritti della persona, non dei soli cittadini. Le democrazie si sono stabilizzate dopo la Seconda guerra mondiale e due decenni di dittature riconoscendo questo principio, che mette la legge sopra le maggioranze e i governi. Che maggioranza e governi ricevano la legittimità del consenso elettorale non è ragione sufficiente perché agiscano come l’opinione della maggioranza vuole.
Il momento difficile nel quale si trova la nostra democrazia richiede una riflessione critica e competente sulla tensione che si manifesta tra "governo della legge" e "governo degli uomini", per riprendere una terminologia classica molto chiara. Siamo di fronte, non solo in Italia, allo stravolgimento della maggioranza che da principio di decisione si fa potere diretto che stiracchia al massimo i limiti imposti dalla Costituzione. Questa è la faccia del populismo del XXI secolo, che può stare nei binari del governo della legge fino a quando il potere indipendente della giustizia esercita la sua funzione. A fianco di altre grandi questioni che la svolta populista globale rappresenta e determina, quello della trasformazione delle democrazie costituzionali in costituzionalizzazioni di una maggioranza è un problema spinoso, gravido di conseguenze che devono farci ponderare sul significato e l’estensione dell’antica massima per la quale la libertà si protegge limitando il "governo degli uomini". Per fermare un treno che potrebbe deragliare, con danno per tutti, non solo per i rifugiati, non si deve dimenticare che nell’età costituzionale le dittature hanno iniziato con il togliere i diritti alle minoranze, aprendo la strada alla discrezionalità (diceva Mussolini che nella sua "concezione non esiste la divisione dei poteri") che si è tradotta in governo di polizia per tutti.

La Stampa 3.12.18
Tra gli immigrati regolari buttati in mezzo alla strada
“Ora siamo senza futuro”
di Francesca Paci


Il giorno dopo le prime 24 espulsioni del decreto sicurezza il silenzio avvolge il Cara di Isola Capo Rizzuto. In serata un paio di migranti tornano a piedi lungo la statale buia ma s’infilano svelti oltre le grate d’accesso. In attesa dei grandi numeri - circa 200 persone con il permesso umanitario saranno costrette a lasciare il Centro nelle prossime due settimane, un migliaio in tutta la Calabria - l’attenzione si è spostata a una quindicina di km da qui, stazione di Crotone, il caseggiato dismesso delle Ferrovie dello Stato dove la Croce Rossa Italiana ha sistemato un piccolo gruppo di quelli che venerdì, scesi dal pullman, sono stati inghiottiti dalla notte, regolari sul piano legale ma fantasmi.
L’odissea
C’è la famiglia con la mamma incinta e l’altro bimbo piccolo, per cui i crotonesi vengono a turno a donare giocattoli o pannolini, e ci sono due giovani donne segnate dalla schiavitù sessuale.
«Sono arrivata in Italia a settembre del 2017 e per la prima volta da quando è morto mio marito ho trovato qualcuno che mi ha trattato bene», racconta una di loro, Mariam, 40 anni. Siede su un divanetto chiusa come un pugno, la tuta di ciniglia, le parole atone, la passività della rassegnazione vera: «Vengo da un piccolo villaggio della Costa d’Avorio vicino alla frontiera, mio marito faceva il commerciate e io crescevo i nostri tre figli, il minore di 5 anni e il più grande di diciotto. Quando lui è rimasto vittima di un incidente stradale, a maggio del 2015, si sono presentati ai funerali alcuni uomini che dicevano di far parte della sua stessa associazione e volevano i documenti e i soldi. Io non ne sapevo nulla, non so se fosse roba politica, è vero che da un po’ di tempo ricevevamo strane telefonate... Sono tornati, hanno chiamato a ripetizione, minacce, lettere, poi sono venuti in cinque, tutti incappucciati, hanno messo la casa sottosopra e hanno ucciso il mio ragazzo. Volevo morire anche io, c’erano gli altri bambini, io pregavo il Signore e la Madonna ma pensavo solo a suicidarmi. Ero vedova, orfana».
La promessa
«All’inizio dell’estate di 3 anni fa - continua Mariam - è comparso un uomo che giurava di potermi aiutare, prometteva cure e lavoro. Mi ha portato in un albergo e la mia vita è finita, da allora non so più nulla della mia famiglia. So invece come si sta per ore in un furgone blindato appiccicata a delle sconosciute, so come si viene offerta e venduta in strada da quei carcerieri nigeriani, so come funziona la prostituzione nelle case chiuse del Niger e dell’Algeria, so il dolore per cui nulla può neppure il Pater nostro. Non sapevo invece cosa fosse la Libia. A un certo punto i militari algerini ci hanno scaricati tutti nel deserto, tre giorni di marcia forzata fino all’ultimo mercato, il confine libico. Sono rimasta quattro mesi in quella prigione femminile, credo fosse Zintan. Lì non dovevamo lavorare per i clienti ma ogni notte venivano i soldati e ci obbligavano a cose che non so ripetere. Una sera ci hanno legate e caricate su un camion, non capivo nulla perché non parlo arabo ma qualcuna diceva di aver sentito che eravamo troppe. Stavo male, ricordo il mare, il gommone riempito fino a scoppiare, i libici con le pistole, “jalla Italia”. Dopo tante ore siamo stati soccorsi da una barca grande, eravamo più di cento, ci hanno portati a Catania ma io sono stata trasferita subito qui a Crotone, avevo le gambe interamente ustionate dal carburante. E finalmente mi hanno trattato bene. Ho chiesto a tutti i volontari che ho incontrato di cercare notizie dei miei figli, io ho paura di farlo per via di quegli uomini. Nel Cara ho studiato l’italiano, avevo capito che sarebbe arrivata l’integrazione».
Senza lacrime
Mariam non ha bisogno di piangere per dire la sua fragilità. Altri, espulsi come lei venerdì, sono malati, uno ha problemi psichiatrici. E per adesso sono pochi. Il presidente della Croce Rossa di Crotone, Francesco Parisi, fa la spola con la Caritas e le altre associazioni, segue i minori non accompagnati (per i quali l’incognita è in agguato al compimento della maggiore età). Ammette che il peggio deve arrivare: «Temo che gli effetti di questo decreto non si vedano ancora nella sua totalità, il paradosso è che porterà a un aumento esponenziale delle persone in mezzo alla strada». Spiega come il problema si ponga proprio per le Mariam, i migranti in attesa di entrare nel sistema Sprar per cominciare il programma di protezione vero e proprio, un lavoro, la casa, un ruolo. Si calcola che solo nell’ultimo anno siano stati concessi 20 mila permessi umanitari, i meno spendibili. L’allarme dei sindaci risuona da nord a sud della penisola: un esercito di migranti regolari sarà presto in strada e, allo scadere della protezione, si aggiungerà verosimilmente ai cinquecentomila irregolari già in Italia.
Mariam assorbe, sobbalza ai rumori forti, aspetta.

Corriere 3.12.18
I braccianti «invisibili»
«Nei campi d’Italia centomila schiavi»
A 14 anni i figli non sanno leggere
I dossier di Caritas e Cgil: il 30% non ha accesso a un bagno. Anche al Nord si vive in strada
di Goffredo Buccini


Nove su dieci non parlano italiano, il 36% vive senza bagno: sono solo alcuni dei numeri dei braccianti «invisibili»: i centomila schiavi isolati nei campi. Nei poderi dei padroncini. E anche al Nord adesso arrivano i primi caporali.
Jerry Maslo fu il primo ed è rimasto un simbolo. Molti svaniscono come fantasmi dalla nostra cattiva coscienza: i dodici migranti schiantati su un pulmino dei caporali ad agosto, i sindacalisti solitari e coraggiosi come Soumaila Sacko, l’albanese ribelle Hyso Telaray, i cento polacchi spariti in sei anni nel Tavoliere di Puglia, gli italiani resi stranieri in patria dalla miseria e ammazzati dalla fatica come Paola Clemente.
Il rosso del sangue si mischia al rosso dei pomodori, sostiene don Francesco Soddu. Troppo spesso, in certe campagne, in certi ghetti: «Un unicum che sembra legare indissolubilmente l’esistenza di queste persone, la loro vita e la loro morte, alla terra e ai suoi frutti», aggiunge il direttore di Caritas italiana che in queste crepe della nostra convivenza, nei campi dove ci si spezza la schiena per due euro l’ora senza diritti né tutele, è andata a scavare con i suoi volontari ottenendo risultati su cui vale la pena riflettere.
Il 71 per cento dei braccianti immigrati non iscritto all’anagrafe, il 70 per cento senza contratto, il 36 per cento senza acqua potabile, il 30 senza servizi igienici, una stima di diciotto o ventimila accampati negli slum del Sud, l’89 per cento incapace di esprimersi nella nostra lingua: sono solo alcuni dei numeri dolenti raccontati da «Vite sottocosto», il secondo Rapporto Presidio dell’organismo pastorale della Cei. Numeri che, incrociati a quelli dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Cgil (tra i 70 e i 100 mila lavoratori stranieri occupati in forma «para-schiavistica» nel nostro settore agroalimentare), formano il perimetro di una vasta questione nella quale la vergogna del caporalato è soltanto un lato, il più facile da approcciare: prendersela con quattro criminali non costa molto, altro è attaccare i meccanismi della grande distribuzione e della filiera produttiva illegale che, assieme alla cattiva accoglienza, compongono il quadro.
Prigioni di plastica
Un quadro significativo perché esteso da Nord a Sud. I volontari hanno contattato 4.954 lavoratori di 47 nazionalità grazie all’appoggio di tredici diocesi e all’impegno di un gruppo di studiosi coordinato da Piera Campanella: dai 385 immigrati intercettati a Saluzzo, in Piemonte, ai 1.083 di Ragusa in Sicilia, passando per i presidi di Foggia e Caserta, Latina e Cerignola, Melfi e Oppido Mamertina. Un mondo ricurvo sulla terra e su se stesso.
Le serre di Ragusa sono prigioni, «distese prepotenti di plastica», dimensioni di lavoro-dormitorio che inglobano il migrante isolandolo dal mondo. Vincenzo La Monica, uno dei volontari del progetto siciliano, racconta il trucco dell’aeroplanino che vale più d’un trattato di sociologia: siccome i braccianti sono irraggiungibili dentro i poderi dei padroncini e hanno troppa paura per uscirne, «noi li contattiamo piegando i nostri volantini come aeroplani di carta e glieli lanciamo oltre la recinzione». Ulteriore accortezza contro i capoccia: un testo in italiano, «vi diamo vestiti e coperte», e sotto uno in arabo e in romeno, «vi diamo anche assistenza legale». Un compagno di Vincenzo spiega che «qui c’è più che altro l’idea che i lavoratori siano di tua proprietà e quindi hai il possesso delle donne e degli uomini». Il sociologo Leonardo Palmisano racconta questo universo concentrazionario dove spesso si dorme in capannoni accanto al veleno dei bidoni di fertilizzanti: «Casolari, abitazioni diroccate, baracche, rimesse per gli attrezzi (...) delineano una sorta di topografia dello sfruttamento (...). Il datore di lavoro è in grado di assicurarsi oltre alle prestazioni di lavoro agricolo, anche, indirettamente, funzioni di guardiania dei locali aziendali da parte della stessa manodopera». Ultimi contro penultimi, come sempre. La prima immigrazione tunisina, sindacalizzata, combatte una feroce lotta contro i nuovi arrivati, romeni, spesso rom, disposti a diventare in silenzio nuovi servi della gleba, con le famiglie al seguito, i bambini senza scuola abbandonati in baracca tutto il giorno, le ragazze costrette a corvée sessuali. Vincenzo ha ancora negli occhi Laura, 14 anni, che non sa leggere perché deve badare ai quattro fratellini, ma ha imparato a memoria, solo ascoltandola, la sua parte in «Pinocchio e il paese dei farlocchi» che i volontari portano in scena. Il riscatto può stare in un lampo di fantasia.
I caporali al Nord
Ci sono i blitz, la legge del 2016 contro i caporali serve, eccome. Ma il contagio arriva fino all’altro capo d’Italia, con il disastro di Saluzzo, «le condizioni disumane» dei migranti prima accampati nel Foro Boario, poi nell’ex caserma Filippi dentro un progetto di prima accoglienza stagionale (il Pas). Non basta. Giovani maliani e gambiani saliti quassù per la raccolta di pesche e mele continuano a vivere in strada, a svendere il proprio lavoro ai primi caporali che iniziano a vedersi anche quassù. Mancano «politiche nazionali e regionali» per regolare il reclutamento della manodopera e l’incontro tra domanda e offerta in agricoltura. I migranti irregolari sono i più vulnerabili. Oliviero Forti, responsabile dell’ufficio immigrazione Caritas, è convinto che il decreto Salvini appena convertito in legge peggiorerà le cose, «aumenterà l’illegalità». Di sicuro chi è senza permesso di soggiorno è disposto a tutto, la massa che esce in questi giorni dai Cas e dai Cara la ritroveremo sfruttata nelle campagne la prossima estate. La vulnerabilità sale a Nord come la linea della palma di Sciascia. Volendo scovare i famosi «invisibili» che turbano sonni e sondaggi, al governo basterebbe seguirla, o seguire le tappe dei volontari Caritas: ma la nostra agricoltura finirebbe in ginocchio senza schiavi, più facile per tutti lasciare inginocchiati tra le zolle gli schiavi del terzo millennio .

