martedì 18 dicembre 2018

il manifesto 18.12.18
Michel Foucault, archeologo del sapere
Per Orthotes la monografia che Gilles Deleuze dedica nel 1986 all’autore de «Le parole e le cose»
di Paolo Vignola


È ora disponibile la nuova edizione del libro di Gilles Deleuze, Foucault (1986), riproposto egregiamente dalla casa editrice Orthotes (pp. 180, euro 17), con traduzione, cura e postfazione eccellenti di Filippo Domenicali. Pubblicato a due anni dalla scomparsa del filosofo che ci ha regalato lo scalpello per portare alla luce le stratificazioni del sapere e nuove lenti per osservare il potere, Foucault probabilmente non rappresenta soltanto una commemorazione concettuale dell’amicizia tra i due filosofi, caratterizzata da profonde condivisioni così come dal disaccordo sul desiderio e il piacere, bensì anche una risposta diagonale, discreta, quasi impercettibile, all’ormai celebre frase foucaultiana secondo cui «un giorno, forse, il secolo sarà deleuziano». Invece di interpretarne il senso o di ricambiare la civetteria con un’altra frase altisonante, Deleuze, in continuità con le sue monografie precedenti, sembra aver scelto la strada della macchinazione, ossia la ripetizione differenziante per cui si fa dire a un autore ciò che il suo pensiero prepara senza affermarlo esplicitamente.
Così, forse, Deleuze ci sta suggerendo che, se il secolo deve diventare deleuziano, le ragioni – quali che siano – vanno cercate proprio in Foucault, ossia dentro al Foucault, nel suo Foucault, il quale proviene dal fuori del pensiero foucaultiano, vale a dire appunto dalla prospettiva di Deleuze, un fuori da cui osservare le viscere e i movimenti peristaltici dell’elaborazione concettuale del suo amico. L’ecografia deleuziana è allora quanto mai precisa nel descrivere le tre ontologie di Foucault, sapere, potere e sé, monitorandone anche il crescere e l’intrecciarsi lungo il corso dei suoi libri. Sono ontologie storiche, poiché non stabiliscono condizioni universali bensì problematiche, la cui aria kantiana si impasta col fumo delle barricate, con gli odori e le penombre delle carceri, con il vapore dei piaceri: «presentano la maniera in cui il problema si pone in una certa formazione storica: che cosa posso sapere, o che cosa posso vedere ed enunciare in certe condizioni di luce e di linguaggio? Che cosa posso fare, a che potere posso aspirare e che resistenze opporre? Che cosa posso essere, di quali pieghe posso circondarmi o come posso produrmi come soggetto?».
Ontologie: Foucault è per Deleuze sicuramente un archivista-archeologo del sapere e un cartografo del potere, ma anche e soprattutto un filosofo teoretico della molteplicità che lavora con metodologie, oggetti e materiali diversi dai suoi, ai quali però lo stesso Deleuze ha spesso attinto per sviluppare il proprio pensiero.
Foucault è però anche un pensatore delle pratiche, tanto per il suo impegno nelle lotte politiche e sociali – con la conseguente trasformazione del ruolo dell’intellettuale – quanto perché è precisamente analizzando come funzionano nel concreto e nel dettaglio le stratificazioni del sapere, le strategie del potere e le pieghe della soggettivazione, che ha reso possibile al tempo stesso una fondazione ontologica di queste tre sfere e un loro dinamismo storico. È poi tale dinamismo la chiave per leggere le evoluzioni delle formazioni giuridiche della sovranità, della disciplina e della sicurezza, dell’anatomia politica e della biopolitica, così come il primato della resistenza rispetto al potere, che sancisce la potenza – in termini nietzschiani e spinoziani – dei processi di soggettivazione e, dunque, delle lotte.
