Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
sabato 22 dicembre 2018
La Stampa 22.12.18
Il Papa: i preti pedofili sono lupi che divorano anime innocenti
di Salvatore Cernuzio
Convertitevi e consegnatevi alla giustizia umana, e preparatevi alla giustizia divina». È la prima volta che il Papa parla direttamente ai sacerdoti pedofili: si rivolge a loro come a «quanti abusano dei minori» ma non esista a paragonarli, con insolita durezza, a «lupi atroci» pronti a «divorare anime innocenti», schermandosi dietro a «smisurata gentilezza, impeccabile operosità e angelica faccia». L’occasione è il monumentale discorso che ogni anno, prima di Natale, Francesco pronuncia davanti a vescovi e cardinali che compongono la Curia romana, riunita ieri al completo in Vaticano. Bergoglio guarda già al summit di febbraio in cui convocherà a Roma i presidenti delle Conferenze episcopali del mondo: un’occasione per studiare strategie per evitare in futuro «tali sciagure», oltre che per ribadire la linea di «tolleranza zero» avviata da Benedetto XVI che, negli ultimi dieci anni, sembra aver portato ad una diminuzione dei casi di violenze sessuali.
Misure drastiche
Ancora troppo poco, però, rispetto alle sconcertanti percentuali emerse nei report pubblicati quest’anno in Europa o negli Usa (su tutti, quello della Pennysilvania). Il Papa annuncia infatti misure più drastiche per i preti che si macchiano il corpo e l’anima di tali crimini: «Sia chiaro - dice ai capi Dicasteri - dinanzi a questi abomini la Chiesa non si risparmierà nel compiere tutto il necessario per consegnare alla giustizia chiunque abbia commesso tali delitti. La Chiesa non cercherà mai di insabbiare o sottovalutare nessun caso». Un «basta» esausto, esasperato, del Pontefice argentino - che in quest’ultimo anno, forse uno dei più difficili del pontificato, ha dovuto affrontare ripetutamente questioni legate ad abusi - a quella cultura dell’occultamento che sembrava una prassi nei circuiti ecclesiali del passato, le cui conseguenze sono riemerse nel 2018 portando all’implosione di intere diocesi in Cile, Australia e Stati Uniti. «Tempeste e uragani» che hanno scosso tutta la Chiesa, dice il Papa. Nel suo discorso alla Curia, esprime anche un inedito «grazie» agli operatori dei media «che sono stati onesti e oggettivi e che hanno cercato di smascherare questi lupi e di dare voce alle vittime». «Anche se si trattasse di un solo caso di abuso – che rappresenta già di per sé una mostruosità – la Chiesa chiede di non tacere»: in queste situazioni lo scandalo più grande è «coprire la verità».
il manifesto 22.12.18
Un’altra grana per il governo: lo sciopero dei medici il 25 gennaio 2019
Legge di bilancio. La ministra della Salute Giulia Grillo annuncia un miliardo di euro al servizio sanitario. I sindacati: «È quello di Gentiloni, ne servono altri due»
di Madi Ferrucci
I sindacati dei medici annunciano un altro sciopero per il 25 gennaio 2019, dopo quello del 23 novembre scorso. I camici bianchi protestano contro il governo gialloverde che non ha risposto alle richiesta di aumento dei fondi destinati al servizio sanitario nazionale nella legge di bilancio. Risorse ritenute essenziali per il rinnovo del contratto nazionale dei medici e dei dirigenti sanitari, fermo da dieci anni, e per rimuovere il blocco della spesa ferma al 2004 per il personale sanitario. Tale blocco è stato inserito nel 2010 da Tremonti insieme al blocco del turn-over. La terza rivendicazione dello sciopero riguarda le borse di specializzazione ai medici neolaureati. Le coperture previste sono solo per 800 borse a fronte delle tremila necessarie.
La manovra prevede lo stanziamento di un miliardo per il servizio sanitario, ma questa cifra è in realtà il frutto di una decisione del precedente governo Gentiloni, che è stata semplicemente stata confermata dall’attuale esecutivo. Apparentemente quindi si potrebbe pensare che i finanziamenti alla sanità ci siano, in realtà sottolinea Andrea Filippi, segretario nazionale di Fp Cgil Medici secondo il quale, tuttavia, «mancano due miliardi all’appello, gli stessi che il governo Renzi nel 2015 decise di tagliare nell’ultima notte della legge finanziaria, il servizio sanitario scenderà di questo passo al 6,5 per cento del Pil; la soglia limite indicata dall’Organizzazione mondiale della sanità come valore importante per garantire le cure essenziali ai cittadini». Per Filippi il rapporto della spesa sanitaria aumenta in proporzione al Pil. Per questa ragione la sanità ha bisogno di continui investimenti che nel tempo crescono con l’avanzamento delle tecnologie e dell’ingegneria biomedica legata allo sviluppo dei farmaci. La popolazione inoltre sta invecchiando e aumentano anche le patologie croniche che hanno bisogno di cure costanti. «C’è molta confusione – aggiunge Andrea Filippi – perché si parla di “reddito di cittadinanza” ma contemporaneamente si prosegue con una politica neoliberista di taglio al welfare in coerenza con la Flat Tax».
«Oggi mancano 10 mila medici e l’anno prossimo con i pensionamenti previsti dalla legge Fornero si prevede di arrivare a 40 mila, ai quali andrebbero aggiunti quelli della cosiddetta “quota 100” – ricorda il segretario generale del sindacato Anaao Assomed Carlo Palermo – Senza parlare della carenza di 50 mila dipendenti tra infermieri e operatori sanitari. Se la spesa non aumenterà e non ci saranno nuove assunzioni, non sarà possibile garantire un’adeguata copertura del personale per dare accesso alle cure e mantenere il servizio efficiente».
L’altra rivendicazione dei medici riguarda il mantenimento dell’esercizio della libera professione «intramoenia». Questo tipo di prestazione a pagamento per metà finisce all’azienda sanitaria e per l’altra metà resta al medico. Tuttavia la categoria che fa concorrenza al servizio pubblico sono in realtà soprattutto i così detti medici «extramoenia» che svolgono la loro attività all’esterno in ambulatori e cliniche private. La soluzione perciò, ribadisce Palermo, è un forte investimento nel servizio pubblico».
Il Fatto 22.12.18
Barbara Spinelli
“L’Ue ha dimostrato diritto di veto, ma si può resistere”
Per la giornalista-deputata solo politiche più espansive possono evitare le rivolte sociali. E la manovra italiana è un primo passo
intervista di Stefano Feltri
Barbara Spinelli, giornalista, è in rotta con le politiche dell’Unione: si è candidata alle Europee nel 2014 per cambiarle, nella lista Tsipras. Ma ora, a pochi mesi dalla fine di quest’esperienza (“un mandato basta”), vede pochi segnali di speranza: qualche politica sociale in Portogallo, la sinistra di Corbyn in Gran Bretagna, forse il governo Sanchez in Spagna.
Barbara Spinelli, il governo si è fatto dettare la manovra o la Commissione ha ceduto?
La Commissione ha confermato il potere di veto che sin dal governo Monti esercita sulle politiche decise dai governi. Abbiamo programmi ed elezioni nazionali, e poi c’è un secondo turno a Bruxelles. Ma l’Unione era partita con richieste più restrittive: voleva un deficit all’1,6 per cento del Pil e si opponeva alle politiche espansive e di solidarietà volute dal governo.
E poi c’è stata la Francia: il commissario Pierre Moscovici ha subito approvato l’annuncio di un deficit al 3,5% per rispondere alla rivolta dei Gilet gialli.
La Commissione non poteva applicare due standard diversi. Ma davanti ai Gilet gialli, Moscovici ha avuto una reazione politica, non tecnica.
E come se la spiega?
Il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione anomala sul codice di comportamento della Commissione: ha accettato che i commissari si candidino alle elezioni europee mantenendo la carica. Io ho votato contro. Ne abbiamo già parecchi: Pierre Moscovici, Frans Timmermans, forse Margrethe Vestager. Moscovici è in campagna elettorale in Francia: non ha smentito la sua possibile candidatura. Si è non poco screditato.
Si poteva approvare la manovra senza il via libera della Commissione?
La procedura di infrazione sarebbe stata molto punitiva per gli italiani. È un bene averla evitata, senza però eliminare dalla manovra le misure cruciali. Queste politiche europee hanno prodotto una miseria che non si vedeva dal dopoguerra.
Non abbiamo alleati in questa sfida alle regole. Solo i Gilet gialli.
La Grecia non poté contare neppure sulle rivolte di piazza in altri Paesi. Juncker stesso ha ammesso che la dignità del popolo greco è stata calpestata dall’Unione. L’Italia ha potuto far tesoro di proteste ormai diffuse contro politiche che non producono crescita ma rivolta sociale, come i Gilet gialli o la Brexit che non è un capriccio nazionalista ma un voto popolare, anche se del tutto illusorio, contro l’austerità. Questa è un’Unione disgregata e l’Italia prova a fare qualcosa. Non entro nei dettagli della legge di Bilancio, ma a chi si scandalizza perché Di Maio vuole ‘abolire la povertà’, ricordo che Ernesto Rossi scrisse il libro Abolire la miseria, mentre lavorava al Manifesto di Ventotene.
Perché Macron, campione dell’europeismo, sta finendo così male?
L’europeismo è un guscio vuoto in cui puoi mettere quello che vuoi: il federalismo di Hayek per azzerare il peso dello Stato in economia o il Manifesto di Ventotene. Il prestigio di Macron è crollato in Francia ben prima che in Europa. Quel che difende è una dottrina economica confutata dagli studiosi sin dagli anni Settanta, secondo cui aiutare i ricchi sarebbe nell’interesse di tutti: il benessere “sgocciolerebbe” verso i non abbienti. La prima cosa che ha fatto è tagliare le tasse ai ricchi. E non ha funzionato.
La lezione dei Gilet gialli è che per cambiare politica economica serve la rivolta?
Solo politiche di bilancio più egualitarie possono prevenire insurrezioni. Dicono che il governo italiano è populista, ma il M5S è l’espressione parlamentare di quella protesta, il famoso ‘Vaffa’ equivale allo slogan dei Gilet: si autodefiniscono dégagiste, vogliono mandare ‘tutti fuori’. La democrazia rappresentativa come è fatta oggi non è in grado di fornire veri rappresentanti delle volontà popolari. Non a caso tutti questi movimenti chiedono strumenti di democrazia diretta.
E questa crisi della democrazia rappresentativa la preoccupa?
Sì. Ma è stato fatto di tutto per arrivare a questo esito. Oggi serve una riscrittura sociale delle regole, ma l’Unione punta i piedi. Draghi parla del pericolo del nazionalismo e del populismo e annuncia che ‘a piccoli passi si rientra nella storia’. Che vuol dire? Che il Fiscal compact, privo com’è di qualsiasi vincolo sociale, permette una felice uscita dalla storia, e di questo dovremmo esser grati?
Draghi ha spiegato anche che il mercato unico, l’euro, l’Unione sono legami che servono a prevenire nuovi disastri.
Ma quali legami? L’Europa si sta sfasciando, con l’Est che va da una parte, la Francia dall’altra, il Regno Unito fuori. Si discute di deficit eccessivo in vari Paesi, ma da anni il surplus commerciale in Germania supera il tetto consentito del 6 per cento, permettendole di drenare ricchezza dal resto dell’Unione, e nessuno dice niente.
Nella campagna elettorale per le Europee si parlerà di temi sociali o di migranti?
Spero che il punto forte sia il tema sociale da cui discende tutto il resto, inclusa la cosiddetta questione della migrazione. Sbagliava il ministro Minniti quando fece capire che sarebbe scoppiata una bomba sociale se non si fermavano gli arrivi e le operazioni di Ricerca e Salvataggio. È la bomba sociale che ha creato questa percezione del pericolo migranti.
