La Stampa 2.12.18
Gli sceicchi dialogano con Israele
di Maurizio Molinari
Benjamin
Netanyahu è accolto dal Sultano dell’Oman, le note dell’«Hatikwa»
vengono suonate negli Emirati, l’Arabia Saudita si protegge con
tecnologia israeliana, il sovrano del Bahrein invita ministri dello
Stato ebraico e il Qatar si accorda con Gerusalemme per inviare ingenti
aiuti alla Striscia di Gaza: quanto avvenuto nell’ultimo mese dimostra
che la novità in Medio Oriente è lo scongelamento dei rapporti fra le
monarchie del Golfo e Israele.
Si tratta di un processo in pieno
svolgimento e dalle conseguenze ancora difficili da prevedere anche se è
già possibile individuare i tre fattori che lo hanno innescato.
Primo:
sul piano strategico lo Stato ebraico e i Paesi arabi del Golfo si
sentono ugualmente minacciati dall’Iran di Ali Khamenei a causa delle
mosse di Teheran su programma nucleare, riarmo balistico e sostegno a
gruppi terroristici o ribelli sciiti.
Secondo: sul fronte
economico monarchi, sultani ed emiri vedono la possibilità di creare
un’alleanza fra risorse naturali in loro possesso ed alta tecnologia
israeliana capace di trasformare quest’angolo di pianeta in un
protagonista dell’economia globale.
Terzo: per i leader arabi del
Golfo come per Israele il riferimento è il presidente Donald Trump che
ha riassegnato all’America il ruolo di tradizionale protettore dei
propri alleati nella regione, archiviando le incertezze del predecessore
Barack Obama.
L’interrogativo davanti a tale processo di
riavvicinamento è fino a dove può arrivare ovvero se può portare a
favorire una soluzione del conflitto israelo-palestinese. Da qui
l’attenzione per le parole di Marc Schneier, il rabbino di New York
divenuto uno dei canali informali di questa nuova stagione diplomatica.
«Per
i Paesi del Golfo la questione palestinese resta importante - spiega
Schneider - ma mentre prima affermavano di non poter avere contatti con
Israele fino alla sua soluzione, ora ritengono che i due processi
possano essere contemporanei». Questo spiega perché il sultano Qaboos
dell’Oman ha invitato Netanyahu nel suo palazzo, perché ad Abu Dhabi la
medaglia d’oro nel judo ha portato a suonare a cielo aperto l’inno
nazionale israeliano alla presenza del ministro Miri Regev, perché il
Bahrein ha invitato un altro ministro israeliano a Manama in aprile così
come perché, secondo il quotidiano arabo «Al Arabi Al Jadid», l’Arabia
Saudita vuole formare un «Quartetto arabo» - con Egitto, Giordania e
palestinesi - per negoziare con Israele la risoluzione del conflitto
centenario, iniziato con l’opposizione a fine Ottocento delle tribù
arabe all’arrivo nella Palestina ottomana dei pionieri sionisti in fuga
dalle persecuzioni dello zar.
Dietro il sostegno di Riad a tale
svolta ci sono crescenti legami economici e militari con Israele -
inclusa la difesa dei palazzi reali dai droni armati di bombe lanciati
dai ribelli Houthi in Yemen - ma anche qualcosa di più: la maturata
convinzione nei leader religiosi sunniti che Israele sia parte
integrante dell’ebraismo, superando così la precedente ostilità al
sionismo come «entità coloniale». Si spiega così la decisione del
sovrano del Bahrein di reagire all’annuncio di Trump sul trasferimento
dell’ambasciata Usa a Gerusalemme con l’invio di una folta delegazione
di leader religiosi sunniti che si è recata in visita ai luoghi santi
della città vecchia. Manama d’altra parte è l’unica capitale araba del
Golfo ad ospitare ancora una comunità ebraica e ciò aumenta il
significato dell’avvicinamento a Israele, fino al punto da far prevedere
al tam tam regionale che possa essere proprio il Bahrein la prima
monarchia ad allacciare formali legami diplomatici con lo Stato ebraico.
A ciò bisogna aggiungere che Netanyahu vanta anche un dialogo informale
con il Qatar, ancora isolato da tutti i suoi vicini. Le relazioni fra
Gerusalemme e Doha si concentrano su Gaza perché gli aiuti, economici ed
umanitari, che l’Emiro Al-Thani fa arrivare alla Striscia sono
considerati da Israele un fattore di stabilità, capace di creare una
cornice diversa anche nei rapporti con gli acerrimi nemici di Hamas.
Come se non bastasse c’è anche il Sahel in movimento: il presidente del
Ciad, Idriss Deby, si è recato nei giorni scorsi a Gerusalemme - dopo 46
anni dalla fine delle relazioni - affermando che l’aiuto israeliano
contro i gruppi jihadisti nel Sahara «ha posto le premesse per una
ripresa dei rapporti che interrompemmo nel 1972 solo perché obbligati
dal colonnello libico Moammar Gheddafi».
L’amministrazione Trump
considera tali e tanti sviluppi la premessa di un nuovo possibile
assetto del Medio Oriente, al fine di isolare l’Iran e ridimensionare il
ruolo della Russia, mentre l’Europa appare ancora alla finestra,
incapace di cogliere le significative novità che stanno maturando sul
lato opposto del Mediterraneo.