SI TRATTA TUTTAVIA di un primato ontologico che deve sempre essere espresso in seno alla storia, nelle condizioni concrete dell’esperienza e nella microfisica dei rapporti di potere. Le domande poste in precedenza hanno allora un loro doppio militante, che continua a innervare e problematizzare il nostro presente: «Quali sono i nuovi tipi di lotte, trasversali e immediate, piuttosto che centralizzate e mediate? Quali sono i nuovi modi di soggettivazione, privi di identità, piuttosto che identitari? Quali poteri bisogna affrontare, e quali sono le nostre capacità di resistenza, oggi, nel momento in cui non è più sufficiente dire che le antiche lotte non valgono più?». E così, Foucault, ossia il doppio di Foucault, nelle ultimissime righe può esibire con grande chiarezza il senso della «morte dell’uomo» annunciata in Le parole e le cose, descrivendola come l’estinguersi di una forma antropocentrica di dominio sull’esistente a vantaggio di un nuovo composto di forze, una nuova forma che non sia «né Dio né uomo, di cui si può sperare che non sarà peggiore delle due precedenti»: forse, era proprio quella morte, questa nuova forma, la nascita del secolo deleuziano.

«Sapere aude»
Repubblica 18.12.18
Steven Pinker "Niente paura siamo illuministi"
Lo psicologo di Harvard, celebre per le sue analisi anti-apocalittiche sulla nostra epoca, ci racconta perché a suo giudizio, e al contrario di quanto vogliono far credere i populisti, la ragione e il progresso prevalgono ancora
intervista di Giampaolo Cadalanu


Osa sapere, esortava Immanuel Kant, riprendendo un’esortazione di Orazio per farne il motto dell’illuminismo. «Il coraggio di usare la propria intelligenza», come lo definiva il filosofo di Königsberg, sarebbe prezioso di fronte al ritorno dell’irrazionalismo, per contrastare richiami populisti e paranoie antiscientifiche. Ma lo spirito dei lumi può essere ancora attuale, se deve convincere non più un sovrano, ma i popoli? Secondo Steven Pinker, psicologo cognitivo e linguista, la risposta è più che mai positiva. Il progresso dell’umanità è tangibile, ribadisce lo studioso canadese-americano nel suo Illuminismo adesso, che esce ora per Mondadori. Si deduce dai dati, dalle tendenze, dalle cifre: per vederlo basta guardare ai problemi dell’esistenza con un approccio "illuminato", senza farsi abbagliare dalle paure amplificate dai populisti.
Il suo libro esce in Italia proprio mentre il nostro Paese, come altri, attraversa un periodo di allerta generale sui pericoli del populismo. Pensa che l’illuminismo possa essere la terapia reale contro la ripresa dell’irrazionalismo?
«Io non ho scritto il libro come terapia; l’ho scritto per chi si preoccupa di questi temi: intellettuali, editorialisti, politici, e naturalmente i lettori del giornale. Vorrei dimostrare che ci sono buone ragioni per le quali dovremmo abbracciare la ragione, la scienza e l’umanesimo, in primo luogo i progressi compiuti dall’Illuminismo. Non sono un propagandista, o un diffusore di meme virali, o uno stratega politico. Ma è importante che chi cerca di combattere le tendenze irrazionaliste sappia perché lo fa».
Senza l’approccio della ragione, lei ricorda, l’individuo è sempre tentato di credere che la sua vita sia influenzata da forze al di fuori della sua comprensione. Ma questa percezione può nascere anche da fattori, come l’economia globalizzata, che possono sembrare incomprensibili.
L’illuminismo può essere un aiuto contro le spiegazioni dei populisti?
«Non penso che le persone abbiano difficoltà a capire che il proprio lavoro sia svalutato dalla concorrenza di Paesi più poveri, come il Bangladesh o la Cina (anche se non possono controllare questo sviluppo, ma in nessuna era hanno potuto controllare le tendenze dell’economia). Ma è importante tenere a mente che i partiti populisti (quanto meno negli Usa) non sono sostenuti dalle fasce più povere della popolazione. Molti elettori dei partiti populisti stanno bene economicamente. La gente non reagisce alle proprie condizioni di vita, ma alla propria comprensione delle condizioni altrui: la maggior parte è piuttosto soddisfatta della propria vita, ma è convinta che tutti gli altri siano infelici».