Come giudica l’opposizione del Pd al governo?
Nefasta. Sventolano l’europeismo e poi s’indignano con chi vuol ricostruire l’Unione partendo dal sociale. E sul tema migranti sono gli ultimi a poter criticare: la politica di Minniti ha prodotto accordi con la Libia messi sotto accusa dal Consiglio d’Europa, dall’Onu. Salvini agisce in violazione delle leggi internazionali che vietano il respingimento di rifugiati, ma Minniti in questo lo ha preceduto.
Però ha funzionato: gli sbarchi sono calati.
Anche i campi di concentramento hanno funzionato. Gli sbarchi sono diminuiti e i morti in mare sono aumentati. Preferirei quasi che dicessero: ‘Li vogliamo morti in mare’. Almeno direbbero la verità.
il manifesto 22.12.18
Sinistra, non ci serve un Marx minimalista
Sinistra. di studi su Marx, hanno riproposto la discussione su teoria critica e politica
di Fabio Vander
A proposito di Marx. Alcuni interventi sul Manifesto, prendendo spunto dalla recente ripresa di studi su Marx, hanno riproposto la discussione su teoria critica e politica. Rossana Rossanda è tornata sul problema del “soggetto ‘rivoluzionario’”, oggi che la classe operaia tradizionalmente intesa pare non più centrale nel processo produttivo come una volta.
Paolo Favilli ha giustamente invitato a non indulgere nelle teoriche, quelle sì superate oltre che esiziali, dell’autonomia del Politico, perché comunque ancora oggi la “soggettività” si definisce a partire dalla “collocazione economico-sociale”. In altre parole anche nel tempo della globalizzazione “le ragioni dell’opposizione tra capitale e forza lavoro hanno le loro radici all’interno del rapporto di produzione”. Critica politica e critica del capitalismo continuano a presupporsi. E il problema della soggettività politica della sinistra va ripensato a partire da qui.
Vero questo, però non capisco perché Favilli sostenga che “non esiste un sistema di Marx”, deducendolo dal fatto che il Capitale è uno studio “non-finito”.
Marx non lo finì perché morì prima di terminarlo (tanto che i libri secondo e terzo, incompiuti, furono pubblicati da Engels e Kautsky), ma l’impianto dell’opera è radicalmente sistematico. Favilli parla di “un ‘non finito’ strutturalmente necessario”, ma è proprio questa necessità strutturale il sistema. Sistema del divenire sociale e quindi politico. Marx era troppo allievo di Hegel per non sapere che secondo la Fenomenologia “la verità si realizza solo come sistema”.
Di un Marx ‘minimalista’ non abbiamo bisogno. Oggi meno che mai.
Corriere 22.12.18
Film & politica
Un cartoon sul giovane Marx
Così la Cina corteggia i Millennial
Protagonista di una nuova serie tv, il padre del comunismo è un ragazzo innamorato
di Monica Ricci Sargentini
Karl Marx in versione sentimentale. Sembra un po’ questa l’idea del cartone animato The Leader, fortemente voluto dal presidente cinese Xi Jinping per avvicinare i giovanissimi alla vita e alle opere del filosofo tedesco, considerato il padre del comunismo. La serie televisiva, in sette puntate, verrà distribuita dalla piattaforma di animazione e giochi online Bilibili, che non ha ancora annunciato la data di emissione. In rete, però, si trova già un trailer di due minuti in cui l’autore del Capitale non appare come l’austero uomo con la barba che tutti ricordiamo ma un giovane aitante, innamorato perdutamente di Jenny von Westphalen, la più bella della città di Trier, la città di Marx. Il corteggiamento della ragazza viene osteggiato dalla famiglia di lei per la differenza di ceto e qui la tematica della lotta di classe viene inserita in un modo ritenuto più comprensibile ai Millennial.
Dalla vita privata si passa poi alla politica tramite il racconto dell’amicizia con Friedrich Engels, coautore del Manifesto del Partito Comunista, e l’incontro con le folle di poveri che lottano per sopravvivere. Nell’anticipazione Marx viene descritto come «un grande uomo che si erge tra il cielo e la terra, il cui sistema ideologico ha svegliato il proletariato di tutto il mondo e ne ha influenzato lo sviluppo». La piattaforma Bilibili si dice fiduciosa che il cartone animato possa avere successo tra il pubblico.
Nei giorni scorsi, il presidente cinese, Xi Jinping, ha definito il marxismo come «l’ideologia guida» della Cina e in occasione dei 200 anni dalla nascita del filosofo tedesco, il 4 maggio , aveva parlato di Marx come di «uno dei più grandi pensatori dello scorso millennio». La Cina, ha aggiunto Xi, «deve usare il marxismo per risolvere le questioni pratiche». Di qui l’indicazione di far conoscere ai cittadini, anche i più giovani, la storia del filosofo.
Certo ai più appare difficile considerare la Cina di oggi un Paese marxista ma per il presidente cinese l’ideologia comunista è diventata lo strumento per coltivare la lealtà del partito e rafforzare la sua autorità.
Sempre quest’anno sono andati in onda altri due programmi sull’autore del Capitale: lo show tv Marx Got it Right (Marx ci ha visto giusto) in cui si spiegavano i suoi ideali in modo semplice e un documentario dal titolo Marx l’intramontabile in cui si racconta la storia del Manifesto del Partito Comunista.
I ragazzi cinesi cominciano a studiare le teorie marxiste nella scuola media e gli impiegati pubblici devono fare dei corsi sul tema per essere promossi. Il Manifesto del Partito Comunista è una lettura obbligatoria per tutti i funzionari del Partito.
Pechino usa sempre più i cartoni animati come un’arma di propaganda. Ne è un esempio il filmato di dieci minuti ideato dal ministero dell’educazione in cui si insegna ai bambini l’importanza dei «segreti di Stato» e quali sono i modi per capire se qualcuno nella famiglia è una spia. Nel 2016 il ministero per la sicurezza nazionale ha prodotto una serie di cartoni, sempre diffusi online, in cui personaggi occidentali come Mr Bean, James Bond e Spongebob tentavano di carpire informazioni per indebolire il Paese.
Corriere 22.12.18
Cina ed Europa insieme
Nuova fase di cooperazione
di Li Ruiyu
Ambasciatore della Repubblica Popolare Cinese in Italia
Caro direttore, la Cina guarda con favore a un’Europa unita, stabile, aperta e prospera e sostiene il processo di integrazione europea, nonché la promozione reciproca dei rapporti con le istituzioni europee e i Paesi europei. Il governo della Repubblica popolare lo conferma nel terzo documento sulle politiche rivolte all’Europa pubblicato il 18 dicembre del 2018, anno che ha segnato il 15° anniversario del partenariato strategico globale sino-europeo e il ventennale della creazione del meccanismo di incontri tra leader di Cina e Unione Europea. La Cina è la seconda economia e il più grande Paese in via di sviluppo nel mondo. L’Ue è un organizzazione internazionale con il maggior livello di integrazione. Con un quarto della popolazione mondiale e un terzo della produzione economica globale, la Repubblica popolare cinese e l’Ue rappresentano due forze tra quelle più importanti sullo scenario internazionale. Di fronte a un periodo di cambiamento profondo e radicale, le due parti devono avere un’ottica altamente strategica e lungimirante per i rapporti tra di esse e a portare avanti uno spirito di unione di fronte alle avversità.
Cina e Europa hanno interesse a rafforzare il concetto di cooperazione win-win. Quest’anno si celebra il 40° anniversario dell’avvio della politica di Riforme e Apertura della Cina. Negli ultimi quattro decenni, la cooperazione sino-europea ha raggiunto risultati importanti, l’interscambio bilaterale è aumentato più di 250 volte. Il 2018 è l’anno del turismo sino-europeo e ha visto flussi di oltre 7 milioni di persone. Attualmente, vi sono più di 70 meccanismi di dialogo bilaterale che coprono quasi ogni settore di cooperazione. Spero che le due parti accelerino i negoziati per raggiungere accordi sugli investimenti e quelli sulle denominazioni di origine e che incentivino il combinarsi tra l’iniziativa «Belt and Road» e la «Strategia per l’interconnessione tra Asia ed Europa» della Ue.
Cina e Europa devono rendere più serrato il coordinamento riguardo alla governance globale. L’economia e il commercio mondiale si trovano in un momento di debolezza e difficoltà. In tale contesto, Cina e Europa devono migliorare la comprensione reciproca al fine di tutelare il multilateralismo e il libero scambio. E’ necessario abbandonare del tutto la logica desueta dell’unilateralismo e del gioco a somma zero al fine di migliorare l’equità, inclusione e la sostenibilità del sistema di governance dell’economia globale. Auspico che l’Europa si attenga ai principi e ai regolamenti internazionali dell’Organizzazione mondiale del commercio circa apertura del mercato e ingresso degli investimenti, così da generare un ambiente sempre più accogliente per la cooperazione economica e tecnologica sino-europea. La Cina è pronta a continuare a rafforzare il dialogo con l’Europa in seno agli organismi internazionali come l’Onu e il G20 per contribuire alla pace, alla prosperità e alla stabilità del mondo intero.
Cina ed Europa devono rafforzare il dialogo tra le civiltà differenti. Tra Cina e Europa non esistono conflitti di interesse di base, ma vi sono delle differenze a livello di storia, cultura e sistemi sociali ed è innegabile che vi siano idee e vedute differenti su diverse questioni. Le divisioni e i contrasti che sono emersi su alcuni aspetti della cooperazione sono da considerarsi normali fastidi che si incontrano in un percorso di crescita e riflesso della intensità della cooperazione. Il percorso di sviluppo dei rapporti sino-europei ci insegna che se le due parti si attengono al rispetto reciproco, portano avanti il dialogo, cercano i punti di vicinanza e accettano le differenze, allora i rapporti bilaterali possono avere uno sviluppo sano ed equo. Auspico che Cina e Europea possano rafforzare costantemente la fiducia reciproca al fine di tutelare i mutui interessi legittimi e affidarsi a un approccio costruttivo nella gestione delle differenze e degli attriti.
L’Italia è uno degli Stati fondatori dell’Unione Europea e la sigla del «Trattato di Roma» 61 anni fa viene considerata come una pietra miliare del processo di integrazione europea. La Cina guarda al vostro Paese come a un amico affidabile in seno all’Ue ed è convinta che lo sviluppo ulteriore del partenariato strategico globale sino-italiano è nell’interesse dei due Paesi e dei loro popoli. La Cina intende cogliere insieme all’Italia tutte le opportunità e promuovere i rapporti bilaterali affinché possano divenire un modello d’avanguardia tra quelli del nostro Paese con gli altri Stati europei e possano dare un contributo sempre maggiore allo sviluppo della cooperazione e dell’amicizia sino-europea.
Il Fatto 22.12.18
La sinistra a cinque Stelle
Il Pd non ha più alcun modello di società da perseguire, è privo di identità e visioni: per paura di affrontare questo vuoto di idee costringe il M5S, che ha intercettato gli elettori delusi, ad appiattirsi sulla destra sovranista della Lega
di Domenico De Masi
Con la sua bella prosa levigata Ezio Mauro è tornato a offrire, su Repubblica di mercoledì scorso, la propria visione dei tempi che corrono e del ruolo che dovrebbe giocarvi la sinistra.
A suo avviso, per sopravvivere e assumere la leadership, un partito di sinistra deve attingere al suo deposito di valori e ideali, deve rappresentare interessi legittimi, deve interpretare il Paese che intende guidare, deve avere la forza e la visione per aggiornarne con coraggio l’identità politica e culturale, deve offrire al suo elettorato potenziale un progetto, un gruppo dirigente e una leadership capaci di proporre alternative alla visione e al progetto del governo avversario.
