Corriere 2.11.18
Un impero senza confini
La supremazia cinese
di Ernesto Galli della Loggia
Il
caso ormai notissimo occorso a Dolce & Gabbana — la casa d’alta
moda italiana spinta a chiedere scusa al popolo cinese per una sua
pubblicità giudicata offensiva da quel Paese — getta luce su una
cruciale trasformazione che è iniziata da tempo ma che in questo inizio
del XXI secolo sta assumendo proporzioni impreviste soprattutto in
seguito alla globalizzazione. Mi riferisco alla crescita esponenziale
del peso dell’economia nel sistema delle relazioni e delle
organizzazioni internazionali: un fenomeno che ancora una volta sembra
rivolgersi a danno soprattutto dell’Europa.
Naturalmente
l’economia ha sempre costituito un elemento determinante nel definire la
potenza di un Paese, e l’arma economica è sempre stata usata in vari
modi (sanzioni, embargo, limitazioni commerciali, ecc). Negli ultimi
venti anni, però, le cose stanno velocemente cambiando o sono già
cambiate, e il protagonista assoluto di questo cambiamento è la Cina. La
quale è oggi in grado di adoperare l’arma economica suddetta come mai è
accaduto prima grazie ad almeno quattro fattori: 1) l’enormità
smisurata del suo mercato interno che assommando a poco meno di un
quarto dell’intera popolazione mondiale è decisivo per lo smercio
adeguato di molte produzioni di altri Paesi; 2) il bassissimo costo del
lavoro che fa del Paese un luogo ambitissimo di delocalizzazione per un
gran numero di industrie occidentali.
Poi gli altri fattori: 3)
la crescita vertiginosa di una produzione manifatturiera competitiva che
ormai si è spinta anche nei settori ad alto contenuto tecnico; 4)
l’accumulo nelle mani dello Stato di un forte potere dirigistico e
insieme di un’immensa quantità di risorse finanziarie (le riserve
cinesi, ammontanti a 3.200 miliardi di dollari, sono le maggiori del
mondo).
Se non sbaglio è la prima volta nella storia che questi
quattro fattori appaiono riuniti insieme. Si tratta di una novità che
corrisponde all’altra assoluta novità storica incarnata dalla Cina: e
cioè quella di un Paese che vede la presenza contemporanea di
un’economia in tutto e per tutto di tipo capitalistico da un lato, ma
dall’altro di un sistema politico dittatoriale che non solo detiene
importanti strumenti di orientamento economico ma che, non riconoscendo
alcun diritto di libertà individuale e collettiva, è di fatto padrone
della vita e della morte dei suoi cittadini. In Cina anche il
miliardario proprietario legale delle più grandi ricchezze, detentore
del massimo potere economico, può in pratica sparire dalla sera alla
mattina nel buio di una galera del regime senza che egli possa fare
realmente nulla per ritornare a vedere la luce.
Singolarità
Coesistono un sistema capitalistico e un sistema politico dittatoriale padrone dei suoi cittadini
L’insieme
di queste, diciamo così, singolarità interne, unendosi alla novità
epocale della liberalizzazione planetaria dei mercati, sta da tempo
consentendo alla Cina un’ampiezza e una libertà di movimento mai viste
che Pechino gestisce con dura spregiudicatezza. Il che, come dicevo, non
manca di produrre enormi cambiamenti nel quadro internazionale
candidando la grande nazione asiatica ad un ruolo di potere mondiale
senza confronti, specialmente per le forme nuove in cui si esercita. Si
va dall’acquisto crescente di quote importanti dei debiti sovrani
occidentali (già oggi Pechino detiene ad esempio circa il 12 per cento
del debito americano) alla costruzione delle ormai celebri «vie della
seta» — cioè di alcune grandiose catene di iniziative infrastrutturali e
commerciali destinate a collegare la Cina con l’Eurasia fino ad
affacciarsi sul Mediterraneo e sull’Atlantico grazie all’acquisto di
grandi porti (51 per cento di quelli del Pireo, Bilbao e Valencia; 49
per cento di Marsiglia, 35 di Anversa) — all’acquisto di enormi spazi
agricoli in Africa per produrre cibo da importare in Cina che,
accompagnato alla fornitura a molti Paesi di armi e infrastrutture
varie, specie nel settore dei trasporti, configura una vera e propria
neocolonizzazione di fatto.
