La Stampa 17.12.18
Gerti Frankl e Montale
l’incantesimo della seduttrice segreta
di Mario Baudino
Capodanno
a Firenze, 1928: una giovane austriaca fa un piccolo incantesimo
divinatorio, col piombo fuso e l’acqua fredda, in omaggio a un’usanza
del suo Paese natale ma anche di Trieste, la città dove vive. Siamo in
casa del critico d’arte Matteo Marangoni, ospite una piccola compagnia
di intellettuali e scrittori, e anche Gerti Frankl, in visita agli
amici, ne fa parte. C’è Eugenio Montale, che sedotto dalla scena
scriverà una delle sue poesie più famose, Il Carnevale di Gerti. «Se si
sfolla la strada e ti conduce / in un mondo soffiato entro una tremula /
bolla d’aria e di luce dove il sole / saluta la tua grazia, hai
ritrovato / forse la strada che tentò un istante / il piombo fuso a
mezzanotte quando / finì l’anno tranquillo senza spari», si legge nella
prima strofa. A quella poesia lei restò fedele per tutta la vita,
parlandone pochissimo, custodendola come qualcosa di molto personale nel
cuore di un’esistenza che ebbe momenti di trionfale leggerezza, di
cultura e di tragedia.
Daniele Del Giudice preparando il suo
romanzo-saggio d’esordio, Lo stadio di Wimbledon, l’aveva incontrata
ormai anziana (nata nel 1907, morì nel 1989), e ricorda che era ancora
una grande seduttrice. Ma una seduttrice molto privata, quasi segreta.
Un’ispiratrice, in quella che è stata definita la Bloomsbory triestina
degli anni Venti, in contemporanea con il famoso circolo londinese di
Virginia Woolf.
In quella trama di rapporti al cui centro, come un
ragno imprevedibile e caotico, si muoveva freneticamente Roberto «Bobi»
Bazlen, il futuro creatore insieme con Luciano Foà dell’Adelphi,
nacquero, per così dire, da un lato Montale e dall’altra Italo Svevo,
quantomeno per ciò che riguarda il suo tardivo successo e il lancio
internazionale. Gerti, elegantissima, ricca (i genitori possedevano una
piccola banca a Graz), sposata con Carlo Tolazzi, ingegnere bergamasco
trapiantato a Trieste, ammirata per la sua eleganza intellettuale e non
solo, corteggiatissima, ne era una sorta di regina. Ma era anche ebrea, e
su di lei, come su altri personaggi di questo gruppo, incombeva un
destino ancora imprevedibile e spaventoso.
Molto si sapeva,
soprattutto dopo la biografia che Cristina Battocletti ha dedicato a
Bazlen (Bobi Bazlen. L’ombra di Trieste, ed. La nave di Teseo) ma la
reticenza di Gerti a parlare di sé aveva lasciato zone d’ombra, perfino
misteri. Ora Waltraud Fischer, studiosa austriaca che vive e insegna a
Trieste, le ha dedicato un libro (Gerti, Bobi, Montale & C..
Vita di un’austriaca a Trieste, Diabasis) dove davvero tutto - o quasi -
è riportato alla luce, grazie a una gran mole di documenti lasciati a
un’amica e da questa donati all’Università di Trieste, in parte usati
già per una mostra del 2005.
Gerti era avanti rispetto alle pur
emancipate donne della sua città adottiva. Si era sposata contro la
volontà dei genitori, matrimonio clandestino a Londra; guidava
fieramente l’automobile, viaggiava molto anche da sola, benché sposata,
accettava la discreta corte dei suoi ammiratori, primo fra tutti Bazlen
che le scriveva incessantemente parlando dei propri amori ma nello
stesso tempo manifestandole un’adorazione che andava oltre l’amicizia.
Se
Montale visse dal ’38 con Drusilla Tanzi, la «mosca» di tante sue
poesie conosciuta nel ’27 (il soprannome era stato inventato da Bazlen)
quand’era la moglie dell’amico critico d’arte Matteo Marangoni (si
sposarono solo nel ’62, dopo la morte di quest’ultimo), l’affascinante
austriaca perse invece il marito, anche grazie a Bazlen e proprio a
causa del grande amore di quest’ultimo, Duska Slavik, una giovane di
condizione modesta e per nulla letterata. Bazlen - come avrebbe
ricordato anni dopo Montale, era perennemente dedito a «esperimenti più o
meno falliti di creare o distruggere felicità coniugali» - gliene parlò
in molte lettere chiedendole di aiutarla, fino a introdurgliela in
casa; risultato, esempio non raro di eterogenesi dei fini, Carlo Tolazzi
se ne innamorò, lasciando la moglie e mettendo su famiglia con lei.
Gerti,
che amava la fotografia, scattò com’è noto l’istantanea delle gambe di
una misteriosa Dora Markus; Bazlen la spedì a Montale perché ci
scrivesse una poesia, e la ottenne. Il poeta non vide mai Dora Markus, e
per decenni gli studiosi si sono interrogati sulla sua identità,
mettendola persino in dubbio. Dalle carte emerge invece che la donna è
esistita: anche lei ebrea - e austriaca - riuscì a sottrarsi alle
persecuzioni e a riparare prima in Inghilterra e poi in America. Scrisse
almeno due volte a Gerti, invitandola a raggiungerla. Lei però non
poteva più, o non voleva. Dopo l’invasione dell’Austria doveva salvare i
genitori: tentò in ogni modo di convincerli ad abbandonare Graz, senza
riuscirci. E quando finalmente capirono che bisognava fuggire, era ormai
troppo tardi.
La bella dama divenne una combattente, a caccia di
visti per far espatriare gli ebrei dall’Austria. Maneggiava denaro,
corrompeva, «comprava» vite. Per i genitori arrivò fino a Mussolini,
senza risultato. Dopo l’armistizio, riuscì persino a farsi assumere come
interprete dal comando nazista - ma una vicina di casa la denunciò. E,
alla macchia in montagna, continuò ormai senza un soldo ad aiutare chi
fuggiva in Svizzera.
Gli anni ormai non finivano più «senza
spari». Ma la poesia rimane. Anche quella di Dora Markus, scritta in due
fasi. La prima parte, del ’29, è tutta dedicata alla sconosciuta. Nella
seconda, del ’39, c’è invece Gerti Frankl, come spiegò il poeta stesso
(«Di lei e di Dora feci un unico fantasma» disse a Guido Nascimbeni, per
un libro uscito nel ’69). Questi versi, peraltro notissimi: «forse / ti
salva un amuleto che tu tieni / vicino alla matita delle labbra, / al
piumino, alla lima: / un topo bianco, / d’avorio; e così esisti!»
elencano proprio i suoi oggetti di culto.