Ma qui sta il problema. Chi possiede, oggi giorno, questa visone e questo progetto? Nella lunga storia dell’umanità, la nostra società postindustriale è la prima a essere sorta senza un preventivo modello teorico. Il Sacro Romano Impero nacque sul modello della città di Dio disegnato dai Vangeli e dai padri della Chiesa; gli Stati protestanti del Seicento derivarono dal modello disegnato da Lutero e Calvino; quelli liberali e industriali dell’Ottocento furono realizzati in base alle idee di Smith e Montesquieu; l’Italia di Cavour sulle idee di Gioberti, Mazzini e Cattaneo; la Russia sovietica sulle idee di Marx, Engels e Lenin. Nell’ultimo secolo alcuni Paesi hanno imitato il modello americano, epigono terminale del liberismo, e altri il modello sovietico, epigono terminale del comunismo, ma ora che questi due modelli sono in crisi, tutti ripiegano su un confuso collage di idee e di personaggi, scontando la mancanza di una visione e di un progetto in base al quale definire le differenze tra vero e falso, bene e male, destra e sinistra. Non sapendo dove andare, nessun vento ci è favorevole. Qualche anno fa fece scalpore la dichiarazione di Fabrizio Barca a quelli della Zanzara: “Dietro il governo di Matteo Renzi non c’è un’idea”. Ma che idee ci sono dietro Trump, Putin, May o Merkel?
I modelli di società non sono elaborati dai politici ma dagli intellettuali e, se oggi la società è priva di paradigmi, visioni e progetti, sono gli intellettuali che – a differenza di quanto fecero ai loro tempi, Voltaire e Diderot – hanno tradito il loro compito lasciando la politica in balia dell’economia, della finanza e delle agenzie di rating.
Dopo il New Deal, il liberismo, riconoscendosi inadeguato, dette mano a una revisione radicale del suo paradigma e le scuole di Vienna e Chicago apprestarono una ricetta neo-liberista destinata a diventare pensiero unico. Invece il marxismo, dopo la caduta del Muro di Berlino, non ha fatto nulla per produrre un serio neo-marxismo. Nel vuoto di idee, i più spregiudicati, snob e sguarniti tra i teorici di sinistra arrivarono ad adottare e spacciare le idee neo-liberiste come forma avanzata di marxismo.
La parabola del Partito comunista italiano e del suo nome resta esemplare: da Gramsci a Berlinguer, passando per Togliatti, il Pci rappresentò il punto di riferimento del proletariato, sempre più autonomo dall’Unione Sovietica. A partire dal 1991 il Pds, capeggiato da Achille Occhetto e Massimo D’Alema, virò verso una socialdemocrazia che amava definirsi post-comunismo. A partire dal 1998 il Pds, diretto da D’Alema, Veltroni e Fassino, si colorò di “liberalismo sociale”. A partire dal 2007 il Pd, guidato da Veltroni, Franceschini, Bersani ed Epifani, virò ancora inquinandosi, oltre che di “liberalisno sociale”, anche di “cristianesimo sociale”. In tutta questa metamorfosi il ruolo ispiratore di Repubblica non fu secondario.
A questo punto, il Pd era pronto alle scorribande di un qualche Matteo Renzi che lo blindasse in una formazione politica compiutamente neo-liberista. A certificare questa avvenuta ultima mutazione, il Pd si sarebbe chiamato Partito della Nazione. “Alla fine – come ha scritto Luciano Canfora – non resta più nessuno, e quella larva di formazione politica, che viene chiamata con modo insapore ‘partito democratico’ è abitata da figure della più diversa o nulla provenienza, pervase da pulsioni e rivalità di tipo meramente personalistico”.
Ora Ezio Mauro, proseguendo nella scia dell’azione pedagogica di Repubblica, mette in guardia il Pd dalla tentazione di aprire un dialogo con i 5Stelle per due motivi: per ora il Pd è privo di un’identità forte, risolta, capace di dare coscienza compiuta di sé, e sicurezza nella rotta; in questa prima fase di governo Salvini-Di Maio, il Movimento 5 Stelle è complice della discesa sul Paese, fino a cambiarne l’anima, dell’egemonia di una nuova destra sovranista, antieuropea, razzista.
Non c’è dubbio che negli ultimi nove mesi abbiamo conosciuto un’Italia sovranista, antieuropea, razzista che esisteva fin da prima, ma che ci ostinavamo a minimizzare. E non c’è dubbio che l’unico merito di Matteo Salvini sta nell’averla evocata e convocata in tutta la sua portata, svelandola ai sociologi come me e ai giornalisti come Mauro, che per dovere professionale avrebbero dovuto soppesarla e denunziarla per proprio conto e con maggiore tempestività.
Mauro conviene sul fatto che 5Stelle e Lega sono due formazioni politiche distinte nelle loro basi sociali, portatrici di “due idee del Paese concorrenti e diffidenti, con interessi divaricati e rappresentanze contrapposte”. Deve dunque ammettere che se la Lega – come è sotto gli occhi di tutti – rappresenta una compagine decisamente sovranista, antieuropea e razzista (io direi pre-fascista), dunque il Movimento 5 Stelle, avendo interessi divaricati e rappresentanze a essa contrapposte, non può avere come sua strategia quella di attirare “cittadini e istanze di sinistra, per poi convertirli a una politica apertamente di destra, marchiata dall’ossessione contro i migranti”.
Volesse Iddio che i 5Stelle perseguissero una strategia! Il fatto è che essi sono un “movimento”, cioè un mucchio di sabbia, volatile rispetto alla Lega che è un solido mattone. In quel mucchio di sabbia convivono granelli di destra e di sinistra: secondo uno studio dell’Istituto Cattaneo, al momento delle elezioni il 45% del suo elettorato era di sinistra; il 25% di destra e il 30% fluttuante. Sempre secondo il Cattaneo, il 4 marzo ha votato per i 5Stelle il 37% degli insegnanti, il 37% degli operai, il 38% dei disoccupati e il 41% dei dipendenti della Pubblica amministrazione. Hanno votato 5Stelle un iscritto alla Cgil su tre e 1,8 milioni di ex votanti per il Pd.
Si tratta di un movimento dichiaratamente populista che ha capito prima degli altri come si gestisce il populismo in un universo politico in cui, dopo l’avvento di Internet, ogni formazione politica è costretta a fare i conti con il populismo e dal populismo può uscire o come forza democratica o come strumento di autoritarismo. Spingere i 5Stelle a considerarsi fratelli siamesi della Lega, dotati di un istinto di destra che li destina a essere antieuropei e xenofobi irriducibili, rappresenta un azzardo intellettuale troppo rozzo per un intellettuale come Ezio Mauro, aduso alla raffinatezza delle sfumature.
il manifesto 22.12.18
Botta e risposta Raggi-Ciaccheri su Mimmo Lucano
Roma. La prima cittadina della capitale infastidita per la concessione della cittadinanza onoraria concessa dal municipio VIII al sindaco di Riace. Ma è solo una iniziativa simbolica, di sensibilizzazione
Mimmo Lucano riceve la targa della cittadinanza onoraria dal presidente dell'VIII municipio Amedeo Ciaccheri
di Rachele Gonnelli
La sindaca pentastellata della capitale Virginia Raggi non ha gradito il successo dell’iniziativa celebrata al teatro Palladium l’altro ieri sera, nel quartiere della Garbatella, per il lancio della candidatura a premio Nobel per la Pace del paese di Riace per il modello di integrazione tra residenti e migranti realizzato dal sindaco Mimmo Lucano, alla presenza anche del governatore del Lazio Nicola Zingaretti.
Durante l’iniziativa il presidente del municipio VIII Amedeo Ciaccheri, che fa parte del comitato promotore per il Nobel insieme alla rivista Left e alle Chiese Evangeliche, ha anche consegnato una targa che riconosce simbolicamente la «cittadinanza onoraria» a Lucano, solo però per quel quartiere di Roma, beninteso, anche se tra i più popolosi. «Madame le maire c’est moi!», deve aver pensato Virginia Raggi, così al mattino ha preso carta e penna e ha mandato al mini-sindaco una lettera stizzita nella quale protesta «l’irritualità della procedura, in quanto la cittadinanza onoraria di Roma capitale è concessa al sindaco su deliberazione dell’assemblea capitolina», con l’aggiunta che «nella prassi consolidata» quest’onore viene riconosciuto previa istruttoria sui motivi di merito della domanda e «solo l’assemblea capitolina è deputata» a individuare persone non residenti «che abbiano incarnato i valori fondanti della città». Segue firma a svolazzo.
Il giovane presidente del municipio VIII le ha risposto a giro-posta con altra missiva protocollata tirando in ballo addirittura il mito di Enea, fondatore della città di Roma, fuggito dalla guerra di Troia. Tanto per ricordare i valori fondanti dell’Urbe. E dunque – sprona Ciaccheri – se la prima cittadina e l’intera aula Giulio Cesare ritengono di «condividere il messaggio di pace, solidarietà e fratellanza tra i popoli che si diffonde da Riace», si ritenga impegnato a promuovere il riconoscimento della vera cittadinanza romana ad honorem a Mimmo Lucano in Campidoglio. Essendo del tutto «ovvio il valore puramente simbolico» della targa del VIII municipio.
Il capogruppo capitolino del Pd Giulio Pelonzi ha quindi preso la palla al balzo per tentare di «stanare» la maggioranza cinquestelle sul tema delicato dell’accoglienza e ha subito presentato una mozione che a norma di Statuto di Roma capitale riconosca effettivamente la cittadinanza onoraria a Mimmo Lucano e perché l’assemblea comunale aderisca alla campagna appena aperta per l’assegnazione del premio Nobel a Riace. C’è da segnalare oltre a un comunicato di critiche della Lega, la protesta di 5 militanti di Casa Pound davanti alla sede dell’VIII con lo striscione «Questa non è accoglienza, è delirio di onnipotenza», evidentemente all’indirizzo di Ciaccheri, sulla cui scia si pone ora la sindaca. r. g.
La Stampa 22.12.18
“La democrazia viene umiliata”
Napolitano in campo con Bonino
di Ugo Magri
Le immagini ingannano: Emma Bonino nega di essere scoppiata in lacrime, «è una fake news» taglia corto. Ma certo questa donna-simbolo, che da una vita si batte per i diritti civili e la nonviolenza, era sopraffatta dalla tensione dopo l’intervento in aula, giovedì sera, e travolta dalla fatica di arrivare in fondo tra strepiti, interruzioni, volgarità. Dai banchi della maggioranza le hanno urlato di tutto, con rabbia, quando la senatrice radicale si è rivolta ai colleghi giallo-verdi denunciando la miseria politica in cui l’Italia è precipitata: «Voi state passando addosso alle istituzioni come dei rulli compressori», ha alzato la voce, «il vostro è il più grave attacco nella storia della Repubblica alla democrazia rappresentativa e alla Costituzione». Anziché esaminare la Manovra del Popolo, nella bomboniera di Palazzo Madama si è rappresentata per due giorni la farsa di un confronto sul nulla, in attesa del maxi-emendamento governativo che arriverà soltanto oggi, e ci saranno solo sei ore e mezzo di tempo per leggerlo, discuterlo, votarlo alle 22,30. Dopo mesi di negoziazioni con Bruxelles, adesso il governo ha una dannata fretta. Bonino considera questa ghigliottina imposta al dibattito come una ferita intollerabile, uno scempio che travolge gli equilibri tra i poteri, che «umilia il Parlamento, lo esautora, lo riduce all’irrilevanza». E non è la sola a considerare scandaloso ciò che sta accadendo. Altre figure che hanno avuto grandi responsabilità, nella politica e nelle istituzioni, avvertono in queste ore il dovere di farsi sentire.