Il Fatto 3.12.18
Il 55% degli elettori Pd vuole l’intesa coi 5 Stelle
Contraddetti i candidati alla segreteria, che restano tutti molto al di sotto del 51%. Rimonta Minniti: a -7 da Zingaretti
Il 55% degli elettori Pd vuole l’intesa coi 5 Stelle
di Marco Franchi


In caso di elezioni anticipate il 55 per cento degli elettori del Pd preferirebbero un accordo con il Movimento 5 stelle, il 9 per cento con Forza Italia e il 3 con la Lega. A rilevarlo è ieri un sondaggio di Antonio Noto per il Quotidiano nazionale. Il giorno prima il Foglio aveva pubblicato, invece, i propositi via sms dei tre principali candidati alla segreteria del Pd – Nicola Zingaretti, Marco Minniti e Maurizio Martina –, tutti coincidenti nel “no al dialogo con i grillini”.
Secondo lo stesso sondaggio, inoltre, il 62 per cento dell’elettorato democratico spera in una ricomposizione della sinistra con il ritorno a casa dei bersaniani di Leu. Un nuovo partito dell’ex premier Matteo Renzi, invece, è stimato al 9 per cento, di cui 5 punti percentuali “rubati” al Pd.
Rispetto alle cosiddette primarie Noto su Qn conferma anche la rilevazione della Izi pubblicata dal Fatto lunedì scorso: Zingaretti è in testa ma, solo col 39%, non abbastanza (serve il 51%) per conquistare la segreteria del Pd ai gazebo senza passare dall’assemblea nazionale del partito. Per Noto, però, l’ex ministro Marco Minniti è più vicino, ad appena 7 punti percentuali (per Izi sette giorni prima era a -14). Troppo poco per far dormire sonni tranquilli al governatore del Lazio. L’ultimo segretario Maurizio Martina, invece, vola alto, con un insperato 29 per cento (per Izi al 18).
Il voto ai gazebo aperto a tutti, quindi, per la prima volta non sarebbe risolutivo per le “primarie” democratiche. Uno stallo politico che potrebbe essere risolto come ai tempi della Prima Repubblica, cioè con un bel “biscotto”? Magari attuato dagli ex ministri dei governi Renzi e Gentiloni, Martina e Minniti, proprio ai danni del favorito Nicola Zingaretti? Chi potrebbe rispondere a questa domanda meglio di Massimiliano Cencelli, classe 1936, testimone di svariate stagioni politiche e, soprattutto, inventore di quel “manuale” divenuto sinonimo dell’arte della spartizione del potere e delle poltrone.
L’applicazione del “Cencelli” ha garantito alle diverse anime correntizie della Democrazia cristiana di convivere per molti anni. “Il biscotto nell’assemblea del Partito democratico? Ma lasciamo stare – spiega Cencelli all’Adnkronos – perché don Sturzo e De Gasperi si rivolterebbero nella tomba. Sarebbe il trionfo dell’antidemocrazia e per un potere che non c’è più. Se il Pd continua così, dopo la delusione Renzi, alle prossime elezioni politiche Salvini si prende il 60 per cento. E comunque sarebbe impensabile che il secondo e il terzo arrivati alle primarie si mettano d’accordo per far fuori il primo: dovrebbero lavorare proprio per evitare uno scenario del genere”. Nel frattempo si definiscono meglio le squadre degli aspiranti segretari. Zingaretti ha con sè il peso di Areadem, la corrente di Dario Franceschini, ha l’endorsement di Paolo Gentiloni, sempre più ostile al renzismo, e l’appoggio di ex ministri come Andrea Orlando e Roberta Pinotti, oltre a quello di Luigi Zanda, ex capogruppo in Senato e uomo capace di tessere tele che potrebbero risultare decisive oltre i gazebo. Minniti ha con sè quella che è stata la prima linea renziana: Lorenzo Guerini, Ettore Rosato e, soprattutto, Luca Lotti, oltre al 60 per cento dei gruppi parlamentari e ben 548 sindaci. Martina, in ticket con Matteo Richetti, schiera una formazione di renziani quasi pentiti: i Giovani turchi di Matteo Orfini, Graziano Delrio, Debora Serracchiani e Tommaso Nannicini. Ma da qui al 3 marzo, data del voto nei gazebo, molto potrebbe cambiare e il manuale Cencelli è sempre consultabile.

Il Fatto 3.12.18
Intervista
“Se cade il governo, la sinistra lavori col M5S al governo Fico”
Gianrico Carofiglio - “L’alleanza con la Lega costa troppo ai grillini Basta dipingerli come fascisti: i progressisti indichino un’alternativa”
di Antonello Caporale