La definizione di progresso è spesso collegata all’evoluzione della tecnologia. Ma questa non basta. Le macchine non sono persone, né i gadget né le stesse apparecchiature mediche sono sufficienti per un avanzamento "umano" reale.
Secondo lei, l’uomo è avanzato di pari passo con la tecnologia?
«L’evoluzione tecnologica contribuisce al progresso quando offre alle persone una vita più felice, più sana, più ricca. Così le ecografie che salvano i bambini, vaccini e antibiotici e antisettici che salvano vite, lampadine che permettono alla gente di leggere, stampanti che gli permettono di condividere la parola scritta, biciclette che gli permettono di muoversi, varietà vegetali che evitano le carestie.
Tutte queste sono forme di progresso, non perché la tecnologia sia sofisticata di per sé stessa, ma perché permette alla gente di vivere una vita migliore».
Lei scrive che il metodo della ragione non va discusso. Difficile dissentire.
Ma quale può essere il ruolo della religione? Non è facile convincere a coltivare le incertezze chi si aggrappa alla fede, che sia la consolazione intima o il dogma della jihad violenta.
«Va bene che la religione faccia parte della vita, nel senso di rituali, comunità, parabole, simbolismo, fin tanto che non conduce a convinzioni sbagliate, come quella secondo cui con la preghiera curi le malattie, o che Dio non permetterà il cambiamento climatico. Io non ho una ricetta, un algoritmo o una formula che possa forzare le persone più testarde della Terra a cambiare le loro convinzioni, non è questo lo scopo di chi scrive un libro. Ma ho argomenti per chi i libri li legge: che l’universo segue le leggi della scienza, non i miracoli. Che la moralità viene dalla promozione del benessere umano, non dai comandamenti divini. Che se tu credi in qualcosa come un dogma religioso, non puoi aspettarti che ci credano tutti.
E che la jihad violenta conduce solo a violenza contro i jihadisti».
Se la scienza è la risposta, come ci si comporta quando se ne scoprono i limiti? La religione, per definizione, non ha limiti nella sua capacità di spiegare il mondo.
«Nessuno dice che la scienza sia la risposta a tutte le domande: non può rispondere alle domande sulla logica, o sulla morale, anche se per la morale è rilevante nel dirci che cosa può migliorare la salute e il benessere. Non credo che la religione non abbia limiti a spiegare il mondo: i limiti sono evidenti.
Molte delle asserzioni fattuali nella Bibbia – per esempio l’età della terra – sono sbagliate, perché basate su un dogma arcaico, non sul tentativo di spiegare il mondo e verificare le spiegazioni».

il manifesto 18.12.18
L’Avvenire di Marx e di Radio Radicale
di Alberto Leiss


A quanto pare prima di Lenin e di Gramsci (la definizione, com’è noto, è sua) la «rivoluzione contro il Capitale» l’aveva fatta – o quantomeno prevista – lo stesso Marx, che negli ultimi anni della sua febbrile ricerca si poneva molti interrogativi sulla realtà secondo cui il modo di produzione capitalistico si sarebbe esteso alle aree del mondo distanti dall’epicentro occidentale – l’Inghilterra – della rivoluzione industriale. L’ ho ascoltato da Marcello Musto – autore di una nuova biografia dell’autore del Capitale, edita da Einaudi – al convegno «200 Marx.
Il futuro di Karl», tenuto al Macro di Roma, per iniziativa di associazioni e fondazioni italiane e europee, e della rivista Critica Marxista.
In alcune lettere destinate alla rivoluzionaria russa Vera Zasulic, Marx respingeva l’idea che l’avvicendarsi dei modelli di società, dallo schiavismo, al feudalesimo, al capitalismo e quindi al socialismo, dovesse intendersi come una linea evolutiva meccanicamente stabilita, e non escludeva che formazioni sociali comunitarie proprie di civiltà precapitalistiche potessero rivivere e anzi arricchire la realizzazione del socialismo e del comunismo.
Insomma, coerente al suo non considerarsi «marxista», Karl era attento al concreto divenire storico e ai risultati delle ricerche scientifiche del suo tempo.