Ieri mattina si è espresso Mario Monti, ex-premier, senatore a vita. Anche il Prof è intervenuto nell’aula del Senato, e pure la sua voce è stata sovrastata da un brusio tale da costringere la presidenza a chiedere un briciolo di educazione. Ma soprattutto, in totale sintonia con la denuncia di Emma, è sceso in campo Giorgio Napolitano. Fonti a lui vicine fanno filtrare che il presidente emerito «condivide profondamente l’allarme espresso dalla senatrice Bonino per la umiliante condizione», parole testuali, «riservata al Parlamento in occasione dell’esame della legge di Bilancio». Sbaglierebbe chi considerasse di poco conto lo sdegno dell’ex-presidente. Napolitano è stato per nove anni il massimo garante delle regole costituzionali, le ha interpretate e in qualche misura plasmate nelle fasi più drammatiche dell’emergenza. Per quanto ultranovantenne, resta un punto di riferimento per tutte le istituzioni. Non è solo per deferenza che mercoledì, alla tradizionale cerimonia di auguri sul Colle, Sergio Mattarella è andato di persona a salutarlo.
Confini invalicabili
C’è un comune sentimento, ai piani alti della Repubblica, che si riassume nella difesa di alcuni confini considerati invalicabili. Il primo tra questi è proprio il ruolo del Parlamento. Non più tardi di tre giorni fa Mattarella aveva sollecitato «rispetto per la democrazia rappresentativa», in quanto «espressione e interprete della sovranità popolare»: chi volesse svilire le Camere, aveva fatto intendere, si collocherebbe fuori dal perimetro costituzionale. Il richiamo preventivo del Quirinale non è bastato a impedire lo «stop and go» di misure che si fanno attendere fino alla frustrazione. Ieri finalmente Elisabetta Casellati, presidente di Palazzo Madama, ha chiesto al governo il minimo sindacale: cioè un atteggiamento «più rispettoso dell’assemblea del Senato». Con il premier Giuseppe Conte che non si allarma più di tanto: «Mi sarebbe piaciuto lasciare al Parlamento un più ampio margine di discussione. Ma non mi devo giustificare se la trattativa ha impegnato tutto questo tempo». È andata così, e amen.
La Stampa 22.12.18
“Una forzatura peggiore della legge truffa del 1953”
di Davide Lessi
«Il governo ha forzato i tempi del dibattito parlamentare». Alfonso Celotto, costituzionalista, critica la procedura adottata dall’esecutivo nell’intento di far approvare la manovra entro fine anno.
1 La senatrice Emma Bonino parla di un Parlamento «esautorato, umiliato e ridotto alla farsa». Condivide?
«In parte sì. Anche negli anni scorsi per le leggi finanziarie era stata utilizzata la prassi del maxi-emendamento con annesso voto di fiducia. Una pratica che risale al 1953 e alla cosiddetta “legge truffa”. Ma questa volta è andata anche peggio».
2 Peggio del 1953?
«In un certo senso sì. Perché quella riforma della legge elettorale, voluta dal governo De Gasperi, fu oggetto di lunghe discussioni in Aula. Un confronto che questa volta è mancato per ragioni di tempi. Anche l’esame delle commissioni è stato “pro forma”. In questo modo è stato compresso il concetto di rappresentanza. Non scordiamocelo: siamo pur sempre una repubblica parlamentare».
3 L’esecutivo M5S-Lega continua a porre la fiducia ai suoi provvedimenti. Lo ha fatto in oltre il 30 per cento dei casi, un dato superiore a quelli dei governi Renzi e Letta. Siamo di fronte a un superamento della democrazia rappresentativa?
«Anche il governo del cambiamento non può fare a meno della fiducia “ghigliottina” per tagliare i tempi. Sicuramente negli ultimi anni la democrazia parlamentare ha avuto un’evoluzione: manca l’intermediazione dei partiti di massa e il dibattito si è spostato fuori dall’Aula, magari sugli smartphone di politici e cittadini».
La Stampa 22.12.18
Se il popolo perde la sovranita’
di Mattia Feltri
Mi è quasi spiaciuto che Emma Bonino abbia negato di aver pianto, l’altra sera in Senato. Sarebbero state lacrime ben versate, al termine di una straziante e sublime orazione funebre in memoria della democrazia rappresentativa, ripetutamente interrotta con sguaiataggine e incoscienza a dimostrare lì per lì, una volta ancora, che la democrazia rappresentativa non c’è più. Sono seriamente tentata di non partecipare alla votazione di questa legge di bilancio, ha detto Bonino, e se ancora ci rifletto su è per amore del poco che rimane di queste nostre istituzioni; e quei ragazzi in gita parlamentare si sono abbandonati a sghignazzi e schiamazzi, sciaguratamente inconsapevoli di che significasse - specie in bocca a una radicale che, come ogni radicale, ha fatto del rispetto dell’architettura costituzionale un imperativo - una rinuncia del genere. Significa arrendersi alla fine della democrazia rappresentativa e dello Stato liberale.
Forse non è chiara la bancarotta di mille parlamentari costretti a votare sulla fiducia o non votare sulla sfiducia una manovra finanziaria di cui non hanno visto una riga, e nemmeno le vedranno, e sono mille parlamentari eletti proprio per leggerla, e soppesarla, e votarla o non votarla in coscienza e nell’interesse del popolo italiano. È un loro diritto e soprattutto è un loro preciso dovere, tra l’altro al cospetto della legge più importante, quella per cui si decide come si usano i nostri denari: «No taxation without representation», nessuna tassazione senza rappresentanza, come dissero i gloriosi padri della democrazia americana non l’altro ieri, bensì oltre due secoli e mezzo fa.
Ma se quelle aule sono ridotte a piazze di supporter in t-shirt, a sostegno di un leader o di quell’altro, e di scelte prese altrove e che nemmeno si conoscono, in palese tradimento dei loro elettori, la colpa non è di leghisti o cinque stelle, che sono semmai la conseguenza inevitabile di tre decenni di infamia. Per tre decenni i parlamentari sono stati chiamati scaldapanche, mangiatori a ufo, ladri, corrotti e mafiosi da sé stessi, da noi giornalisti, dal popolo medesimo in una spettacolare furia suicida. Il Parlamento è stato dichiarato inutile e dannoso, sono state drammaticamente confuse le sacre istituzioni con chi, spesso profano, le ha incarnate, e adesso il Parlamento svanisce, e con esso svanisce il luogo dove si esprime la sovranità del popolo. È così ed è ora che il popolo ha perso la sua sovranità.
Corriere 22.12.18
Dentro il Senato smarrito
Bonino in lacrime
E Napolitano: «Parlamento umiliato»
La senatrice: non avete il senso delle istituzioni
di Fabrizio Roncone
Prima impressione entrando nel salone Garibaldi, il transatlantico di Palazzo Madama: si è messa male, malissimo. Nessuna traccia del maxiemendamento, e sono già le cinque del pomeriggio. Seduta sospesa, buvette affollata (visto un grillino piuttosto famoso spararsi tre prosecchi uno dietro l’altro: le mani nel vassoietto delle noccioline, le guance rosse, una pena). Dalla buvette, sobrio, esce il senatore forzista Maurizio Gasparri.
«Le piace?».
Cosa?
«La mia cravatta. È il primo regalo di Natale che ho ricevuto. È la cravatta numero 516».
Le conta?
«Certo che le conto. Le colleziono… Ma perché, scusi, mi guarda così?».
C’è un’atmosfera surreale.
«No, non c’è niente di surreale. C’è, piuttosto, un governo un po’ arrogante e un po’ incapace».
Lei dice che…
«Io dico che prima calpestano il Parlamento, la democrazia. E poi ci lasciano qui, inermi, ad aspettare un testo sul quale, com’è chiaro, Di Maio e Salvini stanno ancora litigando furiosamente».
A questo punto, Gasparri si volta verso Alessandro De Angelis di Huffington Post, e gli fa: «Come finisce questa storia?».
Il livello è questo. La verità è che nessuno sa, nessuno prevede. I senatori di Forza Italia e Pd che - diciamo (cit. Massimo D’Alema) - sono all’opposizione, ne sanno quanto i commessi; i senatori di Lega e M5S, che invece qualcosa dovrebbero sapere, sono come sempre tagliati fuori da tutte le decisioni che prendono i loro grandi capi.
Passa Gianluigi Paragone (ex direttore del quotidiano leghista La Padania, è poi riuscito a farsi eleggere senatore dal Movimento 5 Stelle: nel genere, un fuoriclasse) e prova a buttarla sul ridere: «Il maxi-emendamento lo porterà dal Guatemala Alessandro Di Battista la notte di Betlemme» - ma non ride nessuno, anzi: Vito Crimi, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’Informazione, attacca a parlare del figlio di sette mesi.
Sarebbe da andarsene. Sensazione forte: essere in un posto sbagliato, inutile. Ma un pomeriggio così non puoi perdertelo, perché resterà tra le pagine più cupe della Repubblica.
Cupe, poi: poco fa, il gruppo del Partito Democratico si è riunito sorridente in foto (non si capisce se natalizia o solo ricordo). Chiaramente finto il sorriso di Matteo Renzi, in sovrappeso. Colleziona pranzi e cene, ascolta, cerca di capire gli spazi possibili del nuovo partito che ha in mente. Il sito Dagospia l’ha pizzicato a pranzo con Carlo Calenda. Calenda si è alzato entusiasta, i senatori del Pd, in larga parte di stretto rito renziano, hanno invece sguardi dubbiosi dai quali capisci che il maxiemendamento è l’ultimo dei loro (grossi) problemi.
Ovviamente però Andrea Marcucci partecipa alla riunione dei capigruppo. Solo che la riunione è stata appena sospesa. Pare per consentire un mini-vertice della maggioranza (dicono sia presente anche il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Riccardo Fraccaro).
Molti senatori leghisti e grillini camminano basiti. Nei loro discorsi: guizzi di stupore e curiosità.
Ma che succede?
Tu ci capisci qualcosa?
Boh.
Io figurati che un anno fa facevo l’insegnante.
Comunque è un casino.
Mi sa.
No, niente: nemmeno a Stefano hanno detto niente.
Stefano Patuanelli, il capo del battaglione grillino, è una persona mite e prudente. Un altro, al posto suo, in questo pozzo di silenzi, in questo pneumatico vuoto di autorevolezza, avrebbe fatto l’inferno. Ma lui è ancora un fedelissimo di Di Maio, e altri ce ne sono ancora, qui a Palazzo Madama. Poi, certo: il bevitore di prosecchi prima s’è lasciato sfuggire che «quando ho sentito Giggino ad Agorà parlare di Mattarella come del custode di questo governo, dopo che qualche mese fa voleva rimuoverlo dal suo incarico per alto tradimento, mi sono proprio messo a ridere» (ecco, con l’alcol sembra si lascino un po’ andare).
Il pomeriggio assume, con il trascorrere dei minuti, un carattere sempre più tragico. Dice la presidente del Senato, Elisabetta Alberti Casellati: «Mi corre l’obbligo di invitare la maggioranza e il governo ad avere un percorso legislativo più regolare». Poche ore fa, Emma Bonino si è commossa al termine del suo intervento: «Non avete il senso delle istituzioni». L’ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano, fa sapere che «condivide profondamente l’allarme espresso dalla senatrice Bonino per la umiliante condizione riservata al Parlamento».
I giri di parole sono inutili: umiliato, sfregiato, per la prima volta nella storia della Repubblica, il Parlamento sarà costretto a votare una manovra economica senza neppure avere il tempo materiale di riuscire a leggerla.