Il profeta che ammonisce senza presentare alternative accettabili, contribuisce ai mali che enuncia, lei ha scritto.
È un pensiero di Margaret Mead e, secondo me, enuncia una grande verità.
Da un po’ di tempo Gianrico Carofiglio giudica invece di attendere l’altrui giudizio. Non c’è giorno che non faccia le pulci a questo governo, di più ancora alle parole che questo governo usa.
Non mi piace l’idea di giudicare. Annoto cercando di usare l’ironia. Mi piace usare Twitter come esercizio di scrittura essenziale.
I social ci fanno scrivere giorno e notte. E fotografare, filmare, odiare, e comunque commentare sempre. Siamo divenuti suoi sudditi. Temo però che ci tolgano il tempo di pensare.
I social canalizzano il flusso delle opinioni che prima era ristretto nella sala di un bar, nel crocchio di una piazza. Non bisogna allarmarsi di questo né tacere degli eccessi che produce. Per quanto mi riguarda cerco di denunciare l’inquinamento del discorso pubblico e la conseguente manipolazione della verità.
Il discorso politico sembra essersi trasferito sul web e tutto assume un aspetto di indistinta comicità. Una battuta bene assestata, questo sazia. Per il resto il nulla.
Forse è un giudizio un po’ duro. Il rischio della battuta per la battuta esiste. Però i social, se usati con equilibrio e consapevolezza, sono uno dei luoghi in cui è possibile esprimere il proprio pensiero, denunciare le torsioni del potere e della sua propaganda.
Ma c’è una speranza, un orizzonte oltre Twitter?
Penso che sia giusto, se dico che questo governo non va, che mi si domandi: cos’hai in mente?
Questo governo non va.
Accadrà che andranno a gambe all’aria e anche in un tempo piuttosto breve.
L’M5s soffre l’alleanza con la Lega. La sua dote elettorale si assottiglia settimana dopo settimana.
Certo. Per ragioni diverse spetta a tutti lo sforzo di immaginare il dopo, senza demagogia e senza astrattezza. Lo dico senza giri di parole: il dopo non possono essere le elezioni anticipate, magari già il prossimo anno. Un evento da cui solo la destra potrebbe avvantaggiarsi. La Lega fa parte di un blocco di destra sociale strutturato, ha radici nel mondo imprenditoriale e conservatore del Nord e governa nell’alleanza tipica: Forza Italia, cioè Berlusconi, e tutti gli altri affluenti. Bisogna prepararsi a ipotesi alternative realistiche e credibili.
Mi pare che la Lega stia benone con i 5 stelle. Gode di una rendita parassitaria, aumenta i consensi invece di pagare pegno. Salvini è ministro della propaganda, ed è un compito che gli viene a meraviglia. I guai sono di Di Maio che si è assunto l’onere di azzerare in cinque mesi la povertà in Italia.
Appunto. Questa alleanza si sta rivelando costosissima per il M5S. Presto dovranno prenderne atto.
E allora il Pd?
Ecco, e allora il Pd, e tutte le altre forze alternative alla destra devono smettere di ritenere i grillini fascisti con cui non si può parlare. È una posizione che sconta un certo tasso di infantilismo politico. Dentro l’M5s c’è di tutto: destra, sinistra, moderazione, estremismo. È un movimento liquido che prende forma dal contenitore che lo ospita. Raccoglie o ha raccolto consensi di tanta gente disillusa dalla sinistra. È un mondo disperso che attende di ritrovarsi e mi sembra ingiustificabile prescindere da questa considerazione.
I 5 stelle sono sabbia, la Lega mattone.
Infatti c’è chi capitalizza il cosiddetto contratto del cambiamento e chi naufraga sotto le onde dell’impreparazione, dell’approssimazione, del velleitarismo. Sono stato contro la logica del pop corn, l’idea di godersi a casa lo spettacolo del disastro. Anche perché il disastro eccolo qua, ma le percentuali di consenso all’opposizione diminuiscono. Perciò lo sforzo deve essere quello di creare la cornice di un governo alternativo.
Come dovrebbe essere questo governo alternativo?
Un esecutivo guidato dal presidente della Camera.
Roberto Fico premier.
Un governo più strutturato, con apporti di competenze esterne e la sinistra, tutto l’arco che compone la sinistra, che accetta di farlo nascere, su un programma serio, a termine.
Il Pd neanche vuole sentirne parlare.
Non c’è dubbio che adesso è così. Ma sono convinto che esista la disponibilità di tanti a valutare questa soluzione. E del resto, nel breve periodo, quale sarebbe l’alternativa?
Ma Renzi sta costruendo la sua formazione politica, un altro mondo rispetto a quello attuale e strizza l’occhio a Forza Italia.
Renzi è un democristiano di sinistra, è sempre stato tale, e se fa chiarezza rende un servizio a se stesso e al Paese. E forse riesce a fermare lo sperpero di quello che sicuramente era un grande talento politico. Lo dice uno che vorrebbe votare un partito più nettamente di sinistra di quanto sia oggi il Pd. In un sistema proporzionale come è tornato a essere il nostro, una seria forza di centro, senza derive populiste e libera dall’eredità berlusconiana, sarebbe un interlocutore fondamentale.
Se la destra sappiamo cos’è, la sinistra dov’è?
La sinistra deve ripartire dal discorso sul metodo. Nella parte finale del mio libro Con i piedi nel fango cerco di spiegare cosa intendo raccontando la storia, apparentemente lontana dai temi della politica, di un funzionario di Save the Children. Jerry Sternin, praticamente da solo, all’inizio degli anni Novanta affrontò e risolse il problema della malnutrizione infantile in Vietnam. Per cambiare il mondo più che cercare di riparare le molte cose che non funzionano o affidarsi agli strumenti della demagogia, è necessario scoprire cosa va bene – in termini di efficacia e di umanità – e cercare di riprodurlo. Le cosiddette buone pratiche, le soluzioni intelligenti che mettono insieme l’efficacia con il senso di umanità e solidarietà. Le soluzioni si trovano, anche nella difficoltà di un tempo così impoverito, impaurito e perciò incattivito. Bisogna avere la voglia di cercarle.

Il Fatto 3.12.18
L’ufficiale del caso Cucchi lascerà presto il Quirinale
Imbarazzo al Colle – Alessandro Casarsa da tre anni guida i Corazzieri del Quirinale
di Antonio Massari e Valeria Pacelli


La vicenda Cucchi imbarazza il Quirinale. E la Presidenza della Repubblica sta valutando di avvicendare l’attuale capo dei Corazzieri, il generale dei carabinieri Alessandro Casarsa. Nel 2009 era comandante del gruppo Roma, dal quale dipendeva Francesco Cavallo, all’epoca capo dell’“ufficio comando” e oggi indagato per falso ideologico e materiale. Secondo l’accusa fu Cavallo, infatti, a modificare due annotazioni di servizio, redatte dalla caserma di Tor Sapienza, sullo stato di salute di Stefano Cucchi.
Nell’inchiesta sui falsi, il pm Giovanni Musarò sta cercando di ricostruire se qualcuno e nel caso chi, nella scala gerarchica, abbia ordinato la modifica delle annotazioni.
Risalire la catena di comando per il magistrato non è semplice: avrebbe potuto chiederlo a Cavallo, se avesse deciso di presentarsi per l’interrogatorio, ma l’ufficiale s’è avvalso della facoltà di non rispondere. L’inchiesta, in questo modo, difficilmente riuscirà a fare passi in avanti. E Casarsa – è bene specificarlo – non è indagato. Fin qui, la cronaca giudiziaria. La conseguenza “politica”, invece, lo vede al centro di una decisione che potrebbe essere prossima.
Il fatto che il nome di Casarsa, sebbene non indagato, sia stato collegato alla vicenda Cucchi, non ha lasciato indifferente il Colle. Per questioni di opportunità e non di responsabilità giudiziaria.
E così la Presidenza della Repubblica sta valutando il da farsi: Casarsa è stato nominato capo dei Corazzieri nell’autunno 2015. Altri comandanti sono andati via anche solo dopo due anni. La scadenza del suo mandato potrebbe quindi considerarsi naturale. D’altronde, il Colle non desidera collegare direttamente la vicenda Cucchi con l’avvicendamento di Casarsa. Dal prossimo anno, tra gennaio e febbraio, potrebbe quindi giungere una promozione e, di conseguenza, un nuovo incarico.
L’ultimo filone di indagine riguarda, come detto, due annotazioni redatte dalla stazione Tor Sapienza a Roma, dove Cucchi passò la notte del 15 ottobre 2009. E per questo sono stati indagati per falso cinque carabinieri, tra cui due ufficiali. A coinvolgere la scala gerarchica è stato il comandante di Tor Sapienza, Massimiliano Colombo, anch’egli sotto inchiesta. Il 18 ottobre Colombo ha raccontato al pm che, la mattina del 27 ottobre 2009, il maggiore Luciano Soligo (ora indagato) “mi contattò telefonicamente e mi disse che le annotazioni redatte da Colicchio e Di Sano non andavano bene perché erano troppo particolareggiate e in esse venivano espresse valutazioni medico legali che non competevano ai carabinieri”. Quel giorno, sempre secondo Colombo, Soligo va a Tor Sapienza: “Mi chiese di trasmettere i file delle due annotazioni al colonnello Cavallo”. E Cavallo – continua Colombo – gli risponde con una email, allegando le annotazioni modificate e segnalandogli: “Meglio così”.
Se fosse vera la versione di Colombo, se davvero Cavallo ha modificato le annotazioni, agì di sua iniziativa o eseguì l’ordine di un superiore? Senza la versione dell’ufficiale, è complicato per gli inquirenti capire se vi sia stato o meno un intervento della scala gerarchica. Per questo non è possibile sapere se, a dare quel presunto ordine, sia stato Casarsa oppure no. Il nome del capo dei Corazzieri è emerso anche per un altro motivo: dopo la morte di Cucchi nel 2009, fu convocata una riunione per ricostruire la vicenda. Oltre a Casarsa, parteciparono l’allora comandante provinciale, generale Vittorio Tomasone, i comandanti delle compagnie Casilina e Montesacro, e anche quelli delle stazioni interessate. I vertici volevano sapere cosa fosse accaduto nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009. Eppure da quell’incontro, che non è mai stato definito come indagine interna, non emerse nulla di quanto, invece, sta emergendo dalle indagini e dal processo ora in corso in Corte d’assise. Cinque carabinieri sono imputati, tre per il pestaggio.

Il Fatto 3.12.18
Rom e accoglienza, rom e razzismo. Ecco un caso che sarebbe meglio non tagliare con l’accetta. Un caso limite e anche emblematico, raccontato dalle cronache locali della Capitale la scorsa settimana


È accaduto a Testaccio, uno degli antichi quartieri rossi di Roma ai tempi del Pci e poi del centrosinistra.
Don Ernesto Grignani, sacerdote mite e generoso, è il parroco di Santa Maria Liberatrice, la chiesa di Testaccio storicamente gestita dai Salesiani (nella foto). Qui le opere di carità, rivolte a italiani e migranti, sono sempre state un tratto distintivo dell’attività pastorale. La storia di don Ernesto comincia quando da lui si presenta un rom che ha bisogno d’aiuto. Il prete gli dà un sostegno economico. Sono soldi che arrivano soprattutto dall’Elemosineria Vaticana, tramite una richiesta ufficiale e la garanzia della diocesi di appartenenza. Di solito la cifra è tra i 150 e i 200 euro.
L’uomo aiutato è d’origine bosniaca. La notizia del contributo si sparge però nella sua comunità e a quel punto Testaccio diventa la meta di una ventina di rom bosniaci. Tutti giovani, con figli. Un pellegrinaggio quotidiano, con stazionamenti di ore davanti agli uffici della parrocchia, sul retro della chiesa. Don Ernesto aiuta anche loro. Nel corso dei mesi le richieste diventato pressanti.
Iniziano le minacce e le intimidazioni, a don Ernesto e ai suoi collaboratori. Il gruppetto diventa branco. Al citofono o per telefono. “Adesso bruciamo tutto”. E così don Ernesto finalmente denuncia tutto. In un anno gli insistenti bosniaci gli sono costati quasi 8mila euro. Al sacerdote non manca la solidarietà politica. Scontata quella di Giorgia Meloni, di Fratelli d’Italia: “Siamo tutti con don Ernesto!”. Anche Nicola Zingaretti, governatore del Lazio nonché aspirante segretario del Pd, manda un messaggio: “Vicino a don Ernesto, alla sua solidarietà e al suo coraggio”. Forse, la formula migliore per definire la storia.
La vicenda supera i confini romani e telefona pure Marco Minniti, l’ex ministro dell’Interno e altro candidato alle primarie dei democratici. Minniti promette persino una visita al parroco, poi annullata. Gli unici a rimanere in silenzio sono i grillini della Capitale.

