giovedì 27 dicembre 2018

Corriere 24.12.18
La collana In edicola sabato con il quotidiano la prima uscita della Storia dell’arte raccontata da Philippe Daverio
Con la rivoluzione di Giotto la filosofia diventa dipinto
Dialogo con gli antichi, ritmi e spazi architettonici, riflessione sul mondo: così nei grandiosi cicli di Assisi e Padova il maestro impone il nuovo stile
di Arturo Carlo Quintavalle


I contemporanei sanno che gli affreschi ad Assisi e a Padova cambiano la storia del racconto dipinto in Occidente: Dante Alighieri (Purgatorio XI, versi 94-96) scrive: «Credette Cimabue ne la pittura/ tener lo campo ed ora ha Giotto il grido,/ sì che la fama di colui è scura». E proprio quel confronto, fra Cimabue e Giotto (1237-1337) lo possiamo fare subito anche noi, ad Assisi, con i grandiosi, incombenti affreschi di Cimabue nella Basilica inferiore e lo spazio diverso, disteso, unitario costruito nella Basilica superiore da Giotto (1290 circa).
Due le immagini di Francesco, quella scarnita, povera, sofferente dipinta da Cimabue e l’altra, idealizzata, modellata sulla nuova Vita di Bonaventura da Bagnoregio, di Giotto. Il suo racconto è diverso: nelle chiese medievali le vite dei santi sono confinate a un architrave all’esterno o a pochi riquadri dipinti all’interno, ma ad Assisi Giotto propone la sua rivoluzione. La grandiosa basilica è pensata come unica aula per un diretto dialogo tra fedeli e predicatori e per un rapporto immediato fra racconto della vita del Santo e teatro, ecco dunque un «Mistero» medievale dipinto che dialoga, campo dopo campo, con chi cammina nella chiesa.
Sì, davvero, come scrive il cronista fiorentino Giovanni Villani (1280-1348), Giotto è «il più sovrano maestro stato in dipintura che si trovasse al suo tempo». E proprio gli affreschi della Cappella degli Scrovegni a Padova propongono ancora una volta i misteri medievali, quelli della vita del Cristo, costruiti secondo un modello umanistico, dove l’evocazione dell’antico, delle porte, delle mura romane, degli spazi, dei ritmi architettonici fanno capire quanto Giotto riflettesse sulla architettura romana ma insieme su quella contemporanea, a cominciare da Arnolfo di Cambio. Giotto, architetto che progetta per la cattedrale di Firenze il campanile, è ben consapevole della ricerca gotica: la sua spaziata pittura, mimica e gesti come nel teatro antico, muove anche dalla grande scultura gotica in Île de France a cominciare dallo jubé della cattedrale di Bourges (1235 circa),come ha mostrato Cesare Gnudi.
Così Giotto crea in pittura un nuovo stile per l’arte d’Occidente. Dopo di lui, dopo le sue grandiose composizioni, nulla sarà più come prima nell’arte europea. La novità dell’arte italiana nasce dunque dallo stretto rapporto con la letteratura e la filosofia, è la cultura umanistica, come la abbiamo chiamata noi moderni. Lo spazio di Dante è quello di Aristotele interpretato da San Tommaso ma anche quello di Plotino, lo stesso spazio proposto da Giotto e da chi verrà dopo di lui nel XIV secolo.
Una seconda rivoluzione trasforma un secolo e mezzo dopo le lingue della pittura europea, una rivoluzione che si costruisce fra la corte dei Gonzaga a Mantova e la Padova di un antiquario, collezionista ma pittore modesto, lo Squarcione, e ancora la Venezia dei grandi rapporti internazionali con l’Oriente, Bisanzio ma anche le grandi città costiere del Mediterraneo. Ecco, in questa dimensione crescono due artisti che non potevano essere più diversi, Mantegna dunque (1431-1506) e Giovanni Bellini (1433-1516). Mantegna vive nel mito dell’antico che, dall’Italia, coinvolgerà, due generazioni dopo, l’intero Occidente, un mito che è prima di tutto indagine sul passato, raccolta dei testi, scritti, architettati, scolpiti, dipinti. Mantegna conosce la ricerca di Leon Battista Alberti, il Trattato della Pittura (1435) che insegnerà la prospettiva a tutti gli artisti del XV secolo e, forse, il suo trattato di architettura, De re aedificatoria (1450 ma pubblicato solo nel 1485). Per Alberti lo spazio è quello unitario, proposto a Firenze da Brunelleschi, è ben diverso dall’altro spazio, frammentato, analitico, sublimemente dipinto dai van Eyck e dagli altri grandi fiamminghi. Da qui nasce lo spazio circolare, che traguarda sulle campagne, della Camera degli Sposi a Mantova (1465-1474) che Mantegna ripete nei grandiosi Trionfi di Hampton Court dove coniuga la memoria dell’antico e il sogno di una nuova arte di corte.
Giovanni Bellini, che pur conosce bene questa ricerca, inventa un altro racconto: quello delle Madonne col Bambino con dietro il paesaggio che propongono un nuovo dialogo degli affetti e, insieme, il colore dei tramonti sulla laguna. Bellini poi crea una diversa, soffusa luce nelle opere più tarde, come nella Pala di San Giovanni Crisostomo (1513), la luce da cui muoveranno prima Giorgione e poi Tiziano. Se arte dunque è umanistica riflessione sul mondo la sua capacità di imporsi in Occidente inizia da Giotto. Scrive Dante (Purgatorio XI, versi 97-99): «Così ha tolto l’uno all’altro Guido/ la gloria della lingua; e forse è nato/ chi l’uno e l’altro caccerà dal nido»: Guido Guinizelli e Guido Cavalcanti, poeti del Dolce Stil Novo, e adesso il nuovo poeta, Dante stesso, come, prima, Cimabue ed ora Giotto. Poesia, dialogo con l’antico, filosofia, ecco la eredità dell’arte italiana nel contesto europeo.