La Stampa 21.12.18
1943, così lo sbarco in Sicilia rischiò di fallire per le liti fra Patton e Montgomery
di Marcello Sorgi
Per
John Julius Cooper, visconte di Norwich - un aristocratico inglese a
lungo diplomatico al servizio di Sua Maestà britannica - l’estate del
1961 fu segnata da un imprevisto: l’invasione del Kuwait da parte
dell’Iraq che, occupandosi lui di Medio Oriente, lo costrinse a rinviare
le vacanze fino a metà ottobre. Di lì nacquero l’idea estemporanea di
andare con la moglie a visitare la Sicilia (regione che ai suoi occhi
doveva apparire come parte dell’area del mondo a cui si era
professionalmente dedicato) e il subitaneo innamoramento, che lo
convinse a cambiare mestiere, scoprendo la vocazione di storico e
scrittore, e a dedicare gran parte del suo impegno alle tormentate
secolari vicende dell’isola, a cominciare dalle numerose dominazioni che
lì avevano lasciato una stratificazione unica di lingue, culture,
civiltà.
La Breve storia della Sicilia (Sellerio editore, pp. 510,
€ 15) che Norwich, da poco scomparso a 89 anni, ci ha lasciato, è
l’esempio di come duemilacinquecento anni di storia possano essere
attraversati con occhio insieme curioso e ironico, cercando le ragioni
dei personaggi e dei fatti anche quando faticano a venir fuori. Dai
Fenici e dai Greci a metà del Novecento (l’ultimo capitolo è dedicato al
bandito Giuliano), passando per Romani, Arabi, Normanni, Angioini,
pirati, rivoluzionari e carbonari, Borbone, Bonaparte, Murat, fino a
Mussolini e al suo tentativo, riuscito in parte e poi abbandonato, di
sradicare la mafia, l’autore confessa una serie di sentimenti
contrastanti, sorpresa per la varietà, meraviglia per la bellezza,
desolazione, disperazione, rifiuto del destino e del senso di
rassegnazione dei siciliani.
I generali rivali
Ma è verso la
fine di questo lungo viaggio che Norwich rivela tutta la sua freddezza e
spietatezza di storico, quando affronta la vicenda dello sbarco
anglo-americano del luglio 1943. Non si intrattiene molto sulla
dibattuta questione dell’aiuto dato dai boss mafiosi siculo-americani
alle forze alleate; dà per scontato che seppure Lucky Luciano non
partecipò ai piani per l’invasione e non precedette i militari
sull’isola per aprirgli la strada, certo si impegnò a convincere gli
amici degli amici, don Calò Vizzini, don Vito Genovese e don Vito
Cascioferro, tutti insigniti di cariche pubbliche dopo la conquista del
territorio. Il vero obiettivo dello storico, tuttavia, è addentrarsi
nelle rivalità dei due generali, inglese e americano, che misero a
rischio l’operazione «Husky».
George S. Patton, comandante della
Settima Armata americana, e sir Bernard Montgomery, feldmaresciallo capo
dell’Ottava Armata britannica, non si amavano e non potevano essere più
diversi. Sembravano fatti apposta per non collaborare, e infatti non
mancarono di farsi sgambetti per tutta la durata dell’imponente
missione, che prevedeva di sbarcare sulla costa sud-orientale della
Sicilia due eserciti per riconquistare il primo lembo di terra europea
dall’inizio del conflitto.
Erano entrambi due grandi soldati. Ma
Patton, uomo enorme, monumentale, era il tipico duro americano alla John
Wayne, uno che apostrofava così i suoi soldati prima della battaglia:
«Non solo spareremo ai bastardi, ma taglieremo loro gli intestini ancora
vivi e li useremo per oliare i cingoli dei nostri carrarmati.
Uccideremo quegli schifosi Unni succhiacazzi. I nazisti sono il nemico.
Versate il loro sangue o verseranno il vostro. Va bene, figli di
puttana. Sarò orgoglioso di guidare voi ragazzi meravigliosi sempre e
ovunque».
Una colpevole dimenticanza
Montgomery - «Monty»,
com’era soprannominato - non era invece molto alto e secondo l’autore
«sembrava un venditore di tessuti piuttosto sfortunato», pur avendo
un’eccezionale fiducia in sé stesso: «Sapete perché non vengo mai
sconfitto? Tengo troppo alla mia reputazione di grande generale. Non si
può essere un grande generale e essere sconfitto. Perciò state certi che
ogni volta che vi impegnerò in battaglia vincerete».
Litigarono
ininterrottamente. Patton avrebbe dovuto essere trattenuto da un suo
sottoposto, il tenente generale Omar Nelson Bradley, che sfortunatamente
si ammalò di emorroidi e dovette essere operato d’urgenza, con
conseguenze facilmente immaginabili al suo prestigio e alla sua
operatività. Gli eserciti sbarcarono la notte del 10 luglio, in
condizioni di tempesta, a un centinaio di chilometri di distanza: gli
inglesi tra Capo Passero e Siracusa, gli americani nel golfo di Gela.
Secondo i piani originari avrebbero dovuto dividersi tra la parte
occidentale e quella orientale dell’isola, ma finirono col sovrapporsi.
«Monty» pretendeva di comandare tutto da solo, Patton faceva orecchie da
mercante, ma a un certo punto si trovò praticamente accerchiato dagli
inglesi, con una strategia che Bradley definì «la mossa più arrogante,
egoista, narcisistica e pericolosa di tutte le operazioni congiunte
della Seconda guerra mondiale».
Alla fine, Patton riuscì a entrare
per primo a Palermo e a insediarsi a Palazzo Reale, «Husky» poteva
essere considerata un successo, 2300 soldati dell’Asse erano stati
feriti o uccisi, e non meno di 53.000 (quasi tutti italiani) presi
prigionieri. Ma nella furia della loro rivalità, i due generali avevano
dimenticato di bloccare lo Stretto di Messina. Attraverso il quale ben
quarantamila tedeschi e settantamila italiani, muniti di diecimila
vetture e 47 carri armati, l’equivalente di quattro divisioni, poterono
scappare, per continuare la guerra in continente, dove «nei mesi a
venire», conclude severamente Norwich, «si resero responsabili della
morte di molte migliaia di soldati alleati».