Sembra infatti che il maxi-emendamento arriverà qui soltanto tra qualche ora.
Sembra.
Probabilmente.
C’è questa incertezza, questa vaghezza. Come se il passaggio al Senato del maxi-emendamento deciso da pochi, pochissimi, rappresenti una seccante formalità.
La manovra del popolo. A chi è venuto in mente di chiamarla così?
Il Fatto 22.12.18
“Denuncia i razzisti”, campagna su tram e bus dell’Appendino
di Andrea Giambartolomei
“Le razze non esistono. I razzisti sì. E puoi denunciarli”. Tra pochi giorni sui mezzi pubblici di Torino e negli spazi pubblicitari comparirà questa frase affiancata dall’immagine di un paio di manette. È la campagna lanciata dall’amministrazione di Chiara Appendino contro l’intolleranza, voluta per arginare episodi accaduti in città, come ad esempio gli insulti alla giovane giocatrice di basket afroitaliana a bordo di un autobus o l’aggressione subita da un richiedente asilo la scorsa estate nei pressi di una chiesa in periferia. L’ultimo episodio è avvenuto in pieno centro domenica scorsa, quando un uomo italiano ha insultato (usando epiteti razzisti) una venditrice ambulante della Costa d’Avorio.
“Questa comunicazione è rivolta anche alle persone che sono a rischio di episodi di razzismo – illustra l’assessore alle Pari opportunità Marco Giusta –. Chi li subisce sa che può contare non solo sul supporto della polizia, carabinieri, polizia municipale, ma anche sulla presenza della questura e della prefettura. L’ex procuratore Armando Spataro aveva già a luglio diramato una circolare per evitare che i crimini a sfondo razzista fossero archiviati, è stato un segnale importantissimo nel cui solco entra questa campagna”.
La campagna, intitolata “Il razzismo non è un’opinione, è un crimine”, ricorda che “se insulti o aggredisci qualcuno per il colore della pelle rischi dai quattro ai cinque mesi di carcere”, come si legge nei manifesti. “l razzismo, al pari del sessismo, della violenza di genere, dell’omofobia e di altre forme di esclusione non hanno alcun posto”, continua l’assessore Giusta.
Il Fatto 22.12.18
Il Comune di Lodi cancella le norme discriminatorie
Il Comune ha cancellato le modifiche al regolamento che rendeva più difficile ai cittadini extracomunitari l’accesso ai servizi agevolati come la mensa scolastica: una scelta non spontanea, quella della sindaca leghista di Lodi Sara Casanova e della sua maggioranza, ma dovuta al fatto che il Tribunale di Milano ha giudicato quel regolamento “discriminatorio” e ne ha imposto la modifica. “Con una votazione terminata quasi all’alba il Consiglio Comunale di Lodi ha dato adempimento all’ordine del tribunale di Milano e azzerato le modifiche al regolamento che imponevano ai cittadini stranieri la presentazione di documentazione aggiuntiva dei Paesi di origine per accedere alle tariffe agevolate per le prestazioni sociali”, spiegano le associazioni che hanno seguito la vicenda fin dal primo momento. Le modifiche introdotte nell’ottobre 2017 sono state integralmente cancellate e la situazione è quindi tornata a essere quella che è sempre stata: ciascun cittadino di Lodi potrà accedere alle tariffe sulla base del proprio Isee e italiani e stranieri tornano a essere trattati in maniera uguale, nel dovere di fornire notizie sui loro redditi e patrimoni e uguali prima nel diritto di accedere alle prestazioni sociali.
il manifesto 22.12.18
L’Onu: «Orrori impensabili nei centri per migranti in Libia»
Rapporto Unsmil. Abusi della Guardia costiera libica e negli 11 centri di detenzione visitati con 1.300 racconti di migranti. La missione delle Nazioni Unite ricorda all’Italia e all’Ue: «Non è un paese sicuro». E l'Unhcr soddisfatta per i 103 rifugiati arrivati in Italia con il corridoio umanitario
di Rachele Gonnelli
«Si ubriacano e poi fanno ciò che vogliono di noi, ci toccano, ci tolgono i vestiti e dobbiamo pagare per uscire». Sono 1.300 i resoconti di prima mano raccolti dallo staff della missione di supporto delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil) che sono alla base del rapporto appena pubblicato sulle violazioni dei diritti umani in Libia negli ultimi 20 mesi, fino all’agosto scorso.
DESCRIVE UN CLIMA di continui abusi, stupri, maltrattamenti, lavori forzati, ricatti alle famiglie d’origine, mancanza di igiene, malnutrizione e assenza di cure mediche negli 11 centri di detenzione visitati in tutto il Paese, da Est a Ovest e dalla costa all’estremo Sud al confine con il Niger. Ma soprattutto l’orrore coinvolge non solo i contrabbandieri ma anche funzionari statali e milizie che fanno capo al governo di Tripoli sostenuto dalla comunità internazionale. Con un capitolo pesante a carico della Guardia costiera libica del governo Serraj che l’Italia ha rifornito di strumentazione, golette, formazione e al quale ha lasciato spazio per pattugliare e «soccorrere» in mare i barconi, allontanando le scomode ong.
SONO 29 MILA i migranti che sono stati riportati nell’inferno libico dai guardiacoste di Tripoli dall’inizio del 2017. Ecco come nel racconto di due donne sudanesi che hanno tentato la traversata il 18 gennaio di quest’anno: «Dopo otto ore in mare siamo stati intercettati dalla Guardia costiera, la loro lancia si è avvicinata a grande velocità facendo onde così grandi che la nostra barca si stava per rovesciare. Si sono messi a picchiare diversi passeggeri e ci schernivano “non c’è l’Italia per te”. Poi hanno dato succo e biscotti ma solo ai bambini e alle donne palestinesi e siriane, ai bambini neri nulla, poi hanno portato quelle donne in cabina e noi siamo rimaste sul ponte».
Altri racconti del centro di detenzione per migranti di Sabha, gestito da un certo «Gateau», parlano di morti fatti seppellire agli altri prigionieri e orribili torture. A Sabratha guardie ubriache che sparano senza ragione, donne lasciate morire dissanguate di parto assistite solo dalle altre prigioniere con solo un coltellaccio sporco e senza neppure acqua calda. A Bani Walid una donna della Costa d’Avorio cosparsa di benzina e bruciata perché non riusciva a pagare un riscatto di mille dollari. Nel centro di Gergaresh a Tripoli le donne nigeriane tra i 15 e i 22 anni costrette a prostituirsi dietro una tenda in una grande house of connection gestita da guardie libiche. E nel centro di Tarikal-matar sempre a Tripoli solo l’intervento Unsmil ha evacuato alcuni dei 1.900 migranti durante i combattimenti di quest’estate . Mentre altri sono stati trasferiti dalle milizie di Abu Salim ancora più vicini alla zona delle bombe e altri ancora sono riusciti a fuggire.
IL RAPPORTO ONU si conclude con alcune raccomandazioni, innazitutto ai Paesi europei, ai quali viene richiesto di non considerare assolutamente la Libia un Paese sicuro per migranti e richiedenti asilo. E poi alle stesse autorità libiche perché per prima cosa cambino le leggi risalenti all’87 e al 2010, periodo di Gheddafi, che non riconoscono i soggetti vulnerabili e i diritti dei rifugiati, criminalizzano l’immigrazione tout court e costringono i fermati a essere imprigionati come adibat, schiavo, o a pagare almeno mille dinari.
SODDISFAZIONE DELL’UNHCR intanto per l’arrivo in Italia ieri l’altro di 103 rifugiati evacuati dalla Libia (56 donne, 36 minori di cui 5 non accompagnati). Si tratta del primo gruppo destinate al canale umanitario attivato dalle ong cattoliche, che hanno potuto sostare nella nuova struttura di transito inaugurata poche settimane fa a Tripoli dall’Onu. Le donne sono state quasi tutte violentate, una aveva abortito ed era in grave stato di malnutrizione.
il manifesto 22.12.18
Il «ritiro» di Trump sulla pelle dei combattenti curdi del Rojava
di Alberto Negri
Quando il gioco si fa duro – politicamente serio – Trump se ne va da Siria e Afghanistan mollando al loro destino gli alleati curdi e il fragile governo di Kabul, assediato da talebani e affiliati dell’Isis. La sua è una modesta realpolitik: caricare la doppietta a salve sperando che riportare le truppe a casa e l’isolazionismo siano carte buone per vincere un secondo mandato.
Sullo sfondo però non c’è la fine dei conflitti nel Medio Oriente allargato ma loro prosecuzione con la «privatizzazione» delle guerre attraverso i “contractors”, cioè i mercenari: era già accaduto in Iraq dopo il ritiro Usa nel 2011 e avviene già oggi in Siria e nella ex roccaforte del Califfato a Raqqa.
L’obiettivo in Siria, oltre a vendere i Patriot a Erdogan, è riportare la Turchia nell’alveo della Nato, senza per altro riuscire a staccarla da Mosca e da Teheran (l’altro ieri Erdogan ha incontrato Rohani ad Ankara). In Afghanistan, dopo 17 anni di guerra, torna in gioco il Pakistan, che sostenne negli anni’90 l’ascesa dell’Emirato del Mullah Omar e proteggeva il fondatore di Al Qaeda, Osama bin Laden. Gli Stati Uniti, dopo essere stati ai ferri corti sia con Ankara che con Islamabad, al punto di imporre sanzioni finanziarie, tornano a puntare sui vecchi alleati ma a spese di coloro che il jihadismo lo hanno combattuto davvero.
I SOVRANISTI americani sono tra i principali traditori dei curdi, sia oggi come in passato. Ma non tradiscono soltanto loro: la Federazione della Siria del Nord, il Rojava, è uno dei pochi esperimenti, sia pure assai complicato, di convivenza tra curdi e arabi, oltre che rappresentare il tentativo di insediare in Medio Oriente un modello di governo locale laico, democratico e di sinistra che punta all’emancipazione delle donne e delle minoranze.
L’Occidente così rinuncia a fare l’Occidente: la Francia di Macron, insieme agli Usa nella coalizione anti-Isis, vorrebbe proteggere i curdi ma l’Europa resta sotto il ricatto, ben pagato dall’Unione, di Erdogan sui profughi siriani mentre Donald Trump ha pure la sfacciataggine di dichiarare vittoria, emulando i suoi predecessori, tra i quali Obama che nel 2011 lasciò l’Iraq al suo destino.
Dopo avere dato alla Turchia via libera nel cantone di Afrin, con il consenso della Russia di Vladimir Putin, adesso sui curdi siriani si rovescerà addosso l’apparato militare e l’aviazione di Erdogan che ha l’obiettivo di controllare 600 chilometri di confine con un’ampia «fascia di sicurezza» dentro al territorio siriano.
Non è un’amara novità: i curdi sono stati traditi con regolarità dai loro alleati a ogni tornante della storia.
Il primo a illuderli, in epoca contemporanea, fu il segretario di stato Henry Kissinger che negli anni Settanta incoraggiò la ribellione dei curdi iracheni perché allora Baghdad si opponeva a un accordo sulle frontiere con l’Iran dello Shah Reza Palhevi, alleato di ferro di Washington e investito del ruolo di guardiano del Golfo.
QUANDO L’IRAQ, proprio con Saddam Hussein, allora vicepresidente, firmò l’intesa di Algeri nel 1975 sul confine dello Shatt el Arab, gli americani abbandonarono i curdi al loro destino. Non servivano più.
Una replica ci fu nel1988 quando Saddam lanciò i gas contro i curdi uccidendo nell’area di Halabja almeno cinquemila persone. Nessuno disse nulla perché il raìs iracheno combatteva con il sostegno dell’Occidente e delle monarchie del Golfo contro la repubblica islamica dell’Imam Khomeini.
