Corriere 24.12.18
La collana In edicola sabato con il quotidiano la prima uscita della Storia dell’arte raccontata da Philippe Daverio
Con la rivoluzione di Giotto la filosofia diventa dipinto
Dialogo
con gli antichi, ritmi e spazi architettonici, riflessione sul mondo:
così nei grandiosi cicli di Assisi e Padova il maestro impone il nuovo
stile
di Arturo Carlo Quintavalle
I
contemporanei sanno che gli affreschi ad Assisi e a Padova cambiano la
storia del racconto dipinto in Occidente: Dante Alighieri (Purgatorio
XI, versi 94-96) scrive: «Credette Cimabue ne la pittura/ tener lo campo
ed ora ha Giotto il grido,/ sì che la fama di colui è scura». E proprio
quel confronto, fra Cimabue e Giotto (1237-1337) lo possiamo fare
subito anche noi, ad Assisi, con i grandiosi, incombenti affreschi di
Cimabue nella Basilica inferiore e lo spazio diverso, disteso, unitario
costruito nella Basilica superiore da Giotto (1290 circa).
Due le
immagini di Francesco, quella scarnita, povera, sofferente dipinta da
Cimabue e l’altra, idealizzata, modellata sulla nuova Vita di
Bonaventura da Bagnoregio, di Giotto. Il suo racconto è diverso: nelle
chiese medievali le vite dei santi sono confinate a un architrave
all’esterno o a pochi riquadri dipinti all’interno, ma ad Assisi Giotto
propone la sua rivoluzione. La grandiosa basilica è pensata come unica
aula per un diretto dialogo tra fedeli e predicatori e per un rapporto
immediato fra racconto della vita del Santo e teatro, ecco dunque un
«Mistero» medievale dipinto che dialoga, campo dopo campo, con chi
cammina nella chiesa.
Sì, davvero, come scrive il cronista
fiorentino Giovanni Villani (1280-1348), Giotto è «il più sovrano
maestro stato in dipintura che si trovasse al suo tempo». E proprio gli
affreschi della Cappella degli Scrovegni a Padova propongono ancora una
volta i misteri medievali, quelli della vita del Cristo, costruiti
secondo un modello umanistico, dove l’evocazione dell’antico, delle
porte, delle mura romane, degli spazi, dei ritmi architettonici fanno
capire quanto Giotto riflettesse sulla architettura romana ma insieme su
quella contemporanea, a cominciare da Arnolfo di Cambio. Giotto,
architetto che progetta per la cattedrale di Firenze il campanile, è ben
consapevole della ricerca gotica: la sua spaziata pittura, mimica e
gesti come nel teatro antico, muove anche dalla grande scultura gotica
in Île de France a cominciare dallo jubé della cattedrale di Bourges
(1235 circa),come ha mostrato Cesare Gnudi.
Così Giotto crea in
pittura un nuovo stile per l’arte d’Occidente. Dopo di lui, dopo le sue
grandiose composizioni, nulla sarà più come prima nell’arte europea. La
novità dell’arte italiana nasce dunque dallo stretto rapporto con la
letteratura e la filosofia, è la cultura umanistica, come la abbiamo
chiamata noi moderni. Lo spazio di Dante è quello di Aristotele
interpretato da San Tommaso ma anche quello di Plotino, lo stesso spazio
proposto da Giotto e da chi verrà dopo di lui nel XIV secolo.
Una
seconda rivoluzione trasforma un secolo e mezzo dopo le lingue della
pittura europea, una rivoluzione che si costruisce fra la corte dei
Gonzaga a Mantova e la Padova di un antiquario, collezionista ma pittore
modesto, lo Squarcione, e ancora la Venezia dei grandi rapporti
internazionali con l’Oriente, Bisanzio ma anche le grandi città costiere
del Mediterraneo. Ecco, in questa dimensione crescono due artisti che
non potevano essere più diversi, Mantegna dunque (1431-1506) e Giovanni
Bellini (1433-1516). Mantegna vive nel mito dell’antico che,
dall’Italia, coinvolgerà, due generazioni dopo, l’intero Occidente, un
mito che è prima di tutto indagine sul passato, raccolta dei testi,
scritti, architettati, scolpiti, dipinti. Mantegna conosce la ricerca di
Leon Battista Alberti, il Trattato della Pittura (1435) che insegnerà
la prospettiva a tutti gli artisti del XV secolo e, forse, il suo
trattato di architettura, De re aedificatoria (1450 ma pubblicato solo
nel 1485). Per Alberti lo spazio è quello unitario, proposto a Firenze
da Brunelleschi, è ben diverso dall’altro spazio, frammentato,
analitico, sublimemente dipinto dai van Eyck e dagli altri grandi
fiamminghi. Da qui nasce lo spazio circolare, che traguarda sulle
campagne, della Camera degli Sposi a Mantova (1465-1474) che Mantegna
ripete nei grandiosi Trionfi di Hampton Court dove coniuga la memoria
dell’antico e il sogno di una nuova arte di corte.
Giovanni
Bellini, che pur conosce bene questa ricerca, inventa un altro racconto:
quello delle Madonne col Bambino con dietro il paesaggio che propongono
un nuovo dialogo degli affetti e, insieme, il colore dei tramonti sulla
laguna. Bellini poi crea una diversa, soffusa luce nelle opere più
tarde, come nella Pala di San Giovanni Crisostomo (1513), la luce da cui
muoveranno prima Giorgione e poi Tiziano. Se arte dunque è umanistica
riflessione sul mondo la sua capacità di imporsi in Occidente inizia da
Giotto. Scrive Dante (Purgatorio XI, versi 97-99): «Così ha tolto l’uno
all’altro Guido/ la gloria della lingua; e forse è nato/ chi l’uno e
l’altro caccerà dal nido»: Guido Guinizelli e Guido Cavalcanti, poeti
del Dolce Stil Novo, e adesso il nuovo poeta, Dante stesso, come, prima,
Cimabue ed ora Giotto. Poesia, dialogo con l’antico, filosofia, ecco la
eredità dell’arte italiana nel contesto europeo.