Repubblica 3.12.18
Fuga da corsie e sale operatorie. La grande crisi dei chirurghi
In 1.500 potrebbero uscire grazie a quota 100. "E i giovani non fanno più questo lavoro"
L’associazione di categoria: "In molte Regioni i concorsi vanno deserti. A Matera da un anno cercano senza successo 14 specialisti"
di Michele Bocci


Lampade e monitor spenti, bisturi e pinze chiusi nei cassetti. Molte sale operatorie italiane in futuro potrebbero fermarsi per carenza di personale. Gli allarmi sugli organici da parte di sindacati e associazioni dei medici hanno sempre una quota di esagerazione, sono un po’ forzate per aumentare la pressione su chi decide delle assunzioni. Questa volta però i numeri sono difficili da prendere alla leggera, in particolare in un settore come quello della chirurgia generale. Con la riforma pensionistica basata sulla quota 100, nel giro di un anno potrebbero andare via circa 1.500 specialisti dei 7- 8 mila che lavorano negli ospedali pubblici. Sarebbe un colpo pesante per la sanità italiana. « Parlo quotidianamente con i miei colleghi e le assicuro che se ci sarà la possibilità di andare via prima, già a 62 anni, in molti ne approfitteranno » , dice Pierluigi Marini, presidente di Acoi, l’associazione dei chirurghi ospedalieri. Sui pensionamenti anticipati si sono espressi anche i sindacati di tutti i camici bianchi, come l’Anaao che ha prospettato un’uscita di circa 25mila medici in tutto.
La situazione della chirurgia generale resterà difficile anche se non passasse la riforma pensionistica. I problemi infatti non sono legati solo alle uscite ma anche agli ingressi. « I giovani non scelgono più il nostro lavoro — spiega Marini — Quest’anno al concorso per le specializzazioni si sono presentati 17mila neolaureati per 7mila posti. Le borse per i chirurghi generali erano 365 e sa quanti hanno inserito come prima scelta la nostra specialità? Appena 90 giovani. È esattamente il contrario di quello che accadeva un tempo, quando era impossibile trovare un posto nelle scuole». Il sistema di reclutamento funziona sulla base di preferenze. I candidati indicano in ordine di gradimento decrescente le specialità dove vorrebbero studiare. La chirurgia generale dunque era in cima alla lista di pochissime persone. Come mai? «Molto spesso i motivi sono simili a quelli che spingono i colleghi più anziani a desiderare di andare in pensione prima. Il mestiere è sempre più duro e sta diventando troppo pericoloso. Il contenzioso medico legale, cioè le cause da parte dei pazienti o delle loro famiglie, è in aumento. Il lavoro quotidiano è molto usurante, con colleghi che si trovano a fare le guardie anche oltre i 60 anni. In più ci sono poche prospettive di carriera».
Le difficoltà dei medici sono lo specchio dei problemi che hanno le Regioni con le assunzioni. Blocchi del turn over, stati di crisi e generale tendenza al risparmio hanno ridotto gli ingressi. Ma a rendere complicato stipulare contratti c’è anche la carenza di posti nelle scuola di specializzazione. «In certi casi non riusciamo più a garantire i livelli assistenziali nelle sale operartorie e nei reparti — dice ancora Marini — Ci sono Regioni dove i concorsi, magari per ospedali in zone disagevoli ma non solo, vanno deserti » . A soffrire sono realtà del sud, come la Calabria o la Basilicata. Da un anno a Matera cercano invano 14 chirurghi generali.
Se a queste difficoltà di ingresso si unisce la riforma della quota 100 la situazione diventa esplosiva. « Non siamo contrari al fatto che chi ha la possibilità di andarsene, grazie alla eventuale nuova legge, lo faccia — spiega Carlo Palermo del principale sindacato dei medici ospedalieri, l’Anaao — Se un collega vuole lasciare per motivi personali o professionali va bene. Il punto è che il sistema sanitario deve rispondere, avviando subito un piano di assunzioni ». Giusto, ma se non ci sono medici disponibili? Vorrebbero aumentare la platea dei papabili all’assunzione alcuni emendamenti di maggioranza e relatori alla manovra. Prevedono tra l’altro la possibilità per le Regioni di prendere medici di specialità "affini" se non ne trovano di quella che gli interessa oppure di arruolare, a tempo determinato, chi non è ancora specializzato. « Noi da anni chiediamo che si assuma chi è all’ultimo anno di specializzazione », sottolinea Palermo. Potrebbe anche non bastare a tenere accese le luci delle sale operatorie.

Repubblica 3.12.18
Intervista a Christophe Guilluy
"Negli Scontri di Parigi è nata la secessione sociale"
di Anais Ginori


PARIGI Il geografo Christophe Guilluy ha inventato quattro anni fa il termine "France Périphérique" mappando sul territorio le classi popolari escluse dalla globalizzazione. «Per molto tempo non sono stato ascoltato», ricorda Guilluy, citato oggi come uno dei primi intellettuali ad aver avviato una riflessione sul divorzio tra popolo ed élite. I suoi libri — l’ultimo "No Society" che sarà tradotto in Italia — sono al centro dell’analisi sui gilet gialli, la grande rivolta della Francia Periferica. «È in corso una secessione interna all’Occidente», spiega Guilluy.
La Francia è l’epicentro di questa crisi?
«Da anni spiego che c’è un elefante malato in mezzo al negozio di porcellana. Molti rispondevano: ma no, è solo una tazza scheggiata. E invece l’elefante eccolo qui: è la classe media. Sono agricoltori e operai, famiglie delle zone semiurbane, piccoli commercianti e imprenditori che non arrivano a fine mese. Dopo Brexit, elezione di Trump, cambio di governo in Italia, tutti vedono il problema ma siamo ormai arrivati a un punto di insurrezione».
Quando è cominciata la "secessione" tra popolo ed élite?
«Io prendo come inizio la famosa frase di Margaret Thatcher del 1987: "There is no society". Il suo messaggio è stato ripreso non solo dai conservatori ma dall’insieme delle classi dominanti occidentali. Tutte hanno abbandonato la nozione di bene comune in favore della privatizzazione dello Stato.
Siamo così entrati in quella che definisco "a-società", con la crisi della rappresentanza politica, l’atomizzazione dei movimenti sociali, l’arroccamento delle borghesie, l’indebolimento del welfare».
Tutte le statistiche dimostrano che la Francia è oggi più ricca di qualche decennio fa. Non è un paradosso?
«È un andamento che giova solo al ceto medio alto: sono i vincenti della globalizzazione ormai asserragliati tra Parigi e le altre grandi metropoli. Il modello economico non sa integrare la maggioranza dei lavoratori».
C’è una specificità francese?
«Esiste una Francia periferica come esiste un’Italia periferica, tra Mezzogiorno e altre zone remote.
Mentre la sinistra pensa sia solo una questione sociale, la destra riduce tutto a una crisi identitaria.
Sbagliano entrambi. E a complicare le cose in Francia c’è un sistema di fabbricazione delle élite che produce un pensiero conformista».
Dove porterà questa crisi?
«È solo l’inizio. La buona notizia è che ormai i perdenti non sono più invisibili. Quel che succede in Francia ne è una straordinaria dimostrazione».
Ovvero?
«Non è un caso che il movimento abbia preso come simbolo il gilet giallo usato dagli automobilisti per essere avvistati sulle strade. È un modo rudimentale di combattere contro l’invisibilità sociale. I gilet gialli hanno già vinto la loro battaglia culturale come direbbe Gramsci. Finalmente si parla di loro».
L’unico collante della protesta è l’opposizione a Macron?
«Molti hanno pensato che potesse affrancarsi dall’ideologia dominante. Invece Macron si è allineato, come già avevano fatto Hollande, Sarkozy. Adesso l’unica soluzione per il presidente è prendere sul serio le rivendicazioni del popolo».
Alla fine sono i populisti che cavalcano la rabbia e ci guadagnano.
«I populisti si adattano alla domanda politica. Un buon esempio è Salvini, che viene dalla sinistra, è stato neoliberista, secessionista e oggi invece è in un governo che fa votare il reddito di cittadinanza e si fa applaudire nel sud Italia. Nel medio periodo però il voto populista non risolve nulla».
Perché?
«Le classi popolari non vogliono mendicare, non si accontentano di un nuovo sussidio o del reddito di cittadinanza. Quel che vogliono è poter vivere dignitosamente con un lavoro e una giusta remunerazione».
La Francia Periferica è orfana della sinistra?
«La gauche ha compiuto una doppia cesura: con la sua base popolare e con la sua visione teorica. Il partito comunista è stato forte perché rappresentava il proletariato, ma aveva una classe intellettuale capace di elaborare strumenti di trasformazione sociale. Solo ristabilendo un legame di fiducia tra l’alto e il basso si potranno ricostruire le società occidentali».