A leggerlo bene, si trovano già nelle sue domande gli anticorpi necessari a evitare letture deterministiche e dogmatiche che hanno falsato tragicamente il suo pensiero.
La rinascita di interesse per Marx, indotta dalla crisi capitalistica esplosa nel 2008, si accompagna a questo tipo di letture liberatorie. Per Marina Montanelli, giovane filosofa e curatrice di una riedizione del Manifesto del partito comunista, oltre che impegnata nel movimento femminista Non una di meno, Marx resta vivo proprio perché ci autorizza a «profanarlo», nel senso letterale (profano, dal latino pro: presso, vicino e fanum: tempio, recinto sacro) cioè a riportarlo tra noi fuori dal tempio, alla larga da ogni irrigidimento ideologico o di tipo «religioso». Ma vedo che sto scrivendo troppo sul vecchio di Treviri.
Volevo solo farne uno spunto per parlare di un’altra cosa, tuttavia non estranea alla ricerca di libertà che anche una corretta rilettura di Marx sostiene. Chi vuole approfondire il convegno (tre giornate di dibattito) che ho citato, può trovarne la registrazione integrale sul sito di Radio Radicale. Dove esiste forse il più ricco archivio facilmente consultabile della storia politica, culturale e istituzionale di questo paese.
Ora i gerarchetti del governo «del cambiamento» intendono tagliare i contributi pubblici per il pluralismo dell’editoria, cosa che creerebbe difficoltà insormontabili non solo a Radio Radicale, ma a tantissime altre esperienze importanti, tra cui quella di quotidiani come il manifesto e il cattolico Avvenire. A parte l’altalena quotidiana tra neostatalismo e neoliberismo degli attuali governanti, c’è da registrare l’ultima perla (nera) dell’ineffabile Salvini, indirizzata a Avvenire: le testate che vogliono scrivere «cose strane» (sic!) – ha dichiarato – si trovino lettori «nel mercato».
Cose tipo questa (in un commento di Maurizio Ambrosini dopo la sentenza sui bambini stranieri discriminati a Lodi): «…brandire slogan come “prima gli italiani” è un inganno a danno dei cittadini-elettori. La politica che sfrutta il rancore e alimenta contrapposizioni sociali, anche prescindendo da valutazioni di natura etica, di fatto promette misure semplicemente impossibili da attuare secondo l’ordinamento vigente». Strano, ma vero.La protesta contro i tagli all’editoria: «Una ritorsione del governo»
Legge di bilancio. Oggi alle 10 la protesta del sindacato dei giornalisti (Fnsi) a piazza Montecitorio. L’emendamento Patuanelli (M5S) mette a rischio mille posti di lavoro diretti, 10 mila negli indotti. Una rappresaglia contro la stampa che conduce battaglie politiche a cominciare dall’antirazzismo
Johnny Depp per Il Manifesto

Il Fatto 18.12.18
Calano i preti in tv, ma solo per tacere gli scandali vaticani
Monitoraggio 2016-2017 - Cala la presenza del papa, si riducono gli ospiti religiosi nei talk show per non parlare di pedofilia e clero
di Enzo Marzo


Siamo di fronte a una grande, apparente, contraddizione. Da una parte, già nel periodo settembre 2016-agosto 2107 monitorato da queste nostre ricerche sulle confessioni religiose e la Tv pubblica e privata, è molto visibile l’inizio del declino di papa Francesco e soprattutto un bilancio non positivo del suo papato; dall’altra, si constata che le notizie di cronaca che hanno screditato non poco il Vaticano per le sue lotte interne, i processi contro giornalisti investigatori e le polemiche sulla pedofilia hanno costretto le Tv a variegare la comunicazione secondo la sua tipologia.
Già anni fa avevamo fatto notare che il servilismo dei media televisivi non sempre si esprime in termini soltanto quantitativi (aumentare sempre più la presenza del Vaticano nelle reti), ma anche con silenzi significativi. L’anno preso in considerazione in quest’ultima ricerca dimostra la verità della nostra ipotesi.