Lo stesso accadde negli anni Novanta. Dopo la guerra del Golfo del 1991 per la riconquista del Kuwait invaso dagli iracheni, il presidente Usa George Bush senior lanciò un appello ai curdi e agli sciiti affinchè si sollevassero contro il dittatore. Ma anche allora i curdi, così come le popolazioni del Sud, vennero massacrati.
Il destino dei curdi, oltre venti milioni divisi tra Turchia, Ira, Siria e Iran, è sempre stato in bilico e mai è stata attuata la promessa di uno stato curdo, previsto con lo smembramento dell’Impero ottomano dal tratto di Sèvres del 1920 e cancellato tre anni dopo da quello di Losanna per la strenua opposizione di Kemal Ataturk.
NELL’ANATOLIA del Sud Est _ coì Ankara chiama il Kurdistan _ i turchi si sono sempre opposti a ogni forma di autogoverno e la reazione negli anni Ottanta è stata la guerriglia e il terrorismo del Pkk di Abdullah Ocalan. Quando nel febbraio 2015 fu raggiunto un accordo di pacificazione tra il Pkk e Ankara il primo a violarlo è stato proprio Erdogan che nell’estate di quell’anno, dopo avere subito una battuta d’arresto elettorale con l’entrata in parlamento, per la prima volta, del partito curdo Hdp, lanciò una pesante offensiva contro i curdi distruggendo intere città e villaggi.
Più realisticamente i curdi siriani si sono posti come obiettivo di avere una loro regione autonoma nel Rojava. Questa autonomia se la sono guadagnata sul campo combattendo strenuamente da Kobane in poi contro l’Isis. Qui in Occidente sono stati acclamati come eroi e gli americani si sono serviti dei curdi siriani per combattere il Califfato fino a espugnare Raqqa, la capitale di Abu Baqr al Baghadi. Ma adesso Trump sceglie il terrorismo di stato di Ankara a coloro che hanno combattuto un duello mortale contro i jihadisti.
il manifesto 22.12.18
Rojava guarda all’Onu e a Damasco. Erdogan «congela» l’attacco
Siria. Dopo l'annuncio del ritiro Usa, il Kurdistan siriano si prepara a difendersi dalla Turchia. E mette in guardia: saremo costretti a sospendere la lotta all'Isis e 3.200 prigionieri islamisti potrebbero fuggire. L'Eliseo promette sostegno, ma a rischio c'è il più riuscito modello di democrazia del Medio Oriente
di Chiara Cruciati
Giovedì, poco dopo l’annuncio del ritiro Usa dalla Siria, in 100mila si sono presentati alla base della coalizione anti-Isis a guida statunitense a Kobane.
Curdi, arabi, armeni, turkmeni sono arrivati da Manbij, Raqqa, Ayn Isa con un identico messaggio, racchiuso nella lettera consegnata dal cantone di Kobane ai militari Usa: «Non accettiamo sporchi negoziati su di noi. Non accettiamo l’invasione dello Stato turco».
A Rojava, il Kurdistan siriano, sanno bene che significa il ritiro dei marines, consapevolezza rafforzata dalle indiscrezioni sul contenuto della telefonata tra i presidenti Trump ed Erdogan di una settimana fa: la Casa bianca avrebbe chiesto ad Ankara se fosse in grado di sradicare l’Isis dal nord della Siria, Ankara ha risposto che lo ha già fatto.
Ma, raccontano attentati e infiltrazioni, l’Isis c’è ancora. E un’operazione turca costringerà a rivedere le priorità. Le Forze democratiche siriane (Sdf) stanno già pensando a un trasferimento dei combattenti verso l’Eufrate e Manbij per fermare i turchi e i loro pretoriani, i miliziani di opposizione islamista, lasciando così scoperto il fianco a est (i fronti a Raqqa e Deir Ezzor) al confine con l’Iraq, dove migliaia di islamisti sono operativi. Lo ha ricordato ieri l’attacco contro la zona di Hajin, da poco liberata, e quello di giovedì a Raqqa.
I curdi non hanno altri amici che le montagne, il tradimento era atteso: «Non erano qui per proteggerci – ha detto ieri all’agenzia curda Anf il co-presidente delle relazioni diplomatiche del Pyd, Salih Muslim – I nostri interessi coincidevano e abbiamo agito insieme, ma non abbiamo mai contato su di loro». Ora la regione autonoma cerca impegno da altri attori: dall’Onu, a cui chiede di inviare forze di pace, e dalla Francia, presente con qualche centinaio di truppe, perché dichiari una no-fly zone per prevenire l’assalto turco.
Che per ora pare rinviato: ieri Erdogan ha detto che lo posporrà finché non vedrà «i risultati sul terreno della decisione Usa». Il rinvio è figlio dell’incertezza intorno all’annuncio trumpiano. Prima si è dimesso il capo del Pentagono, Mattis, contrario al ritiro e poi sono intervenute Francia e Germania a ricordare che l’Isis c’è ancora. Dall’Eliseo ieri è giunta la prima promessa di sostegno alle Sdf.
Da parte loro le unità di difesa curde, Ypg e Ypj, e le Sdf – oltre a sottolineare che sarà impossibile combattere il «califfo» se dall’altro lato a colpire c’è il secondo esercito della Nato – fanno notare che una tale operazione impedirà la già difficile gestione dei 3mila prigionieri dell’Isis, catturati in questi anni.
Un fardello enorme su cui Rojava ha spesso richiamato l’Occidente, trattandosi per lo più di foreign fighters: riprendeteveli o aiutateci a gestirli. Ma in un contesto di guerra le prigioni sono le prime a collassare, con la conseguente fuga di 3.200 islamisti.
Molto probabile che i curdi si rivolgano a Mosca e Damasco, con cui è in corso un dialogo sul futuro dell’autonomia di Rojava, a cui il governo centrale ha prestato l’orecchio: ripiegare su Assad per evitare una pulizia etnica come quella sperimentata dal cantone di Afrin dopo l’invasione turca di marzo, 300mila sfollati sostituiti da miliziani sunniti e familiari.
Per Ankara Afrin è l’enclave in territorio siriano necessaria a ridare fiato alle opposizioni islamiste e a mantenere un corridoio di approvigionamento al bubbone jihadista di Idlib. A rischio c’è un progetto unico, il confederalismo democratico, che ha trasformato il volto della Siria del Nord e proposto un modello all’intero Medio Oriente, anti-settario, anti-patriarcale e di democrazia diretta.
Il Fatto 22.12.18
Usa via dalla Siria (ma salvate i Curdi)
di Massimo Fini
La decisione di Trump di ritirare il contingente americano (2.000 uomini) dislocato in Siria è double face. Quella positiva è il ritorno, che sotto Trump ha già qualche precedente con la pace con la Corea del Nord, al tradizionale isolazionismo repubblicano che era stato rotto dai due Bush. Con Trump non ci saranno più guerre sciagurate e questo dipende proprio dal nucleo centrale della sua dottrina, quell’“America first” che ha come credo la supremazia dell’economia sulla politica. Perché è proprio per l’economia che i ceti medi americani lo hanno votato facendo piazza pulita degli ipocriti snob, dalla Clinton allo star system di Hollywood.
Ci saranno solo, e sono già in atto da quando The Donald è al potere, guerre commerciali (con la Cina, con l’Europa e con qualsiasi altro concorrente). Trump da buon imprenditore è molto attento al quattrino e per lui la geopolitica è solo in funzione dell’economia (avrebbe potuto essere la parte di Berlusconi se non si fosse poi rivelato un delinquente comune, cosa che Trump non è). È quindi comprensibile che Trump non voglia buttar via soldi mantenendo 2.000 uomini sul terreno in Siria, quando l’obiettivo principale, o almeno quello dichiarato, era l’Isis. L’Isis combattente – e qui Trump ha perfettamente ragione – in Medio Oriente non esiste praticamente più, si è spostato in Pakistan, in Afghanistan, in Cecenia. Questo atteggiamento di Trump può dare anche qualche speranza all’Afghanistan dove gli americani mantengono 14 mila uomini e basi che gli costano 45 miliardi di dollari l’anno. E infatti è proprio di queste ore l’annuncio di Trump di voler ritirare 7 mila uomini dall’Afghanistan, inoltre a Doha ci sono trattative fra emissari talebani e americani con lo scopo di porre fine a una guerra che si trascina, senza risultato, da 18 anni.
Infine, nonostante tutte le sciocchezze sul Russiagate, i rapporti fra Trump e Putin appaiono ottimi. I due hanno preso atto che, dopo il collasso dell’Urss del 1989, i tempi della “guerra fredda”, intesa in modo tradizionale, sono finiti. E questo per chi ha vissuto l’epoca dell’“equilibrio del terrore” è un grande sollievo (si veda il recentissimo film Cold War diretto dal regista polacco Pawel Pawlikowski).
La faccia negativa è il consueto sacrificio dei curdi lasciati in balia della Turchia che certo non si farà sfuggire l’occasione. Già nel lontano 1991 il giornalista americano William Safire scriveva sul New York Times: “Svendere i curdi… è una specialità del Dipartimento di Stato americano”. E se mi è permesso nel 1990 durante la guerra del Golfo avevo scritto un pezzo per l’Europeo intitolato “Chi si ricorda dei poveri curdi”, poi “Perché l’Onu non aiuta i curdi?” (Europeo, 26.4.1991) e in seguito ho scritto decine di pezzi, anche sul Fatto, a favore dell’indipendentismo curdo. La popolazione curda, che è l’unica legittimata a occupare un territorio che non a caso si chiama Kurdistan, è divisa arbitrariamente fra quattro Stati, Iraq, Iran, Siria e Turchia. Quest’ultima ha sempre condotto una guerra spietata all’indipendentismo curdo perché nel Paese ora governato in modo dittatoriale da Erdogan, i curdi sono circa 14 milioni e la Turchia ha sempre temuto che l’indipendentismo curdo sparso nei vari Stati si potesse unire. Nel 1988 la Turchia siglò un patto leonino con Saddam Hussein che prevedeva che gli eserciti turchi e iracheni potessero uscire dai propri confini dando la caccia ai guerriglieri curdi la cui debolezza è sempre stata quella di essere divisi fra il PDK di Barzani e il PKK di ispirazione comunista guidato sino alla fine degli anni 90 da Ocalan che poi, rifugiatosi in Italia, fu vergognosamente consegnato alla Turchia dal governo D’Alema. Con i curdi si è sempre fatta la politica dell’“usa e getta”. Nella guerra all’Isis, in cui sono stati determinanti perdendo nei combattimenti contro i feroci guerriglieri di Al Baghdadi, forse oggi i migliori del mondo perché a loro nulla importa di morire, 10 mila uomini.
Attualmente i curdi hanno nelle loro mani dai 3.000 ai 5.000 prigionieri dell’Isis, perché i guerriglieri del Califfato hanno preferito consegnarsi a loro, riconoscendosi in qualche modo negli stessi valori tradizionali, piuttosto che agli iracheni o agli americani per non finire come gli afghani a Guantanamo. In quanto agli Usa hanno sempre sorvolato sulle infinite violenze fatte dal governo turco sugli indipendentisti curdi dentro e fuori il proprio Paese. L’appoggio degli Usa all’alleato turco, anche se oggi questa alleanza è un po’ traballante, è sempre stata una costante americana e non si può quindi accusare solo Donald Trump se continua questa politica, moralmente ripugnante ma di lunghissimo corso.