Repubblica 3.12.18
L’incubo giallo di Macron
di Bernardo Valli


La collera è il sentimento che da giorni prevale in Francia. Le spettacolari colonne di fumo nel centro di Parigi, attorno all’Arco di Trionfo cancellato per ore da una fitta nebbia, i falò delle automobili nei boulevards, le vetrine frantumate e i negozi saccheggiati nella capitale, ma anche in alcuni centri di provincia, fanno pensare a una jacquerie, a una di quelle rivolte contadine che in secoli lontani investivano il paese. Ma, con quel che accade nella Francia moderna, industriale e democratica, il paragone non regge. È allora l’agitata vigilia di una rivoluzione? Non è neppure questo perché i gilets jaunes non sembrano voler conquistare il potere. Non è emerso finora un vero capo, né un’organizzazione a livello nazionale. Con il tempo qualche rappresentante del movimento informe finirà con l’emergere. Ma per ora Emmanuel Macron, bersaglio principale dei manifestanti che chiedono le sue dimissioni, ha ordinato al primo ministro di convocare e dialogare con i capi dei partiti politici. I quali non hanno alcuna presa sui gilets jaunes.
Chi si aggirava nella Parigi in rivolta per cercare di leggere la natura della collera collettiva, si imbatteva subito in un enigma: in una situazione politicamente non facile da decifrare. I militanti di estrema sinistra e di estrema destra, i più violenti, che appiccavano il fuoco alle automobili, sfondavano le vetrine e lanciavano sanpietrini sulla polizia, si muovevano fianco a fianco, erano antagonisti con un unico avversario. C’è stata qualche eccezione. Per fortuna. Affiliati di gruppuscoli antisemiti, filo nazisti, con i loro emblemi, sono stati allontanati con la forza. In generale i gilets jaunes pacifici assistevano alle manifestazioni di violenza a volte perplessi, in alcuni casi deplorandoli, ma in generale, pur non appartenendo a partiti estremisti, o essendo addirittura senza partito, erano spettatori in sostanza consenzienti. Le bande violente, con le maschere antigas, i piedi di porco per divellere i sanpietrini e le mazze per infrangere le vetrine, erano guardati come truppe d’assalto. La loro azione dava forza all’insurrezione.
È stata chiamata una strana " convergenza della sommossa". Per spiegarla sono stati elencati gli obiettivi comuni: Emmanuel Macron e il suo governo, le sue riforme e la filosofia politica ed economica che le ispira. La protesta contro il rialzo del carburante ha certamente colpito la Francia profonda, quella che usa i mezzi di trasporto personali per raggiungere il posto di lavoro, non essendoci trasporti pubblici. Quella è la Francia dei bassi salari che ha visto la Francia privilegiata uscire indenne o avvantaggiata dalla crisi. Le riforme promosse da Macron hanno attizzato la collera. L’ aumento del carburante è arrivato come uno schiaffo: dopo la soppressione dell’imposta sulle grandi fortune (la patrimoniale). L’ aumento è stato giustificato con l’emergenza ecologica dei prossimi decenni. I manifestanti hanno risposto che i loro problemi sono nel presente non nel futuro. L’ emergenza è oggi, non domani. Le rivendicazioni si sono allargate. Non riguardano più soltanto il prezzo del carburante. Il cui rincaro ha fatto da detonatore.
Un collettivo dei gilets jaunes chiede l’apertura di stati generali della fiscalità; una conferenza sociale nazionale; un dibattito regionale sui problemi della mobilità e dell’organizzazione del territorio; l’adozione dello scrutinio proporzionale per le elezioni legislative, affinché la popolazione sia veramente rappresentata in Parlamento. A queste richieste si aggiunge un aumento dello smig (il salario minimo garantito) e un miglioramento dell’assistenza sanitaria che ha subito tagli di recente. Sono aspirazioni che si raccoglievano dalla viva voce dei manifestanti. Il cui peso sul piano nazionale sarebbe relativo se ci si limitasse a quelli che le prefetture hanno contato per le strade. I ripetuti sondaggi hanno rilevato che tre francesi su quattro, il 75% e più, approvano l’azione dei gilets jaunes.
Sbarcando a Parigi ieri mattina, proveniente dall’Argentina dove aveva partecipato al G20, Emmanuel Macron ha avuto l’impressione di arrivare in una capitale ostile? Ha trovato il quartiere non distante dal palazzo dell’Eliseo ancora segnato dai violenti disordini del giorno precedente. Ha dedicato un minuto di silenzio al milite ignoto, sepolto sotto l’Arco di Trionfo, sfregiato dalle scritte dei manifestanti. Neppure un mese fa, l’ 11 novembre, circondato da capi di Stato e di governo, celebrava in quello stesso posto la vittoria nella Grande guerra. La Francia ha nel frattempo cambiato umore. Il presidente ha raggiunto la non lontana avenue Kléber, teatro dei più accesi scontri di sabato. Non a caso ha dedicato le sue prime strette di mano ai gendarmi allineati davanti alle vetrine infrante dei negozi. Gendarmi spossati e demoralizzati dalle lunghe ore di servizio e dal confronto con i giovani violenti, che non risparmiavano pietre divelte dal selciato e insulti. I sindacati della polizia hanno espresso con veemenza la stanchezza dei reparti impegnati negli ultimi giorni. Altre fonti non hanno risparmiato le critiche alla tattica adottata per proteggere il centro di Parigi. Non a caso Emmanuel Macron ha stretto a lungo le mani dei gendarmi e li ha interrogati e rincuorati. Poi ha raggiunto l’Eliseo dove ha riunito alcuni ministri. Non quello della difesa, presenza necessaria nel caso si intendesse dichiarare lo stato d’emergenza.
Nonostante i loro sforzi di inserirsi nel movimento di protesta, i partiti dell’opposizione sono stati tenuti ai margini. I gilets jaunes non li hanno voluti come alleati. Né hanno accettato i propri rappresentanti nelle loro file. Ma l’estrema destra, il Rassemblement National ( ex Front National), e l’estrema sinistra, il partito degli Insoumis, vorrebbero un voto di censura al governo, all’Assemblea nazionale. E mettono in discussione la stessa presidenza della Repubblica. La crisi francese fragilizza Emmanuel Macron come campione degli europeisti nelle elezioni di primavera per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo. Come Angela Merkel è politicamente in difficoltà a Berlino, Macron vive tempi agitati a Parigi.

Corriere 3.12.18
Questione russa
L’Europa distratta su Kiev
di Paolo Mieli


Può darsi che Donald Trump abbia rifiutato l’incontro con Vladimir Putin al summit argentino del G20 perché il suo ex avvocato personale Michael Cohen minaccia rivelazioni sul Russiagate al procuratore Robert Mueller e in questo contesto il presidente americano non voleva mostrarsi sorridente al fianco dell’autocrate russo (salvo poi concedersi in extremis per qualche minuto). Però in quel modo almeno ha attirato l’attenzione del mondo intero sul clamoroso sequestro di tre navi della Marina di Kiev da parte dei russi e sull’incredibile arresto di ventiquattro marinai che erano colpevoli soltanto di trovarsi su quelle imbarcazioni entrate nel mare di Azov. Poco importa poi se il presidente ucraino Petro Poroshenko ha approfittato dell’incidente per varare misure abnormi quali la proclamazione della legge marziale o la chiusura ai russi delle frontiere del suo Paese (prima vittima un ballerino del Bolshoi, Andrei Merkuriev). L’Ucraina il prossimo 31 marzo dovrà affrontare una delicata tornata elettorale e Poroshenko è dato in svantaggio: ovvio che cerchi di sfruttare al meglio l’occasione offertagli da Putin per un richiamo al senso dell’onore dei suoi compatrioti. Quel che è davvero grave è che Putin prosegua nella politica inaugurata con l’annessione della Crimea (2014), proseguita con la guerra nel Donbass a cui si è aggiunta la costruzione di un ponte sullo stretto di Kerch destinata anch’essa ad agevolare l’annessione delle terre e dei mari ucraini.
Poroshenko non è il personaggio ideale per scaldare i cuori degli occidentali, neanche quelli più maldisposti nei confronti di Putin. Non è né liberale, né lungimirante. Nel maggio 2016 il Comitato per la sicurezza ucraina, massimo organo investigativo di Kiev, decise, per conto del presidente, di indagare quasi trecento giornalisti (293 per l’esattezza) che nei due anni precedenti avevano firmato reportage dal Donbass. Li si accusava di «collaborazione con i terroristi secessionisti». Il loro elenco, con relativi numeri di telefono e indirizzi, venne pubblicato sul sito del consigliere personale del ministro dell’Interno esponendoli a violenze. E fu uno scandalo. In quello stesso 2016 l’Ucraina mise al bando per cinque anni l’allora ottantacinquenne Michail Gorbaciov (grazie al quale Kiev aveva ottenuto l’indipendenza) dopo che in un’intervista al Sunday Times l’ultimo capo dell’Urss aveva dichiarato che se fosse stato al posto di Putin si sarebbe comportato come lui. E anche in questi giorni il presidente ucraino ha esagerato chiedendo alle navi della Nato di andare in suo soccorso con il rischio di far esplodere una guerra con Mosca.
Ma il conflitto tra Russia e Ucraina è fatto anche di esagerazioni verbali e di piccolezze. La cantante ucraina Susana Jamaladinova (in arte Jamala) vinse nel 2016, alla Globe Arena di Stoccolma, l’«Eurovision song contest» con la canzone «1944» dedicata alla deportazione staliniana dei duecentocinquantamila tatari musulmani di Crimea. Sconfitto, nonostante fosse risultato vincente al televoto, il cantante russo Sergey Lazarev, elegantemente si complimentò con la vincitrice. Invece la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ne fece un caso politico e dichiarò guerra a Jamala. Su tutto il territorio russo.
Da parte sua l’Europa ha approfittato di queste esagerazioni e scaramucce per far apparire quella ucraina come una questione che si faceva di giorno in giorno «minore». Tanto sapeva che Poroshenko sarebbe stato costretto in ogni caso a ringraziarla come ha fatto nell’intervista a Lorenzo Cremonesi pubblicata sabato scorso su questo giornale. Anche se, poche righe dopo quello che ha definito il proprio «apprezzamento», lo stesso Poroshenko si è contraddetto accusando gli occidentali di restarsene «in silenzio» al cospetto dei comportamenti sempre più aggressivi di Puti n . Comportamenti di fronte ai quali prese di posizione come quella della Ue («L’Unione continua a seguire da vicino la situazione ed è determinata ad agire in modo appropriato in accordo con i partner») sembrano davvero straordinariamente reticenti.
L’Unione appare animata — quantomeno in alcune sue parti tra cui si segnala l’Italia gialloverde — dall’unico desiderio di ritirare le sanzioni alla Russia. Del resto la Ue è stata fin dall’inizio assai poco generosa nei confronti dell’Ucraina. George Soros notava nel 2015 che l’ammontare del denaro destinato alla Grecia era all’epoca almeno dieci volte più grande di quello speso per l’Ucraina, «un Paese che non chiede altro che di avanzare nelle riforme». Un paradosso: c’era un Paese che voleva essere un alleato dell’Europa e veniva trascurato; e ce n’era un altro che si comportava da «suddito riluttante dell’Europa» che, «detto con franchezza, riceveva decisamente troppo». La nuova Ucraina nata con la rivoluzione di piazza Maidan, proseguiva Soros, «sarebbe una grande risorsa per l’Europa, investirvi varrebbe veramente la pena». Ma ciò non veniva capito e «questa totale incomprensione metteva a rischio la sopravvivenza stessa dell’Ucraina, il migliore alleato dell’Europa, di fronte alla pressione della Russia putiniana».
Qualche tempo dopo, un pensatore liberale, Timothy Garton Ash scrisse una «lettera aperta agli europei» in cui li invitava ad essere meno esitanti nei confronti delle rivoluzioni democratiche. «Fatevi un esame di coscienza e cercate di non essere affetti da qualcuno dei radicati pregiudizi che gli europei occidentali nutrono verso l’altra metà del continente, etichettato per secoli come remoto, esotico, misterioso, tenebroso e così via», li (ci) esortava Garton Ash. Per poi domandare: «Siete restii ad appoggiare il movimento arancione solo perché è sostenuto dagli americani?». Era lui stesso il primo ad ammettere che «ad una domanda posta in termini così brutali» la maggioranza degli interlocutori avrebbe risposto di no. Ma, osservava, la reazione istintiva dei simpatizzanti di sinistra o degli eurogollisti — all’insegna del «se gli americani la sostengono significa che c’è qualcosa che non va» — è «stupida». E allora? Se non ci va che gli americani prendano le redini della situazione in Ucraina «perché», chiedeva Garton Ash, «non lo facciamo noi?».
Noi europei? Figuriamoci. Da allora non abbiamo fatto che voltare la testa dall’altra parte e discettare su quanto le sanzioni alla Russia fossero «inutili» o addirittura «controproducenti». E adesso questo genere di discettazioni il governo italiano le fa a voce alta, vantandosi per di più di aver dato un apporto decisivo all’attenuazione della presa di posizione ufficiale della Ue. Con ciò regalando a Trump l’opportunità di essere l’unico a levare la voce e compiere un simbolico gesto di denuncia della grave violazione del diritto compiuta da Putin .

