Il Sole Domenica 23.12.18
Il dialetto «geniale»
Oltre la
fiction. L’exploit del napoletano con la Ferrante, il siciliano pop di
Camilleri,veneto e genovese tra teatro e musica: le lingue locali
diventano globali ed esportano
di Francesco Prisco
«Questo
Natale si è presentato come comanda Iddio. Cu’ tutt’ ’e sentiment’. E
lo deve fare: è il mese suo». Forse suona esotico: è il napoletano di
Eduardo De Filippo. Azzeccatissimo di questi tempi, perché parliamo di
Natale in casa Cupiello. Esotico ma lo capirete tutti: il grande
drammaturgo alternava dialetto e italiano, pronunciava frasi idiomatiche
nella “lingua dei padri” e poi le traduceva in quella di Dante, perché
raggiungessero il pubblico più vasto possibile. Perché parlava di
Napoli, ma raccontava il mondo, la sua Napoli era teatro di una
rappresentazione che aveva carattere di universalità, universale era il
messaggio che da Napoli Eduardo mandava. Senza sottotitoli.
Molto
diverso da quanto succede qui: «Pure Jo ha scritt’ ’nu raccont’. E
nisciun’ pensav’ c’o putev’ scrivere. ’A stessa cosa ’amma fa’ nuje». È
L’amica geniale, serie Tv di Saverio Costanzo tratta dall’omonimo ciclo
di romanzi di Elena Ferrante. Martedì scorso su Rai 1 si è conclusa con
6,9 milioni di spettatori e il 27,7% di share la co-produzione Rai-Hbo
costata oltre 30 milioni e già venduta in 56 Paesi. Un’opera recitata in
napoletano stretto, lingua meno comprensibile del napoletano di
Eduardo, stavolta con l’ausilio dei sottotitoli.
Valore aggiunto: l’autenticità
Benvenuti
nell’epoca del dialetto da esportazione, della lingua “local” che si fa
“global”: se è vero che, qui da noi, gli idiomi locali non sono mai
passati di moda e hanno spesso e volentieri prodotto arte, alta o meno
alta che fosse, mai come in questo momento l’industria culturale ha
avuto piena consapevolezza del potenziale “internazionale” delle opere
scritte, cantate o recitate in dialetto o vernacolo. Con un valore
aggiunto: l’autenticità. E un rischio da cui stare alla larga: lo
stereotipo. «Parlo per Napoli e per il napoletano: la nostra è una
lingua, ha prodotto letteratura, capolavori come Lu cunto de li cunti di
Basile, e una tradizione musicale che spazia dalla canzone classica
allo swing di Renato Carosone e al blues di Pino Daniele», sottolinea
Raiz, storico front leader degli Almamegretta, band dub che in lingua
napoletana ha realizzato album storici come Sanacore (1995). Con le
lingue Raiz non ha perso il vizio di confrontarsi: l’ultimo progetto,
Neshama, è in ebraico sefardita. «Come l’ebraico - spiega - il
napoletano è una grande lingua mediterranea, la parlata di una comunità
aperta, inclusiva, pronta ad accogliere dominazioni e influenze,
arricchendosene». La mediterraneità “global” del napoletano sarebbe una
delle chiavi del suo successo internazionale: «Una serie Tv in
napoletano con i sottotitoli, come nel caso de L’amica geniale o di
Gomorra, per uno spettatore americano ha un surplus di autenticità che
cogli nel suono delle parole. Senza contare che, su uno spettatore di
lingua italiana, un’opera ambientata al rione Luzzatti o a Secondigliano
e recitata in italiano avrebbe un effetto straniante». Così come Non
calpestare i fiori nel deserto (1995) sarà pure il maggiore successo
commerciale di Pino Daniele, ma suona meno autentico di Nero a metà
(1980), interamente cantato in napoletano.
Parli di musica e non
puoi fare a meno di pensare che l’Italia ha sempre “esportato”
pochissimo. Ma ci sono le eccezioni: c’è un disco di Fabrizio De André
considerato dalla critica internazionale una pietra miliare della world
music. «Negli anni, non ricordo a quanti amici abbia regalato quel
disco», ha detto il regista tedesco Wim Wenders. È Crêuza de mä (1984),
l’unico album di Faber interamente cantato in genovese. «In questo caso
il ricorso al dialetto è una specie di patente di autenticità», secondo
Marco Malvaldi, scrittore pisano abituato a confrontarsi con il toscano
nei romanzi della serie del BarLume. Anche in questo caso con una
fortunata trasposizionetelevisiva: il 25 dicembre e il 1°gennaio tornano
infatti su Sky due nuovi episodi de I delitti del BarLume.