Nel penultimo rapporto, abbiamo sottolineato che le Tv davvero stavano esagerando. Le percentuali in tutte le reti erano diventate bulgare fino all’eccesso. E la discriminazione nei confronti delle altre confessioni era addirittura scandalosa. Si doveva segnalare in certi rilevamenti perfino il raddoppio dei dati da un anno all’altro. In quest’ultimo rapporto, invece, la comunicazione clericale è costretta a tornare selettiva: in tutte le trasmissioni, chiamiamole “propagandistiche”, i dati rimangono altissimi e anche superiori all’anno precedente, invece nei telegiornali e nelle trasmissioni di approfondimento, dove si dovrebbero dare notizie e discuterle, c’è stato un brusco arresto o un calo sensibile. Per forza, dato che le notizie erano per la maggior parte molto sgradite alla gerarchia. Dimostrazione che il servilismo si dimostra anche censurandosi. Ugualmente le confessioni minori hanno continuato a essere fortemente penalizzate, fino all’obbrobrio del trattamento riservato agli evangelici e ai musulmani, stazionari allo zero virgola.
Siamo convinti che nel prossimo rapporto (stagione 2017-2108) questa tendenza sarà accentuata. Perché ci andiamo ad avvicinare a quest’ultimo anno orribile per Francesco. Lui ha accentuato i toni, ha viaggiato in Paesi problematici, ma non è riuscito a controbilanciare la netta sensazione che non bastano le parole, anzi diventano ridicole e paradossalmente danno anzi ancora più visibilità allo scontro furioso e pubblico tra le gerarchie ecclesiastiche sia al sostanziale immobilismo di fronte alle riforme annunciate o ventilate ma nella sostanza inevase. Con alcune incursioni addirittura da chiesa superconservatrice. Nulla sull’assetto finanziario, nulla sui privilegi pretesi in ogni occasione e quindi nulla sulla libertà religiosa, nulla sul maschilismo interno, nulla – se non palliativi – sulle cause della pedofilia degli ecclesiastici, fallimento della promessa di decentramento dei poteri di uno degli ultimi sovrani totalitari esistenti. Francesco passerà alla storia come un ottimo comunicatore, bravissimo a truccare la realtà ma non a modificarla. Nessuna vera riforma prenderà il suo nome.
La comunicazione televisiva asseconda e blandisce il papa comunicatore ed è reticente sui veri problemi della Chiesa cattolica. Dimostra d’essere assolutamente ignara del ruolo giornalistico. La sua parola d’ordine è “sostenere contro ogni realtà ciò che dice la velina della sala stampa vaticana”.
Scendiamo più nei particolari. La tesi della censura (o quasi) sulle notizie e sulle discussioni dei problemi che travagliano questa fase del papato è dimostrata dal fatto che nelle trasmissioni di approfondimento giornalistico e nei telegiornali, sia pubblici sia privati, la presenza della chiesa cattolica ha cominciato a discendere. Con l’unica, vistosa eccezione del Tg1 che nell’anno precedente aveva raggiunto il record del 98,23%, lasciando alle altre confessioni percentuali da prefisso telefonico (particolarmente scandalosa è la faziosità contro la religione musulmana. I musulmani sono presenti solo nella cronaca nera). Pensavamo che il Tg1 non potesse superare se stesso in faziosità, ma invece ce l’ha fatta e è riuscito a guadagnare un ulteriore 0,70%, (da 98,23% a 98,93), confermando che tutto sommato preferisce una grezza quantità (soprattutto nei tempi di parola concessi direttamente a esponenti del Vaticano – aumento da 93,76% al 96,23 % – a un servilismo più intelligente. Infatti tutti gli altri telegiornali hanno percentuali calanti. In particolare i Tg di Mediaset.
Lo stesso trend si riscontra nelle trasmissioni di approfondimento giornalistico. Con tutti gli scandali che ci furono in quei dodici mesi, i giornalisti televisivi, noti per il loro conformismo, hanno preferito lasciar stare. Da qui un vero e proprio crollo. Le presenze di soggetti confessionali nel complesso delle trasmissioni (le principali) prese in considerazione sono passate da 616 a 244: Porta a Porta da 48 a 19, Uno mattina da 178 a 64, Agorà da 169 a 94, Omnibus da 44 a 20. La tendenza non conosce eccezioni. C’è da vergognarsene.