La Stampa 3.12.18
In Andalusia vola la destra nazionalista
Giù i socialisti
di Francesco Olivo


Per anni si è detto che la Spagna era immune dall’irruzione dell’estrema destra, dilagante in tutta Europa. Una realtà che trova le sue prime smentite: in Andalusia, la Comunità autonoma più popolata del Paese, bastione della sinistra, il partito nazionalista Vox, è entrato nel parlamento regionale per la prima volta con un risultato intorno all’11%, l’equivalente di 12 seggi. Un boom atteso, anche se non in queste proporzioni, per un movimento che non ha mai avuto rappresentanti nelle assemblee locali, né nazionali.
Nella terra governata da 36 anni dalla sinistra, il Psoe segna una sconfitta clamorosa (14 seggi persi), pur restando il primo partito della regione con il 28%. Per la presidente uscente Susana Díaz, sfidante di Pedro Sánchez dentro il partito, sembra impossibile restare al potere, anche perché Podemos, che perde tre seggi ne chiede la testa. Nella notte si contano le schede, e si profila una notizia storica: nel granaio di voti socialista ora può governare la destra.
L’irruzione di Vox sconvolge anche il fronte conservatore: il Partito Popolare perde voti e finisce appena sopra al 20%, perdendo 7 seggi, cresce Ciudadanos, che vede aumentare enormemente la propria rappresentanza parlamentare (da 9 a 21 seggi). Ora per la destra si apre il dilemma: si metteranno d’accordo i conservatori con gli estremisti? In campagna elettorale nessuno lo ha escluso e da oggi partiranno le trattative.
Ma al di là delle sorti dell’Andalusia, il voto di ieri è un serio campanello d’allarme per Pedro Sanchez. Il leader socialista governa da sei mesi senza una vera maggioranza in parlamento e il suo primo banco di prova elettorale non è certo un successo.
Verso elezioni anticipate
Ora per l’esecutivo di sinistra si apre uno scenario complicato: impossibile portare avanti una finanziaria (per giunta criticata da Bruxelles) e una debolezza parlamentare sempre più evidente, con la sfida indipendentista in Catalogna sempre viva. La situazione, insomma, potrebbe portare dritti verso elezioni politiche anticipate. Quando? È difficile trovare una data per l’intasamento di appuntamenti: il 26 maggio si vota, nello stesso giorno, per Europee, regionali (in molte comunità autonome) e comunali. Aggiungere anche le politiche per un mega election day sembra una soluzione complessa. Così a Madrid nessuno esclude che si possa andare alle urne prima di maggio. Con l’estrema destra che, per la prima volta dalla morte di Franco, vorrà dire la sua.

Corriere 3.12.18
Spagna, choc andaluso
Crollano i socialisti, vola la destra di Vox
Colpo al premier Sánchez: rischio di elezioni anticipate
di Andrea Nicastro


Mancava nel panorama politico iberico un movimento anti europeo e sovranista, in stile Salvini, Orban o Le Pen. Ora c’è. L’eccezione spagnola è finita ieri nelle urne di quella che una volta era la rossa Andalusia e che oggi ha un Parlamento dove le destre (al 98% dello scrutinio) hanno la maggioranza. Il nuovo partito Vox ha conquistato i primi 12 seggi della sua storia e con l’11%, nell’ambiente meno favorevole di Spagna, si prepara alla grande sfida di maggio per il Parlamento europeo e moltissime amministrazioni locali.
Restano prima forza i socialisti del presidente del governo spagnolo Pedro Sanchez con il 28% dei voti, ma è un primato inutile. Perdono il 7% e difficilmente troveranno un alleato per continuare a guidare l’Andalusia. Il 2 dicembre 2018 marca la fine di un ciclo storico di 36 anni di governo regionale e potrebbe coinvolgere anche l’esecutivo di Madrid costringendolo a elezioni nazionali anticipate.
Dieci anni fa la Spagna era ammirata in Italia per il suo bipartitismo garante di governabilità. Con le stesse regole, il regno si ritrova con cinque formazioni litigiose che vanno dall’estrema sinistra di Podemos all’estrema destra di Vox. Protagonista del terremoto sistemico è Santiago Abascal, 42 anni, nonno franchista, padre post franchista, perfetta incarnazione machista del progetto Vox. Abascal è sociologo e fa politica da sempre. Si è fatto le ossa nella gioventù del Pp a Bilbao, una città difficile per uno che sente nelle vene l’«identità spagnola». La sua valvola di sfogo era la tessera numero 13.886 della Società nazionale di ornitologia. Osservare gli uccelli però non l’ha reso un ecologista: nelle valli più selvagge, Abascal sente vivo lo spirito della Reconquista spagnola contro la dominazione araba. Non a caso ha cominciato la campagna elettorale in sella, come un cavaliere medievale, tutto patria, famiglia e tradizioni.
Il suo successo più clamoroso è maturato nelle infinite serre della provincia di Almeria. Le nuove tecnologie di coltivazione hanno trasformato agricoltori poveri delle cooperative rosse in piccoli imprenditori che esportano verdura in tutta Europa. Assieme al benessere però è arrivata anche la svolta a destra. Che poi Almeria sia anche la provincia spagnola con la maggior presenza di migranti ha spianato la strada alla destra senza complessi di Vox.
Si salva il nuovo leader dei Popolari Pablo Casado perché il suo Pp resta seconda forza nonostante l’emorragia del 6% di voti che lo ferma al 20%. Il Pp può comunque aspirare a governare la Comunità come garante di tutte le destre.
Raddoppia i consensi il liberal-nazionalista Albert Rivera e fino al 18%. Ciudadanos conferma così la sua crescita esponenziale che in così pochi anni ha del clamoroso. Avrebbe potuto esserci il sorpasso sul Pp, ma fa nulla, ci saranno altre occasioni. Magari proprio in Andalusia se Ciudadanos decidesse di non entrare in una giunta a guida Pp con l’appoggio di Vox.
Sale un poco la sinistra-sinistra (dal 14 al 16%) che si ispira agli anti sistema di Podemos che qui si chiama Adelante Andalucia, ma non basta a compensare il calo del Psoe. L’Andalucia ha girato a destra. Ora tocca alla Spagna.

La Stampa 3.12.18
Abu Mazen
“Gli Stati Uniti di Trump non bastano più per raggiungere la pace”
intervista di Maurizio Molinari