Il Fatto 22.12.18
Afganistan
Per l’Italia è arrivato il momento di uscirne
di Salvatore Cannavò
La decisione di Donald Trump sancisce un fallimento storico. L’Afghanistan, infatti, rappresenta la guerra più lunga mai combattuta dagli Stati Uniti. Nata a seguito dell’attentato alle Torri gemelle, avrebbe dovuto portare all’abbattimento del regime dei talebani e al ristabilimento della democrazia a Kabul.
A fine 2017 i talebani occupavano il 40% del territorio afghano mentre nel 2015 erano ancora fermi al 28%. Dopo 17 anni di conflitto, a parte una riduzione dell’analfabetismo dal 68% al 62%, l’Afghanistan ha ancora il più elevato tasso di mortalità infantile e le aspettative di vita più basse del pianeta (dati dell’Osservatorio sulle spese militari italiane).
La classifica di Transparency International colloca il Paese al 169° posto su 176 e lo Stato di diritto è ancora una chimera lontana. Secondo i dati della Unhcr, l’Afghanistan è il secondo Paese al mondo, dopo la Siria, per numero di rifugiati in fuga: 2,6 milioni di persone nel 2017, gran parte delle quali in Europa.
L’Italia, dopo gli Usa, è il Paese con più soldati sul campo: 978 gli uomini impiegati per una spesa complessiva in questi 17 anni pari a 7,5 miliardi. I militari caduti sul terreno sono 53.
La mossa di Trump è chiaramente fatta per parlare al proprio elettorato e per affermare il principio che gli Stati Uniti preferiscono stare al riparo delle mura domestiche che fare “il poliziotto del Medioriente”. Però costituisce l’occasione per un bilancio serio. La ministra della Difesa, Elisabetta Trenta, ha parlato nei giorni scorsi di una riduzione del contingente, ma il documento sulle missioni militari è stato approvato due giorni fa dal Parlamento. Forse è venuto il momento, anche per l’Italia, di rimettere in discussione una scelta fatta per accontentare l’alleato americano e rivelatasi nel tempo un fallimento.
Il Fatto 22.12.18
Pochi milioni per un caccia. Ma “nudo” costa 100 milioni
L’acquisto contestato - Ora i 5Stelle “aprono” - F-35
di Toni De Marchi
Riassumere la vicenda F-35 come è stata finora raccontata dai 5Stelle è relativamente semplice: strumento di morte, pieno di difetti, estremamente costoso. Da non comperare assolutamente, tanto che appena al governo annulleremo tutti i contratti in essere. Su questo c’era praticamente unanimità dentro il movimento. Di Battista, parlando alla Camera il 26 giugno 2013, dice “gli F-35 sono uno strumento di morte, molti deputati Pd lo hanno dichiarato in campagna elettorale e su questo hanno preso i voti e adesso votano una mozione ridicola” (supercazzola la definisce). Roberto Fico, attuale presidente della Camera, afferma, sempre nel giugno 2013, “sono dei caccia bombardieri e quindi sono anticostituzionali in un momento in cui questo Paese sta soffrendo così tanto, dove imprese stanno chiudendo, dove i cittadini non riescono ad arrivare a fine mese è completamente illogico e senza senso mettere in preventivo miliardi per acquistarli”. Ma il più deciso è Luigi Di Maio che il 24 giugno 2013 scrive su Facebook: “Il Movimento chiederà la sospensione del progetto che ci costerà almeno 10 miliardi di euro… Prendiamo i 10 miliardi di euro e diamoli direttamente ai cittadini con un vero reddito di cittadinanza senza passare per questa costosissima farsa”.
Ma adesso qualcosa sembra essersi inceppato nella sicurezza del Movimento se le dichiarazioni dei giorni scorsi del sottosegretario alla Difesa Angelo Tofalo hanno suscitato tante reazioni negative, soprattutto tra i militanti del movimento. Di Maio ha preso prudentemente le distanze dalle frasi possibiliste di Tofalo ma ha rinviato una parola definitiva ai prossimi mesi.
L’F-35 si conferma così l’aereo della discordia. Dicono sia un velivolo stealth, una parola che qualcuno traduce esagerando con il termine “invisibile”, altri più correttamente con “furtivo”. In Italia è avvolto nel mistero. Ministri della Difesa, sottosegretari, capi di Stato maggiore sull’argomento, quando non hanno detto bugie, hanno contribuito a costruire una cortina di disinformazione quasi impenetrabile. A oggi non si sa quanti aerei siano stati effettivamente ordinati: chi dice 16, chi 26. Non si sa quanti ne siano stati consegnati. L’unico numero certo è quello degli aerei che l’Italia dovrebbe ricevere: 60 F-35A a decollo convenzionale e 30 F-35B a decollo corto e atterraggio verticale. Metà di questi ultimi destinati all’Aeronautica, l’altra metà alla Marina. La disinformacija comincia da un’audizione del 2009 dell’allora sottosegretario alla Difesa Forcieri che, per far ingoiare il rospo F-35 al Parlamento, già allora molto critico, sostenne che i 131 F-35 previsti (fu il governo Monti che ne ridusse il numero a 90) avrebbero sostituito ben 260 aerei. Bugia che viene ripetuta ancora oggi dai fan dell’aereo della Lockheed perché quel numero iniziale comprendeva aerei che erano già stati ritirati dal servizio, quelli incidentati e i fuori uso. Se il programma F-35 dovesse essere portato a termine l’Aeronautica italiana si troverebbe ad avere un numero di aerei come mai era successo in anni recenti, tra Eurofighter (96) e F-35 (75 oltre ai 15 della Marina), ma i caccia da sostituire sono una trentina di Tornado del 6° Stormo di Ghedi in provincia di Brescia e altrettanti AMX del 51° Stormo di Istrana in provincia di Treviso. Una sessantina dunque, molti meno degli F-35 che si comprerebbero. L’impossibilità di sapere esattamente quanti aerei siano stati effettivamente ordinati (i contratti sono sottratti all’opinione pubblica) dipende dal meccanismo di acquisto: si comprano prima i cosiddetti long-lead item (le parti che devono essere realizzate con molto anticipo sull’aereo vero e proprio) e solo successivamente attraverso il governo statunitense si ordina l’aereo in lotti. Finora ufficialmente i lotti sono 12 o 13 ma sono già in corso le attività precontrattuali per altri. Ogni lotto comprende aerei per clienti diversi. Tre mesi fa la ministra Trenta ha detto che il suo governo non aveva fatto nessun nuovo ordine mentre Gentiloni, prima di togliere il disturbo, ne avrebbe ordinato otto in un solo colpo. Ma non ci sono conferme: per provarlo la ministra, anziché fornire i riferimenti contrattuali di cui è in possesso, ha citato un comunicato stampa della US Navy che riferiva di alcuni contratti riguardanti anche aerei italiani, ma per importi di pochi milioni di dollari quando un solo F-35 costa “nudo” attorno ai 100 milioni.
Il Fatto 22.12.18
“La ‘legge della schiavitù’ ha svelato il bluff di Orbán”
La cronista di uno dei giornali d’opposizione ancora non censurato: “In piazza anche la destra nazionalista di ‘Ungheria first’”
intervista di Roberta Zunini
Sono ormai pochi i media indipendenti sopravvissuti al repulisti dell’era Orbán attraverso l’acquisto delle società editoriali da parte di persone dell’entourage del primo ministro sovranista-populista nonché ammiratore di Putin. Tra quelli di formazione recente c’è il sito investigativo Ataltszo formato da giornalisti che hanno abbandonato i propri posti di lavoro pur di evitare la censura e impegnarsi in questo progetto in costante crescita. “Grazie al fatto che siamo un sito piccolo, finanziato da donazioni di pochi euro fatte da cittadini ungheresi di ogni categoria, fino ad ora siamo stati ritenuti dal governo innocui e quindi siamo riusciti a fare il nostro lavoro senza finire nelle maglie della censura o dell’acquisto allo scopo di farci cambiare natura. Ma da quando abbiamo pubblicato un’inchiesta sulla vita lussuosa di Orbán, che ha sempre tentato di spacciarsi per uno del popolo, siamo stati oggetto di critiche feroci da parte dell’establishment”, dice Anita Komuves. La giornalista investigativa sta seguendo le proteste che da una decina di giorni si stanno tenendo non solo a Budapest davanti al Parlamento, ma anche in molte altre città ungheresi.
Prevede che continueranno?
Se il governo non ritirerà quella che la gente ha definito ‘legge della schiavitù’ penso che continueranno. Un segnale della forza di questa protesta è il fatto che a scendere in piazza siano cittadini di ogni età e orientamento politico. Un altro elemento è il coinvolgimento di tutto il paese. Per la prima volta nella storia recente le proteste si tengono in molte città, non solo nella capitale.
Perché la riforma del codice del lavoro che ha alzato il tetto degli straordinari legali da 250 ore a 400 ha fatto infuriare gli ungheresi?
Nonostante siano già passate altre leggi capestro per la democrazia, questa impatta in modo rovinoso sulla vita quotidiana dei lavoratori.
Visto che l’economia è in crescita perché i lavoratori non sono contenti di poter lavorare di più e quindi guadagnare di più?
Proprio perché l’economia va bene, c’è bisogno di nuova manodopera, non di caricare chi è già impiegato con nuovi straordinari. Non si può pretendere per esempio che le mamme lavorino 6 giorni su 7, da mattina a sera, vedendo i figli sempre meno o i lavoratori anziani che stanno per andare in pensione. Il problema è che con la propaganda anti-immigrati diffusa da Orbán, il lavoro in più non genera nuova occupazione e salari più alti. Per questo protestano tutti, anche coloro che hanno votato per il partito del primo ministro o per gli altri ancora più a destra come Jobbik.
Perché i deputati del partito di Orbán hanno votato una legge così impopolare? Non se lo immaginavano ?
Sì, lo sapevano, ma hanno preferito ubbidire alla richiesta del premier. L’aumento degli straordinari da pagarsi in tre anni – sempre che al termine non siano cambiate le condizioni delle imprese o i datori di lavoro non trovino cavilli per evitare i pagamenti – va a tutto vantaggio degli imprenditori.
Forse Orbán non immaginava che anche gli elettori di destra o i nazionalisti avrebbero protestato?
O forse pensava che ormai la gente fosse plagiata dalla sua retorica dell’Ungheria first e già soddisfatta per il blocco dell’immigrazione. O forse credeva che nessuno avrebbe sfidato il freddo dell’inverno per radunarsi dopo il lavoro davanti al Parlamento e starci tutta la notte. Ma è stato miope.