Tipico di tutte queste grandi
iniziative di espansione economica e implicitamente politica è il fatto
che nel metterle in opera la Cina si guarda bene dall’adottare alcun
discrimine o preferenza di natura ideologica. Essa semplicemente sceglie
ciò che più le conviene senza fare alcuna distinzione tra questo o quel
regime, tra questo o quel Paese. Non dovendo rispondere a nessuna
opinione pubblica interna, va bene tutto purché sia utile ai suoi
interessi geopolitici: le tirannidi sanguinarie come le più limpidi
democrazie liberali. Ciò che le sta a cuore è solo il proprio interesse e
l’imposizione di alcuni punti irrinunciabili per il proprio prestigio:
non è un certo un caso ad esempio se ormai a riconoscere l’esistenza di
Taiwan sia rimasto in tutta l’Africa un solo Paese, lo Zimbabwe. D’altra
parte egualmente degno di nota è il fatto che l’espansionismo cinese,
proprio perché fondato in così ampia misura sul potere dei soldi e sui
meccanismi del mercato — ormai assurti anche da noi al rango di divinità
indiscutibili — non susciti neppure nell’Europa cristiana, liberale e
socialdemocratica, alcuna apprezzabile critica e tanto meno una qualche
opposizione significativa.
Economia
L’espansionismo fondato sul denaro neanche nell’Europa cristiana
e liberale suscita critiche
Così
come nessuno, peraltro, sembra fare caso al ruolo sempre maggiore che
la Cina della dittatura del partito unico svolge negli organismi
internazionali, ad esempio alle Nazioni Unite. Seconda oggi solo agli
Usa nei contributi regolari all’organizzazione (il 12 per cento delle
entrate Onu nel prossimo triennio), nonché fornitrice di ben 2.500
caschi blu e di un fondo di un miliardo di dollari per le operazioni di
peacekeeping, la Cina ha quadruplicato il numero dei suoi esperti
rispetto solo a qualche anno fa. Naturalmente tutto ciò ha un prezzo: in
questo caso lo smantellamento che Pechino ha richiesto e ottenuto di un
programma previsto dalle stesse Nazioni Unite mirato a diffondere la
cultura dei diritti umani all’interno della stessa organizzazione.
Del
resto sul modo in cui l’Impero di mezzo concepisce la sua
partecipazione alla vita degli organismi internazionali la dice lunga
quanto è accaduto nelle settimane scorse all’Interpol. Da circa due anni
la Cina aveva ottenuto di occupare la prestigiosa presidenza
dell’Istituto che ha sede in Francia con un suo ex viceministro degli
Interni, Meng Hongwei. Ma nel settembre scorso Meng, tornato per pochi
giorni in patria, viene arrestato dalle autorità sotto l’accusa di
«corruzione» e come migliaia di suoi concittadini in pratica scompare.
Impossibile per chiunque avere sue notizie. L’Interpol riceve
semplicemente e accetta senza fiatare, prendendola per buona, una
lettera dattilografata di due righe e senza firma manoscritta con la
quale Meng comunica le proprie dimissioni. Contemporaneamente sempre
l’Interpol, secondo uno scambio di mail che Le Monde ha potuto vedere,
viene «amabilmente richiesta» da Pechino di essere messa a parte
sull’argomento «di ogni informazione o commento che potrebbero esser
divulgati dall’organizzazione o da qualche suo rappresentante». Ultimo
dettaglio forse non insignificante: dal 2010 a oggi l’ammontare della
partecipazione della Cina al bilancio di Interpol è raddoppiato.
Poi
gli altri fattori: 3) la crescita vertiginosa di una produzione
manifatturiera competitiva che ormai si è spinta anche nei settori ad
alto contenuto tecnico; 4) l’accumulo nelle mani dello Stato di un forte
potere dirigistico e insieme di un’immensa quantità di risorse
finanziarie (le riserve cinesi, ammontanti a 3.200 miliardi di dollari,
sono le maggiori del mondo).
Se non sbaglio è la prima volta nella
storia che questi quattro fattori appaiono riuniti insieme. Si tratta
di una novità che corrisponde all’altra assoluta novità storica
incarnata dalla Cina: e cioè quella di un Paese che vede la presenza
contemporanea di un’economia in tutto e per tutto di tipo capitalistico
da un lato, ma dall’altro di un sistema politico dittatoriale che non
solo detiene importanti strumenti di orientamento economico ma che, non
riconoscendo alcun diritto di libertà individuale e collettiva, è di
fatto padrone della vita e della morte dei suoi cittadini. In Cina anche
il miliardario proprietario legale delle più grandi ricchezze,
detentore del massimo potere economico, può in pratica sparire dalla
sera alla mattina nel buio di una galera del regime senza che egli possa
fare realmente nulla per ritornare a vedere la luce.