«Gli Stati Uniti di Trump non possono essere gli unici mediatori in Medio Oriente». Il presidente palestinese Mahmoud Abbas è appena atterrato a Roma quando spiega a «La Stampa» l’intenzione di recapitare ai leader italiani e a Papa Francesco un messaggio assai esplicito: «L’America non basta più per raggiungere la pace». Abbas afferma di credere nel dialogo diretto con Israele, dice di aver appena tentato il canale dell’Oman e guarda ad Europa-Russia perché considera l’amministrazione Trump «un ostacolo». Da quando Yasser Arafat siglò gli accordi di Oslo a Washington nel settembre del 1993 Abbas, detto Abu Mazen, è il primo leader palestinese ad assumere una posizione così negativa nei confronti della Casa Bianca. Arrivato a 83 anni, afflitto da gravi problemi di salute e con la successione ancora tutta da decidere, Abbas gioca quella che può essere la sua ultima scommessa politica nel cambiare la dinamica del negoziato di pace: riducendo il ruolo Usa.
Tanto lei che il premier israeliano Netanyahu siete andati in Oman. È il tentativo di far ripartire il negoziato diretto?
«La mia visita in Oman è nata sulla base del legame storico fra i nostri popoli. L’Oman d’altra parte ha mostrato saggezza in passato nell’ospitare i negoziati riservati fra l’Iran e il gruppo 5+1 sul programma nucleare».
Dunque è vero che state tentando la strada delle trattative in Oman. Cosa ha detto al sultano Qaboos?
«Ho spiegato a lui e ai suoi consiglieri la posizione palestinese e la volontà di negoziati diretti con Israele per arrivare alla fine dell’occupazione iniziata nel 1967 di Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est, e Striscia di Gaza. E per risolvere tutte le questioni inerenti allo status finale: Gerusalemme, rifugiati, insediamenti, sicurezza, acque, prigionieri. Questi negoziati devono basarsi sulla soluzione dei due Stati lungo i confini del 1967, sulle risoluzioni Onu e sull’iniziativa di pace araba del 2002. Purtroppo il governo israeliano non ha ancora dimostrato la volontà di sfruttare questa occasione».
Diverse monarchie del Golfo si stanno avvicinando, nelle maniere più diverse, a Israele. In questo scenario c’è un’opportunità per rompere lo stallo con il premier Netanyahu?
«Per quanto ci riguarda Israele è ancora una potenza occupante in Palestina, inclusi i Luoghi Santi di Gerusalemme Est, e nessun leader arabo normalizzerà le relazioni con loro fino a quando i nostri diritti non saranno rispettati, inclusa Gerusalemme Est nostra capitale. Ovunque gli israeliani andranno e qualsiasi cosa faranno non avranno successo se non faranno fronte a tali obblighi».
Ma l’iniziativa araba promossa dai sauditi nel 2002 per una pace regionale resta sul tavolo?
«Non ci sarà nessuna pace regionale possibile senza fine dell’occupazione israeliana, sulla base dell’iniziativa del 2002 che resta sul tavolo come comune posizione araba sulla normalizzazione dei rapporti con Israele».
C’è la possibilità che altri Stati arabi, come l’Arabia Saudita, il Qatar o gli Emirati, possano affiancarsi alla Giordania nel Waqf che gestisce la Spianata delle Moschee nella città vecchia di Gerusalemme?
«Siamo d’accordo con il re Abdullah II di Giordania sulla continuazione del loro ruolo di custodi del Waqf. Gerusalemme Est è una città occupata dal 1967 ed è la capitale dello Stato di Palestina. Gerusalemme deve rimanere una città aperta a tutti i visitatori e fedeli delle religioni monoteistiche: islam, cristianesimo ed ebraismo. Ribadisco che abbiamo un grande rispetto della fede ebraica e non abbiamo problemi con l’ebraismo, ma con Israele che occupa la nostra terra. Vogliamo vivere con gli israeliani e costruire ponti di pace con loro ma devono consentirci di avere libertà e indipendenza. Vi sono nel mondo milioni di palestinesi, discendenti dei cananei, che sognano di avere il loro Stato nella terra degli antenati».
L’amministrazione Trump potrebbe annunciare il suo piano di pace a inizio anno. Cosa vi aspettate da Washington?
«Nel 2017 ho incontrato il presidente Trump quattro volte, si è offerto di mediare fra noi e gli israeliani ma sfortunatamente ha cambiato drasticamente la sua posizione quando ha riconosciuto Gerusalemme unificata come capitale di Israele e vi ha spostato l’ambasciata Usa, affermando che da quel momento Gerusalemme era fuori dal tavolo negoziale. Poi l’amministrazione Usa ha adottato altre misure punitive contro i palestinesi, incluso il taglio di aiuti al governo e all’agenzia Unrwa, e ha chiuso l’ufficio dell’Olp a Washington. Tutto ciò rende impossibile per gli Stati Uniti essere l’unico mediatore».
Dunque non siete interessati al piano di pace di Trump?
«Non avremo nulla a che fare con questa amministrazione Usa e non accetteremo da loro nessun piano di pace che viola la legge internazionale e non rispetta il ruolo di mediatore».
Ma lei pensa davvero che in Medio Oriente si può arrivare alla pace senza il contributo degli Stati Uniti?
«Gli Stati Uniti, ripeto, non possono essere più l’unico mediatore. Lo scorso febbraio ho suggerito al Consiglio di Sicurezza dell’Onu che l’unica maniera per fare dei progressi è creare un meccanismo che includa tutti i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, del Quartetto ed altri. Anche l’Europa può avere un ruolo. E inoltre restiamo aperti a negoziati diretti: ho accettato più volte incontri con il premier Netanyahu, anche a Mosca su invito del presidente Putin, ma lui non si è mai presentato».
Che cosa si aspetta da questo viaggio in Italia, cosa chiederà ai leader del governo?
«Siamo grati all’Italia per il sostegno, politico ed economico, al popolo palestinese, e per il sostegno alle posizioni Ue. Palestinesi ed italiani hanno molti valori comuni: combattiamo terrorismo ed estremismo. E ci coordiniamo a più livelli su cultura, economia e politica. Vogliamo per l’Italia un ruolo maggiore nel processo di pace nella regione. Aspettiamo il giorno in cui ci riconoscerete come avete fatto per lo Stato di Israele».
Secondo indiscrezioni trapelate da Amman, l’amministrazione Trump sarebbe a favore di una confederazione fra Giordania, Israele e Palestina. Come vede tale scenario?
«Una confederazione si può formare solo fra Stati indipendenti e sovrani. Dunque la Palestina dovrebbe diventarlo per poter sottoscrivere un tale accordo».
L’ex Segretario di Stato Usa John Kerry afferma che l’ultimo tentativo di accordo fallì a causa di opposti veti: quello di Israele sullo smantellamento totale degli insediamenti in Cisgiordania e il vostro sulla rinuncia al diritto al ritorno dei profughi del 1948. A quali condizioni siete pronti a negoziare sul vostro veto?
«Kerry ha fatto del suo meglio per portare le parti a negoziare ma Israele non ha mai accettato la soluzione dei due Stati come base delle trattative. Il diritto al ritorno dei profughi non è mai stato un ostacolo: deve essere sul tavolo per trovare un’intesa basata sulla risoluzione Onu 194, come previsto dall’iniziativa araba del 2002, e ci sono molte soluzioni creative per renderla accettabile a entrambe le parti».
Hamas ha una nuova leadership a Gaza. Li considerate dei partner o dei rivali?
«Hamas ha un programma politico diverso, li abbiamo invitati ad accettare quello dell’Olp. L’Egitto sta tentando di far applicare le intese dell’ottobre 2017 sulla riconciliazione fra noi, per consentirci di assumere le responsabilità a Gaza come già facciamo in Cisgiordania, e tenere elezioni, ma Hamas non ha ancora accettato».
L’Olp ha deciso di ritirare il riconoscimento di Israele, ritiene davvero possibile rinunciare al negoziato per tornare alla lotta armata?
«Solo con mezzi politici, diplomatici e pacifici possiamo raggiungere l’obiettivo di libertà e indipendenza. Abbiamo riconosciuto lo Stato di Israele nel 1993, rispettato tutti gli accordi, costruito le nostre istituzioni basandoci sullo Stato di Diritto, combattiamo il terrorismo e restiamo sempre pronti a negoziati. Ma in cambio Israele si è trasformato in uno Stato-apartheid continuando l’occupazione della Palestina, violando gli accordi firmati e le leggi internazionali con le attività degli insediamenti, ed emanando la legge razzista sull’identità dello Stato, rifiutando di riconoscere il nostro Stato e il nostro diritto all’autodeterminazione. Insomma, noi riconosciamo ancora Israele e manteniamo una stretta cooperazione nella sicurezza ma gli chiediamo in cambio di rispettare le intese».
Come presidente palestinese, arrivato a 83 anni di età, che tipo di coesistenza vuole costruire con gli israeliani?
«Non ho mai sospeso il dialogo con tutti gli israeliani e ogni settimana continuo a riceverli. L’unico futuro per i due Stati è vivere in pace e sicurezza, da buoni vicini. La nostra concessione nel 1988 fu di accettare che Israele prendeva il 78% della Palestina storica e noi avremmo creato il nostro Stato sul restante 22%, ovvero Cisgiordania, Gerusalemme Est e Striscia di Gaza occupati nel 1967. Dunque mi chiedo cosa altro vuole Israele».
Le capita mai di pensare a chi potrebbe guidare il governo palestinese dopo di lei, che tipo di successore vorrebbe?
«Un anno fa abbiamo riunito il nostro Consiglio nazionale, eletto i nuovi membri e il comitato esecutivo dell’Olp. Il Fatah, che è il partito più grande, ha fatto lo stesso eleggendo i suoi leader. Dunque, abbiamo le istituzioni per guidare la nazione».
Olp, Fatah e governo palestinese sono espressioni nel nazionalismo arabo che attraversa una fase di declino a causa dell’affermazione dell’Islam politico. Come vede lo scontro fra queste due forze all’interno di più Stati arabi?
«Tutti i palestinesi, uomini o donne, non importa di quale colore o razza, cristiani, musulmani o samaritani, sono uguali davanti alla legge. E vogliamo che ciò continui. Siamo contro l’Islam politico. Lavoriamo duro per combattere il terrorismo nella nostra regione e cooperiamo con molti Stati a tal fine».

Repubblica 3.12.18
Israele
Frode e corruzione, guai per Netanyahu
di Pietro Del Re


Nuova svolta nelle vicende giudiziarie in cui sono implicati il premier israeliano Benjamin Netanyahu e sua moglie Sara. La polizia di Gerusalemme ha annunciato ieri mattina di aver raccomandato l’incriminazione della coppia per frode e corruzione. Sarà il procuratore generale a decidere se incriminare o meno i due sospettatati di aver tentato di ottenere una copertura favorevole dal sito di notizie Walla in cambio di favori del governo che potrebbero aver fruttato centinaia di milioni di dollari a Bezeq, il primo gruppo israeliano di telecomunicazioni, proprietario del giornale online. Immediata la replica del premier che ha respinto i risultati dell’inchiesta della polizia, sostenendo "l’illegalità" di questo procedimento. «Sono certo che in questo caso le autorità competenti, dopo aver esaminato la questione, giungeranno alla conclusione che non c’era nulla perché non c’è nulla», ha detto Netanyahu.
Nell’annuncio di ieri, gli inquirenti hanno precisato di aver investigato dal febbraio 2018 su sospetti favori che Netanyahu avrebbe elargito negli anni 2012-2017 a Shaul Elovitch, proprietario di Walla.
«In quegli anni il premier e i suoi assistenti hanno influenzato in maniera costante il sito Internet, sfruttando i legami con Elovitch», si legge nel comunicato della polizia, in cui si cita la pubblicazione di «articoli e fotografie positive nei riguardi del premier e dei suoi familiari». In cambio, Netanyahu avrebbe preso una serie di decisioni a favore del gruppo di telecomunicazioni.
Nei mesi scorsi la polizia ha consigliato l’incriminazione di Netanyahu per due altre due inchieste: danarosi regali ricevuti da uomini d’affari e collusione con l’editore del quotidiano Yediot Ahronot.
Dossier che sono ancora al vaglio della magistratura.
Dura reazione delle opposizioni che hanno chiesto le dimissioni del premier. La leader centrista Tzipi Livni ha scritto su twitter che «Netanyahu deve andare a casa prima che distrugga la legge sugli arresti per salvare se stesso. Elezioni subito!». Anche Avi Gabbai, capo dei laburisti, ha avanzato la stessa richiesta: «Un primo ministro con così tanti casi di corruzione su di lui non può continuare il suo lavoro e deve dimettersi».


Il Fatto 3.12.18
Israele, la polizia ai pm: “Incriminate il premier”


Corruzione e frode: con queste accuse la polizia israeliana ieri ha “raccomandato” alla magistratura di incriminare Benyamin Netanyahu e la moglie Sarah. I Netanyahu sono sospettati di essere intervenuti favorendo una società di telecomunicazioni e il sito Walla per un accordo da un miliardo di shekel in cambio di un trattamento informativo migliore per lui e la moglie. L’opposizione chiede elezioni anticipate e alla Knesset la maggioranza con soli 61 seggi su 120 è sempre più a rischio.