Se dare notizie in tempi burrascosi è imprudente, al contrario occorre rafforzare l’apparato propagandistico. Così continua l’“esagerazione” già denunciata lo scorso anno. E allora giù con le fiction, le cerimonie, i film, i documentari d’argomento religioso o con protagonisti confessionali. Basti segnalare che se nel 2010 dalle sette reti principali furono trasmesse fiction per 61 ore e 54 minuti, nell’ultima rilevazione siamo passati a 900 ore e 25 minuti. Ovviamente la chiesa cattolica si accaparra il 97,11% del totale, i protestanti hanno lo 0,32%.
Le cifre sono molte e le trovate in dettaglio qui di seguito. Sottolineiamo soltanto un’ultima notizia: la presenza televisiva di papa Francesco è in calo rispetto all’anno precedente, anche se in confronto a Benedetto XVI è presente in percentuale 3-4 volte di più.

La Stampa 18.12.18
Parlamento a rischio irrilevanza
di Ugo Magri


I quasi mille parlamentari che abbiamo eletto a marzo, e che ci costano un miliardo e mezzo all’anno per tenerli lì, approveranno la legge di Bilancio a scatola chiusa, senza discuterla, forse senza nemmeno averci dato un’occhiata. Non ne avranno la possibilità perché la manovra 2019 va per forza approvata entro fine mese, sennò l’Italia piomberebbe nel limbo dell’esercizio provvisorio e forse nel caos dei mercati finanziari. Mancano solo 13 giorni alla scadenza, festività comprese. Eppure il testo definitivo ieri non era ancora pervenuto in Senato perché lo stavano correggendo a Bruxelles; e quando finalmente tornerà indietro, forse oggi, l’esame in commissione si annuncia come un semplice «pro forma»; così pure in aula, dove il dibattito verrà strozzato dal voto di fiducia. Poi, dopo Palazzo Madama, nuovo giro alla Camera per il timbro finale; e anche lì sarà un prendere o lasciare, con l’aggravante che l’8 dicembre scorso i deputati avevano già approvato un testo rivelatosi farlocco, quindi senza fiatare ne dovranno votare uno nuovo, largamente riscritto secondo i dettami europei.
Per certi aspetti può andar bene così: guai se arrivasse una procedura di infrazione per debito eccessivo. Pagheremmo per anni multe spropositate e ci troveremmo gli ispettori Ue dentro casa. Nonostante i sovranisti al volante, diventeremmo per paradosso un Paese a sovranità limitata.
Dunque meglio che la trattativa europea abbia dato i suoi frutti, sia pure in extremis e sull’orlo del precipizio. Ma se fosse stata avviata a tempo debito, senza inutili tatticismi, evitando toni sopra le righe e virilismi fuor di luogo, il governo adesso non si troverebbe con l’acqua alla gola; e ai rappresentanti del popolo resterebbe il tempo necessario per approfondire la manovra. Evidentemente, chi ha condotto le danze con le autorità europee aveva priorità di altra natura. Soprattutto ai vice-premier interessava portare a casa le risorse necessarie per «quota 100» e reddito di cittadinanza, riuscirci era questione di vita o di morte in vista delle prossime elezioni europee. Permettere invece alle Camere una serena riflessione, nella prospettiva di Salvini e Di Maio non aveva la stessa priorità. Rappresentava, probabilmente, l’ultima delle preoccupazioni.