Singolarità
Coesistono un sistema capitalistico e un sistema politico dittatoriale padrone dei suoi cittadini
L’insieme
di queste, diciamo così, singolarità interne, unendosi alla novità
epocale della liberalizzazione planetaria dei mercati, sta da tempo
consentendo alla Cina un’ampiezza e una libertà di movimento mai viste
che Pechino gestisce con dura spregiudicatezza. Il che, come dicevo, non
manca di produrre enormi cambiamenti nel quadro internazionale
candidando la grande nazione asiatica ad un ruolo di potere mondiale
senza confronti, specialmente per le forme nuove in cui si esercita. Si
va dall’acquisto crescente di quote importanti dei debiti sovrani
occidentali (già oggi Pechino detiene ad esempio circa il 12 per cento
del debito americano) alla costruzione delle ormai celebri «vie della
seta» — cioè di alcune grandiose catene di iniziative infrastrutturali e
commerciali destinate a collegare la Cina con l’Eurasia fino ad
affacciarsi sul Mediterraneo e sull’Atlantico grazie all’acquisto di
grandi porti (51 per cento di quelli del Pireo, Bilbao e Valencia; 49
per cento di Marsiglia, 35 di Anversa) — all’acquisto di enormi spazi
agricoli in Africa per produrre cibo da importare in Cina che,
accompagnato alla fornitura a molti Paesi di armi e infrastrutture
varie, specie nel settore dei trasporti, configura una vera e propria
neocolonizzazione di fatto.
Tipico di tutte queste grandi
iniziative di espansione economica e implicitamente politica è il fatto
che nel metterle in opera la Cina si guarda bene dall’adottare alcun
discrimine o preferenza di natura ideologica. Essa semplicemente sceglie
ciò che più le conviene senza fare alcuna distinzione tra questo o quel
regime, tra questo o quel Paese. Non dovendo rispondere a nessuna
opinione pubblica interna, va bene tutto purché sia utile ai suoi
interessi geopolitici: le tirannidi sanguinarie come le più limpidi
democrazie liberali. Ciò che le sta a cuore è solo il proprio interesse e
l’imposizione di alcuni punti irrinunciabili per il proprio prestigio:
non è un certo un caso ad esempio se ormai a riconoscere l’esistenza di
Taiwan sia rimasto in tutta l’Africa un solo Paese, lo Zimbabwe. D’altra
parte egualmente degno di nota è il fatto che l’espansionismo cinese,
proprio perché fondato in così ampia misura sul potere dei soldi e sui
meccanismi del mercato — ormai assurti anche da noi al rango di divinità
indiscutibili — non susciti neppure nell’Europa cristiana, liberale e
socialdemocratica, alcuna apprezzabile critica e tanto meno una qualche
opposizione significativa.
Economia
L’espansionismo fondato sul denaro neanche nell’Europa cristiana
e liberale suscita critiche
Così
come nessuno, peraltro, sembra fare caso al ruolo sempre maggiore che
la Cina della dittatura del partito unico svolge negli organismi
internazionali, ad esempio alle Nazioni Unite. Seconda oggi solo agli
Usa nei contributi regolari all’organizzazione (il 12 per cento delle
entrate Onu nel prossimo triennio), nonché fornitrice di ben 2.500
caschi blu e di un fondo di un miliardo di dollari per le operazioni di
peacekeeping, la Cina ha quadruplicato il numero dei suoi esperti
rispetto solo a qualche anno fa. Naturalmente tutto ciò ha un prezzo: in
questo caso lo smantellamento che Pechino ha richiesto e ottenuto di un
programma previsto dalle stesse Nazioni Unite mirato a diffondere la
cultura dei diritti umani all’interno della stessa organizzazione.
Del
resto sul modo in cui l’Impero di mezzo concepisce la sua
partecipazione alla vita degli organismi internazionali la dice lunga
quanto è accaduto nelle settimane scorse all’Interpol. Da circa due anni
la Cina aveva ottenuto di occupare la prestigiosa presidenza
dell’Istituto che ha sede in Francia con un suo ex viceministro degli
Interni, Meng Hongwei. Ma nel settembre scorso Meng, tornato per pochi
giorni in patria, viene arrestato dalle autorità sotto l’accusa di
«corruzione» e come migliaia di suoi concittadini in pratica scompare.
Impossibile per chiunque avere sue notizie. L’Interpol riceve
semplicemente e accetta senza fiatare, prendendola per buona, una
lettera dattilografata di due righe e senza firma manoscritta con la
quale Meng comunica le proprie dimissioni. Contemporaneamente sempre
l’Interpol, secondo uno scambio di mail che Le Monde ha potuto vedere,
viene «amabilmente richiesta» da Pechino di essere messa a parte
sull’argomento «di ogni informazione o commento che potrebbero esser
divulgati dall’organizzazione o da qualche suo rappresentante». Ultimo
dettaglio forse non insignificante: dal 2010 a oggi l’ammontare della
partecipazione della Cina al bilancio di Interpol è raddoppiato.