Repubblica 3.12.18
Gazeta Wyborcza
In Polonia dove la stampa è sotto tiro
di Bartosz T. Wielinski


Sì, il partito nazional-conservatore Diritto e Giustizia, che tre anni fa ha preso il potere in Polonia, considera i media indipendenti suoi nemici. Il primo ministro Mateusz Morawiecki ha dichiarato che «l’80% dei media in Polonia è nelle mani degli avversari politici del PiS che attaccano rabbiosamente il governo». Il presidente Andrzej Duda ha avvertito, invece, che «non è un bene che la maggioranza assoluta dei media in Polonia si trovi in mani straniere». Di cosa si tratta? Agora, la società editrice di Gazeta Wyborcza, è polacca. Ma il portale Onet, che alla vigilia delle elezioni amministrative di ottobre ha rivelato intercettazioni telefoniche compromettenti per il primo ministro, appartiene a un gruppo mediatico tedesco-svizzero. La rete televisiva Tvn, invece, che ha trasmesso un reportage sui neonazisti polacchi che festeggiavano il compleanno di Hitler, fa parte del gruppo mediatico americano Discovery. Per i politici del PiS la questione è semplice. Sono gli editori stranieri a commissionare materiali critici nei confronti del governo. Non v’è alcuna prova di tali pratiche, ma, nonostante questo, da mesi il PiS andava gridando che bisognava "ripolonizzare" i media.
Contemporaneamente i gruppi mediatici stranieri ricevevano dal partito la proposta di vendere le loro quote a ditte indicate dal governo. In modo simile il primo ministro Viktor Orban ha rilevato e liquidato i media liberi in Ungheria. Sembrava che il PiS fosse a un passo dal raggiungere l’obiettivo. Il materiale della Tvn sul compleanno di Hitler è stato molto scomodo per il governo, ma l’indagine sull’episodio è stata negligente. In novembre un portale filogovernativo ha accusato la Tvn e i suoi giornalisti di aver pagato gli organizzatori e di aver partecipato attivamente ai festeggiamenti del compleanno del dittatore del Terzo Reich. A prova di ciò hanno mostrato una foto dell’operatore della Tvn con il braccio alzato in un saluto nazista. La Procura aveva subito avviato un’indagine contro il giornalista, a cui la convocazione per l’interrogatorio è stata consegnata a casa da agenti dei servizi segreti. Nei media pubblici, controllati dal governo, è partita una caccia alle streghe contro la Tvn.
Sembrava che i giornalisti sarebbero stati posti in stato d’accusa. Invece è accaduta una cosa inaspettata: ha preso le difese della Tvn la nuova ambasciatrice degli Usa, Georgette Mosbacher, che ha scritto al primo ministro Morawiecki una vigorosa lettera. I politici del PiS sono rimasti senza parole, Donald Trump è da loro considerato l’alleato più stretto. Il governo però non aveva considerato il fatto che per gli americani la libertà dei media è una cosa sacra. Inoltre, la rete Tvn appartiene a un gruppo americano. Il governo avrebbe potuto prevederlo, ma la sua avversione per i media indipendenti è talmente forte che era disposto a incrinare le relazioni con un alleato che garantisce la sicurezza della Polonia. Dopo l’intervento di Mosbacher il governo ha dovuto fare un passo indietro. Ma dopo questa lezione, i governanti della Polonia smetteranno di tramare contro i giornalisti? Non credo. L’anno prossimo i polacchi eleggeranno i membri del parlamento europeo e poi quelli del parlamento nazionale. Tra un anno e mezzo ci saranno anche le elezioni presidenziali. Per il PiS la tentazione di chiudere la bocca ai media sarà grande. Non conterei su un intervento dell’ambasciatrice Mosbacher a difesa di ogni redazione.
© LENA, Leading European Newspaper Alliance. L’autore è giornalista di Gazeta Wyborcza, a capo della redazione esteri ( Traduzione di E. Joanna Kaczy?ska)

La Stampa 3.12.18
Caso Regeni, l’Egitto respinge l’indagine italiana sugli 007
di Grazia Longo


Un paradosso che ha il sapore amaro della beffa. Il caso di Giulio Regeni non solo continua ad essere senza soluzione, ma vede gli egiziani sempre più distanti dalla ricerca della verità. Innanzitutto perché non processeranno gli alti ufficiali della polizia e dei servizi segreti civili agli ordini di Al Sisi che verranno indagati domani dalla Procura di Roma per il sequestro, le torture e l’omicidio del ricercatore friulano per conto dell’Università di Cambridge. La legge egiziana non prevede la condizione dell’indagato ma solo l’eventuale suo rinvio a giudizio. Ma anche perché al Cairo manderanno a processo soltanto due uomini accusati di omicidio per la vicenda del 24 marzo 2016: cinque criminali comuni vennero uccisi in una sparatoria con ufficiali della National Security egiziana, alla periferia del Cairo. I documenti di Giulio furono trovati quello stesso giorno in casa della sorella del capo della presunta banda e si disse che i cinque erano legati alla morte del giovane. Fu subito chiaro che in realtà si trattava dell’ennesimo depistaggio. Eppure è l’unica strada giudiziaria che sarà perseguita dalle autorità del Cairo. Che intanto chiedono invece al procuratore di Roma Giuseppe Pignatone al pm Sergio Colaiocco di indagare sul «perché Giulio Regeni sia entrato in Egitto con un visto turistico e non con un visto dedicato per le ricerche accademiche». I nostri inquirenti hanno fornito ampia disponibilità a lavorare anche su questa pista e fornire le risposte richieste.
Disponibilità che non è invece mai stata fornita dagli inquirenti egiziani.
I tabulati telefonici e lo strappo
Dalle indagini sui tabulati telefonici è infatti emerso che gli agenti segreti monitorarono i contatti, le frequentazioni e i movimenti di Giulio Regeni fino al 25 gennaio 2016, giorno della sua scomparsa. Risultati ottenuti grazie al lavoro dei Ros e dello Sco, che gli inquirenti romani hanno condiviso con i colleghi del Cairo, i quali però non vogliono procedere.
Di qui lo strappo della Procura della capitale che ha deciso di indagare 6-7 dei 9 alti ufficiali della polizia e degli 007 civili sospettati della tragica fine del ventottenne. I genitori di Giulio, Paola e Claudio, assistiti dall’avvocato Alessandra Ballerini, esprimono gratitudine per il lavoro degli investigatori e dei magistrati romani: «Confidiamo che l’iscrizione nel registro degli indagati possa segnare una definitiva accelerazione nell’accertamento processuale di quella verità che inseguiamo incessantemente da 34 mesi, insieme a migliaia di cittadini».

Repubblica 3.12.18
Il caso diplomatico
Regeni, rottura totale l’Egitto contro i pm
I magistrati del Cairo: "Non metteremo sotto accusa i nostri 007"
Poi sfidano la procura di Roma: indaghi sul visto turistico di Giulio
di Giuliano Foschini


Se mai ci fosse stato un dubbio sulla volontà dell’Egitto di collaborare per l’Egitto nell’inchiesta sul sequestro, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni, ieri quel dubbio è stato ufficialmente fugato. Dopo quasi tre anni di melina e di depistaggi, la procura generale del Cairo risponde a muso duro — questo per lo meno riporta l’agenzia egiziana Mena, solitamente assai informata — alla decisione della procura di Roma di iscrivere almeno cinque agenti della National Security per il sequestro di Giulio: dicono infatti che lo ritengono un atto unilaterale, non fosse altro perché nell’ordinamento egiziano " non esiste" il registro degli indagati. Difendono gli agenti della National Security che hanno indagato su Giulio fino al giorno della sua scomparsa nel nulla. E, soprattutto, ulteriore sfregio, « invitano gli inquirenti italiani a indagare in direzione del visto che aveva Regeni: un visto turistico e non per studenti nonostante fosse un ricercatore».
Ora la vicenda sarebbe surreale, se non fosse davvero una vergogna: primo perché con il visto turistico in Egitto entrano abitualmente tutti, dai giornalisti appunto agli studenti universitari o ai ricercatori che devono passare un breve periodo nel paese. Secondo, perché gli egiziani tirano fuori la questione solo ora, cioè quasi tre anni dopo l’assassinio di Giulio e soprattutto dopo vergognosi depistaggi (tra cui la morte di cinque innocenti). Infine perché il caso viene utilizzato per lanciare un’ombra inesistente: non c’è niente ancora da indagare, Regeni era soltanto un ricercatore (come tutto ha dimostrato in questi anni di inchieste) vittima, suo malgrado, di un regime sanguinario. In ogni caso, proprio perché non c’è niente da nascondere, è possibile che da Roma forniscano ulteriori chiarimenti al Cairo sulla questione del visto. Convinti però, i nostri investigatori, di continuare ad andare dritti sulla propria strada nell’accertamento dei fatti: una via stretta e tortuosa, dal momento che è possibile che senza un supporto egiziano non si possa andare oltre il punto in cui si è già arrivati. E che quindi si debba procedere con una richiesta di archiviazione. Un’archiviazione che però certificherebbe una volta per tutte la non collaborazione del regime di Al Sisi, lo stesso politico accolto appena qualche settimane fa con tutti gli onori dal premier Giuseppe Conte nel vertice italiano di Palermo.
Fino a questo momento l’inchiesta sull’assassinio di Regeni ha proceduto per sottrazione. Tutto quello che di certo si sa è grazie al lavoro della magistratura italiana, dei poliziotti dello Sco e dei carabinieri del Ros che hanno smontato pezzo per pezzo il castello di bugie che arrivava dal Cairo. L’attenzione dei magistrati romani è ora su almeno cinque persone, tra poliziotti e agenti della National Security che hanno indagato su Giulio da dicembre del 2015 fino al giorno della sua scomparsa. Sono loro che hanno chiesto a Mohammed Abdallah, sindacalista dei venditori ambulanti in contatto con Giulio, di registrare di nascosto Regeni. Loro che avevano cercato di ottenere una copia del suo passaporto.
Questo non era bastato alle autorità egiziane per muoversi autonomamente. E dopo le accuse del presidente della Camera, Roberto Fico, che ha annunciato la sospensione dei rapporti con il parlamento del Cairo, e l’inevitabile intervento del Governo (il ministro degli Esteri Enzo Moavero Molanesi) è arrivata dal Cairo prima la risposta piccata della politica. E ora anche quella della magistratura. In modo tale che sia chiaro a tutti chi sta cercando la verità sull’assassinio di Giulio. E chi, invece, da quella verità gira a largo.

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