Immagini al posto dei concetti
«La
prima considerazione che mi viene da fare - dice Malvaldi - è che i
dialetti hanno un potere evocativo che le lingue standard non hanno. Un
dialetto lavora sulle similitudini, cerca immagini concrete per
rappresentare concetti. A una persona che esita, in italiano potremmo
dire: “Cosa aspetti a muoverti?”. Il toscano ti mette davanti agli occhi
un’immagine: “Aspetti la banda?”». In espressioni come questa si coglie
come una sottile ironia di fondo. Che deve sicuramente aver contribuito
al successo dei corsi di riappropriazione di lingue e culture
dialettali organizzati da un capo all’altro del Paese. Ma da dove arriva
la grande attenzione che l’industria dell’entertainment sta rivolgendo
ai dialetti? «È un’attenzione che nasce un gradino sopra», risponde
Malvaldi. «Nasce dalla letteratura di intrattenimento consapevole. Un
grande contributo lo hanno dato Andrea Camilleri e lo straordinario
successo di Montalbano». Il siciliano “pop” del commissario di Vigata,
spostatosi con disinvoltura dai romanzi al piccolo schermo, fino a
diventare uno dei personaggi più celebri della Tv italiana, ha fatto
scuola. Che non sia più vera la regola dell’editoria libraria che impone
una “lingua media” non troppo raffinata a chi ambisce a scrivere un
bestseller? «La regola c’è - risponde Malvaldi - così come ci sono le
pressioni di molte case editrici a farti scrivere in un italiano senza
particolari guizzi. Ma la verità, come diceva Josephine Tey, sta nel
tempo. Sono sicuro che tra 50 anni continueremo a leggere i romanzi di
Camilleri e della Ferrante. Ho qualche dubbio che possa succedere lo
stesso con i libri di Fabio Volo». Quanto agli stereotipi, per Malvaldi
«nessun pericolo: sono solo negli occhi di chi guarda».
Con 20
regioni, 94 tra province e città metropolitane, più di 8mila comuni e 24
idiomi tra lingue e varianti dialettali, l’Italia può contare su un
patrimonio straordinario. E tra le lingue letterarie più ricche c’è
sicuramente il veneto, potente strumento della commedia dell’arte ma
anche di un innovatore settecentesco che si chiamava Carlo Goldoni.
«Luigi Meneghello aveva capito tutto: il dialetto è la lingua madre,
quella che ci riconcilia con le origini, ci mette d’accordo con ciò che
siamo», rivendica Natalino Balasso, attore e autore di Porto Tolle,
provincia di Rovigo. Artista che il veneto lo studia e utilizza con
grande efficacia. Che si tratti di interpretare l’Arlecchino servitore
di due padroni o una tra le innumerevoli figure archetipo della sua
terra.
Nuova dignità alle radici
«Se devo associare a un
concetto il dialetto, questo concetto è radice. Che non a caso si
utilizza anche in linguistica: le parole hanno una radice. Il dialetto è
il posto dal quale proveniamo, un pezzo di noi. Fino a qualche anno fa
era spesso inteso come lingua popolare, adesso sono le elite ad
appropriarsene, un po’ come aveva fatto Gadda nel Pasticciaccio. Ed è un
bene, perché il processo coincide con il conferimento di una dignità
tutta nuova a questo patrimonio ricchissimo di suo». Ma attenti a non
parlare di ritorno al dialetto: «In realtà - secondo Balasso - non se
n’è mai andato, ci accompagna da sempre. Ed è più o meno presente nella
nostra cultura a seconda delle stagioni». Oggi “buca” al teatro come al
cinema, «anche perché siamo diventati molto più laici rispetto
all’utilizzo dei sottotitoli. Fino a qualche anno fa - ricorda Balasso -
sarebbe stato impensabile mandare su Rai 1 in prima serata una serie Tv
sottotitolata». Comunque la pensiate, gran parte del successo
televisivo de L’amica geniale arriva da una lingua geniale. Una lingua
“glocal” che si chiama dialetto.