La Stampa 24
Allarmi son jazzisti
“Musica negroide”: così il fascismo boicottò Armstrong e Cole Porter
di Sandro Cappelletto
La
notte del 12 agosto 1926 una grande chiatta, illuminata a giorno, è
ormeggiata in Laguna, davanti a piazza San Marco. A bordo, una negro
jazz-band formata da musicisti afroamericani e guidata da Cole Porter fa
ballare fino alle due del mattino un pubblico di 150 invitati, ospiti
dell’Hotel Excelsior al Lido, dove l’attività principale di quell’estate
è imparare il charleston. Il 15 e 16 gennaio 1935 la band di Louis
Armstrong suona al Teatro Chiarella di Torino. Tra il pubblico, un
giovane critico che da lì a qualche mese sarebbe stato arrestato per
attività antifascista: è Massimo Mila e «Jazz hot», la sua recensione
sulla rivista Pan, testimonia l’interesse che gli intellettuali italiani
riservano a quella musica nuova che ormai sta conquistando il mondo.
Nello stesso anno esce America primo amore. Mario Soldati racconta così
una serata trascorsa al Cotton Club di New York: «Conosco da tempo
questi locali: ottimi jazz (basti il nome di Duke Ellington), ottimi
numeri di varietà e pubblico più bianco dei più bianchi, più ricchi, più
manhattaniti». Il jazz in Italia era diventato moda.
Il peso dell’ideologia
Ma
il successo durerà ancora poco, scrive Camilla Poesio in Tutto è ritmo,
tutto è swing - Il Jazz, il fascismo e la società italiana (Le Monnier,
pp. 175, € 14). La giovane studiosa documenta come un’ideologia possa
prevaricare un gusto vincente, un piacere diffuso. Perché agli occhi del
regime - mentre nel 1936 si proclama l’Impero dopo la cruenta conquista
di territori africani e nel 1938 si promulgano le leggi razziali - è
intollerabile che una musica «negroide» possa smuovere il corpo, il
divertimento di un popolo di cui si ribadisce l’appartenenza alla «razza
bianca». Ironia della storia: un figlio del Duce, Romano Mussolini
(1927-2006), sarebbe diventato uno dei più stimati jazzisti italiani.
Il
libro della Poesio - che si aggiunge al fondamentale contributo di
Adriano Mazzoletti sulla diffusione e la specificità del jazz in Italia,
agli studi di Stefano Zenni e di Marcello Piras sul protagonismo dei
musicisti italiani, in particolare siciliani, emigrati negli Stati Uniti
nella formazione delle prime band e nell’incisione dei primi dischi
jazz - privilegia, più che l’aspetto musicale, il racconto politico e di
costume.
«La focosa» Baker
Avvisaglie si erano già
manifestate nel 1929, quando il debutto italiano della Revue Nègre di
Josephine Baker è bloccato dalla censura. Alludendo a una scenata di
gelosia della Baker nei confronti di un ballerino spagnolo, Radio
Orario, come allora si chiamava il futuro Radiocorriere, scrive che
«evidentemente la focosa Giuseppina non ha voluto perdere un’occasione
per dimostrare di essere realmente consanguinea di Otello».
Anche
nelle arti bisogna diventare autarchici: oggi diciamo sovranisti. Mentre
la Chiesa cattolica teme il decadimento della pubblica morale e invita
le ragazze a non uscire la sera a ballare, viene creato un Ente
Nazionale per la Musica Sinfonico-Vocale il cui scopo è contrastare «il
dilagare di musiche esotiche, fatte di suoni contorti e selvaggi, che ha
malauguratamente contribuito a far cadere in disuso i canti sgorgati
dalla semplice e spontanea vena popolare. Il nostro popolo ha in gran
parte perduto il senso artistico nazionale». Nonostante l’Eiar (l’ente
radiofonico di Stato) informi il regime che il pubblico ama quella
musica, il Sindacato Fascista dei Musicisti va all’attacco: il jazz
esprime «il primitivismo musicale dei negri, le barbare musiche negre
imbastardite e incanagliate». È la difesa della razza in ambito
musicale.
George Gershwin non è nero ma ebreo e la sua musica
viene bandita. Analogo destino attende il jazz in Germania e in Russia:
le dittature lo temono più di quanto i nazisti detestino l’«arte
degenerata» o i sovietici il «formalismo borghese e antipopolare».
Perché il jazz, che il nazismo definisce nientemeno che «musica
bolscevica, giudaica e negroide», è fisico, ancestrale. È sexy:
caratteristica oggi purtroppo perduta. La sua festosa, improvvisativa
verve è irrigidita, anchilosata.
Anche le sorelle del Trio Lescano
sono, forse, ebree. Si avviano indagini e infine Arturo Bocchini, capo
della polizia, interviene in prima persona: «Avvertesi che Alessandra,
Giuditta e Caterina Leschan di Alessandro essendo state riconosciute
come non appartenenti razza ebraica (ripetesi non) possono continuare a
risiedere nel Regno ed essere autorizzate in via provvisoria a svolgere
attività artistica».
Attraverso il jazz, questo libro racconta la
violenta determinazione censoria e razzista della nostra classe politica
dominante, soltanto poche generazioni fa.