Corriere 22.12.18
La «legge schiavitù»,
Le contraddizioni della politica di Orbán
di Gianluca Mercuri
Come vi sentireste se il vostro datore di lavoro potesse imporvi fino a 400 ore di straordinari all’anno, con la facoltà di pagarvele anche fra 36 mesi? Probabilmente usereste (useremmo) la stessa parola che usano in Ungheria. La chiamano «legge schiavitù» — Elena Tebano ne ha scritto lunedì — e da ieri è in vigore, nonostante le proteste di massa. Siamo alla rappresentazione plastica delle contraddizioni di una politica xenofoba. La scelta nasce infatti dalla mancanza di forza lavoro e dal rifiuto del governo di Viktor Orbán di aprire le porte ai migranti. L’Ungheria ha una disoccupazione al 4,2 per cento — una delle più basse dell’Ue — e una popolazione in declino da anni. In più è soggetta a un drammatico brain drain, con i cittadini che si sentono nel mirino di quello che sempre più si configura come un regime — giovani, intellettuali, artisti, ebrei, attivisti delle ong — che lasciano il Paese in cerca di libertà e lavori adeguati alla loro istruzione, mentre il governo, dopo averli fatti scappare, prova inutilmente a farli tornare con un programma di incentivi. Nessuna riflessione sulle conseguenze delle sue scelte: eppure l’Ungheria potrebbe essere un modello promuovendo flussi legali di migranti in base alle esigenze della sua economia. Non c’è bisogno di convertirsi all’odiato buonismo delle sinistre: la conservatrice Polonia è il Paese Ue che ha rilasciato più permessi di soggiorno nel 2017. Il problema della scarsità di manodopera accomuna infatti tutta l’Europa centrale, ma pure l’Italia del Nord in certi settori rasenta il pieno impiego. Una volta ristabiliti i confini e fermato il traffico clandestino, i governi sovranisti sapranno fare il salto di qualità e tornare all’immigrazione regolare? O continueranno ad alzare muri, fino alla farsa degli straordinari obbligatori?
il manifesto 22.12.18
Tirana, un altro dicembre per gli studenti in piazza
Balcani. In strada da giorni i manifestanti chiedono un'istruzione più accessibile e più investimenti nell'università. "Non siamo poveri. Siamo derubati" recita uno dei cartelli più virali della protesta.
di Shendi Veli
Le strade di Tirana hanno una buona memoria. Era il dicembre 1990, quando venivano percorse dalla rivolta che chiuse quasi mezzo secolo di regime di Enver Hoxha. Nei ventotto anni trascorsi da allora il paese ha cambiato faccia mille volte, portando come un destino la sua profonda anomalia. Coda balcanica dell’est europa e innesto di medio oriente. Da sempre crocevia di popoli e religioni, eppure aggrappato con muscoli di acciaio a una lingua misteriosa e antichissima.
VENTOTTO ANNI DOPO le strade di Tirana brulicano ancora di giovani ribelli, tanto che alcuni hanno ribattezzato il movimento “Dicembre 2”. Gli studenti, dallo scorso 5 dicembre, sono riapparsi prepotentemente sui radar della politica, per reclamare accesso al sapere e condizioni di studio migliori.
«SI CERCANO SIMILITUDINI con il 1990» dice Bora Mema, studentessa di Scienze Politiche «il primo tratto in comune è il calendario. Poi entrambi i movimenti nascono su richieste materiali ma sono articolazione di una situazione politica e sociale difficile. Nel 1990 però gli altri corpi sociali si unirono agli studenti e fu indetto lo sciopero. Questo oggi non accade e non potrebbe accadere, anche perché, come dice con orgoglio il premier Rama, in Albania i sindacati non esistono».
LA SCINTILLA è l’approvazionedi una tassa aggiuntiva da pagare se si ripete un esame. Con la fine dell’anno arriva la data di scadenza dei pagamenti. La somma dovuta ammonta, secondo una serie di variabili, tra i 500 e i 3000 lek albanesi per Credito Formativo universitario (Cfu). Un esame da 10 Cfu può costare allo studente in media 168 euro. Abbastanza per far traboccare un vaso già colmo. Si convocano inziative di protesta che culminano in un corteo, inaspettatamente grande, il 6 dicembre, davanti al Ministero dell’Istruzione. La ministra Lindita Nikolla, ritira immediatamente la tassa contestata, ma sembra già troppo tardi per riportare gli studenti in aula.
«STUDIO ALL’UNIVERSITÀ di Tirana» dice Gresa Hasa, 23 anni «sono già tre anni che protestiamo contro la “Ligj për Arsimin e Lartë”, riforma neoliberale dell’università del 2015. Ideata dal Partito Democratico (ndr in Albania il partito di centro destra al potere per molti anni) e realizzata da quello socialista. Abbiamo le tasse più alte di tutta l’area balcanica mentre l’economia è devastata. Molti sono costretti a lavorare durante gli studi, altri rinunciano in partenza. Le più svantaggiate sono le ragazze, che senza una laurea faticano a trovare lavoro e sono costrette a dipendere economicamente da padri o mariti».
GIà NEL 2010 NEL PAESE esplodeva il fenomeno delle università truffa: una miriade di istituti privati aperti nel giro di pochi mesi, con tasse altissime e qualità dell’insegnamento bassa. L’attuale governo dal 2013 ha fatto chiudere molti di quegli atenei fantasma, lasciando però invariato il sistema per cui università private e pubbliche concorrono in egual misura a ricevere i finanziamenti dello stato. I già esigui fondi per l’istruzione sono ripartiti con le numerose strutture private, e di contro le statali, aumentano i costi e riducono i servizi.
IL PROCESSO È LO STESSO che da oltre un decennio pervade tutta l’Europa, noto come “Bologna Process”. In l’Albania, dove storicamente i processi si danno nella versione estrema, una retta universitaria statale costa fino a 600 euro l’anno per la triennale e circa il doppio per la specialistica. L’Instat (l’Istituto albanese di statistica) calcola che il 60% degli albanesi occupati arriva a guadagnare appena 315 euro mensili, un 30% ne prende 189, mentre solo il 10% arriva intorno ai 700.
«LA PROTESTA È CRESCIUTA da subito nei numeri, arrivando fra i 30 e 40 mila partecipanti martedì 11 dicembre e poi di nuovo il 13, gli studenti hanno continuato a scendere in piazza nei giorni successivi, e hanno manifestato in altre città come Scutari, Elbasan, Korçe» dice Edon Qesari, ricercatore presso l’università di Tirana. «Per la prima volta dal dicembre 1990, ci si colloca fuori dalla dialettica governo e opposizione, anche se i tentativi dei partiti di cavalcare questa onda ci sono stati. Eppure in un certo senso le rivendicazioni degli studenti sono profondamente politiche» racconta ancora Edon.
TRA LE RIVENDICAZIONI c’è il dimezzamento di tutte le tasse universitarie, maggiore coinvolgimento degli studenti negli organi decisionali, e l’investimento del 5% del Pil nell’istruzione (attualmente l’Albania spende l’1,3 del suo budget). «Per ora il primo ministro si è mostrato arrogante, non ha mai espresso l’intenzione di realizzare le nostre richieste, non ha mai messo in discussione la riforma universitaria del 2015 la cui abrogazione è necessaria. Ha spesso offeso e deriso gli studenti e si è presentato senza invito in alcune facoltà per fare propaganda» dice ancora Gresa Hasa.
IL PREMIER RAMA nei primi istanti della mobilitazione aveva liquidato con poche battute il nascente movimento. Col passare dei giorni, e con i sondaggi che davano oltre l’85% degli intervistati in favore degli studenti, ha iniziato a chiedere con dirette facebook, twit e apparizioni televisive che gli studenti elegessero dei rappresentanti e si sedessero a dialogare con lui. Lanciando anche un personale hashtag #dialog (dialogo) in contrapposizione a quello promosso dai giovani #mestudentet (tradotto “con gli studenti”).
I GIOVANI HANNO RIFIUTATO l’invito del governo. «Le nostre richieste sono chiare e non negoziabili, non abbiamo intenzione di eleggere delegati né di incontrare il primo ministro» ribadisce Bora Mema, anche lei attivista del «Movimento per l’Università». Edi Rama, uomo di polso del Partito socialista, è al suo secondo mandato di governo e si districa a fatica tra la promessa di guidare il paese nell’ingresso in Unione Europea e le accuse che piovono da più lati che lo vogliono colluso con la mafia albanese. Per giorni ha cercato ossessivamente sui social un incontro con i manifestanti, mostrando la sua indiscussa forza mediatica ma anche una profonda solitudine politica.
«IN 30 ANNI DI TRANSIZIONE politici e mafiosi sono riusciti a uccidere la speranza degli albanesi. Non tolleriamo più, non vogliamo fare gli stessi errori delle generazioni che ci hanno preceduto» aggiunge Gresa. «Non so come immaginarmi tra 10 anni» racconta Bora «forse lavorerò in un call center, oppure farò la cameriera con una laurea in storia, o forse esaurirò la mia voglia di combattere e come tanti altri giovani lascerò questo paese». Ùno dei cartelli diventati più virali della protesta recita «Non siamo poveri. Siamo derubati».
La Stampa 22.12.18
Diplomatico nell’Argentina della “junta”
quando l’Italia preferì chiudere gli occhi
di Michele Valensise
Non c’è solo il Cile nei ricordi di gioventù di chi oggi ha i capelli grigi. A metà degli anni Settanta, in parallelo al golpe di Pinochet, anche l’Argentina fu protagonista e vittima di convulsioni sanguinose e della violenta presa del potere da parte di una giunta militare, Videla-Massera-Agosti, auto-investitasi della missione di salvare la patria (marzo 1976). L’agonia delle istituzioni argentine era già evidente con la breve presidenza di Héctor Campora, il ritorno dall’esilio e la morte di Juan Domingo Peron e l’ascesa della moglie Isabelita, succedutagli in quanto vice presidente della Repubblica. Vi contribuì la spaccatura del peronismo in due tronconi, la destra retriva e la sinistra rivoluzionaria, sempre più inclini a farsi valere con le armi.
Con una ricostruzione puntuale (Tre anni a Buenos Aires, 1975-1978, Edizioni Viella, € 26) un diplomatico italiano, Bernardino Osio, apre ora uno squarcio su quegli anni bui, toccante per umanità e lucido circa errori, viltà e responsabilità politiche. Sullo sfondo di documenti d’ufficio e ricordi, intrecciati con il destino di tanti desaparecidos di origine italiana eliminati dai militari, Osio, all’epoca consigliere all’ambasciata d’Italia a Buenos Aires, rievoca senza vanagloria l’impegno suo e dei colleghi per salvare gli scomparsi e sollecitare (invano) l’intervento delle autorità argentine. E per restare vicini alle famiglie delle vittime, finite senza pietà nelle fosse comuni o scaraventate dagli aerei in fondo al Rio de la Plata.
Se in Italia la vicenda cilena era seguita con forte partecipazione, sia per i solidi rapporti tra partiti dei due Paesi sia per la novità, con Allende, dell’arrivo della sinistra al governo tramite elezioni, l’Argentina non godeva della stessa attenzione. Prima per una certa diffidenza verso il peronismo, poi per una colpevole sottovalutazione dei misfatti dei militari. La junta fu abile nell’alimentare la leggenda del complotto internazionale contro l’Argentina e i suoi custodi dell’ordine. Come nell’accreditare all’estero la tesi infondata di due anime, radicale e moderata, in seno al governo golpista, con l’obiettivo di contenere le proteste per il suo brutale operato di quanti avrebbero temuto così di rafforzare i falchi.
La pressione della dittatura, accresciuta con il piano Condor dalla collaborazione con i regimi militari dei Paesi vicini, fu troppo a lungo ignorata. Né si raccolsero gli appelli di quanti rivendicavano libertà e legalità, come «le regine delle lettere argentine» Vitoria Ocampo e Maria Rosa Oliver delle quali Bernardino Osio era amico personale. Poi su quegli anni di sangue si stagliò anche l’ombra cupa della P2, alla quale risultarono affiliati uomini di governo argentini di primo piano, tra cui il comandante della Marina e i ministri degli Esteri e dell’Interno.
Fautrice di una Realpolitik pur tra imbarazzi e distinguo, la Farnesina fu poco propensa a passi energici contro il regime militare. Si chiusero gli occhi sul dramma dell‘Argentina, peraltro in gran parte abulica dinanzi alla violenza di regime («por algo serà», ci sarà pure una ragione, si ripeteva a Buenos Aires). Per Osio e i suoi giovani colleghi divenne prioritario e rischioso il lavoro a difesa dei desaparecidos italo-argentini e dei loro congiunti. Tra tensioni e insidie quella piccola pattuglia di diplomatici dovette pure affrontare le difficoltà poste alla loro azione dal capo missione, impreparato, prevenuto a favore dei militari e inadeguato anche per ragioni di salute. Su una nave senza timone, seppero tenere la rotta della dignità e dell’onore.
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