Il guaio è che di questo passo il Parlamento muore. A cosa serve mantenerlo in vita, se nelle sue aule nemmeno si discute come spendere i soldi dei cittadini, dove andarli a rastrellare, se è giusto o no gravare di debiti le generazioni future? Come si può pretendere che gli eletti recuperino prestigio, agli occhi degli elettori, se le loro osservazioni vengono considerate superflue o fastidiose, se addirittura i tecnici di Bruxelles dimostrano di avere più voce in capitolo? Viene addirittura il sospetto che l’obiettivo sia proprio questo: affondare nel discredito la democrazia rappresentativa per sostituirla con una formula referendaria, plebiscitaria, social o, come usa dire, «dal basso». Il ministro della democrazia diretta, Fraccaro, ha presentato alcune pregevoli proposte che vanno tutte in questa direzione. Addirittura Beppe Grillo ha suggerito che, invece di eleggere i parlamentari, si potrebbe procedere per sorteggio in quanto la casualità statistica fornirebbe una rappresentazione più fedele del corpo sociale. Ricorda tanto il suo nemico Berlusconi quando dieci anni fa teorizzava che, in fondo, di deputati e senatori non c’è bisogno, basterebbe far esprime un rappresentante per partito col suo bel pacchetto di voti, e legiferare così: sai quanto più in fretta si farebbe. Allora si levarono girotondi e proteste; oggi invece l’ex premier non susciterebbe lo stesso scandalo in quanto è diventata «vox populi» che i membri del Parlamento siano troppi, ne basterebbero la metà, forse addirittura un quarto; e si dovrebbero mettere le briglie al collo di quanti ne fanno parte, chiamandoli a rispondere delle proprie opinioni, revocandoli se si dimostrano autonomi, condannandoli a pagare penali nel caso si dissociassero. Trattare le Camere come «parco buoi» è diventato la regola, mentre perfino chi dovrebbe reagire prudentemente tace.

il manifesto 18.12.18
La protesta contro i tagli all’editoria: «Una ritorsione del governo»
Legge di bilancio. Oggi alle 10 la protesta del sindacato dei giornalisti (Fnsi) a piazza Montecitorio. L’emendamento Patuanelli (M5S) mette a rischio mille posti di lavoro diretti, 10 mila negli indotti. Una rappresaglia contro la stampa che conduce battaglie politiche a cominciare dall’antirazzismo


Oggi alle 10 a piazza Montecitorio il consiglio nazionale della Federazione nazionale della Stampa (Fnsi) ha convocato un «presidio simbolico» di protesta contro i tagli al fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione che colpirà le cooperative, i quotidiani di idee e le testate locali.
A POCHE ORE dalla definizione di una legge di bilancio che formalmente si vuole «del popolo», mentre in realtà è scritta insieme ai custodi dell’austerità a Bruxelles, l’emendamento Patuanelli (capogruppo al Senato dei Cinque Stelle) sarà contestato a poca distanza dal palazzo dove lavora il sottosegretario con delega all’Editoria, Vito Crimi (M5S). Da due mesi è forte il dissenso per quella che il sindacato e l’ordine dei giornalisti hanno definito «un avvertimento a chi crede di poter portare avanti battaglie ideali e culturali, anche in contrapposizione al governo, d’ora in avanti avrà vita dura. È un colpo mortale al pluralismo dell’informazione, alla funzione critica della stampa, al ruolo dei corpi intermedi». Se fosse approvato al Senato nella forma «rimodulata» rispetto a quello presentato dal deputato Varrica alla Camera, l’emendamento ridurrebbe in maniera progressiva i contributi diretti del finanziamento pubblico a partire dal 2019 per arrivare all’azzeramento nel 2022 per le imprese editrici di quotidiani e periodici che hanno accesso in base al decreto legislativo 15 maggio 2017, numero 70.
SARANNO COSÌ colpite le cooperative giornalistiche come Il Manifesto che editano quotidiani e periodici; fondazioni o enti senza fini di lucro che editano quotidiani come Avvenire e periodici espressione di minoranze linguistiche; per non vedenti e ipovedenti; associazioni dei consumatori e degli utenti che editano periodici in materia di tutela del consumatore; imprese editrici di quotidiani e di periodici italiani editi e diffusi all’estero. Tra i quotidiani nazionali coinvolti ci sono anche Libero, Italia Oggi, il Foglio. Tra quelli locali ci sono il Roma-Giornale di Napoli, il Corriere di Romagna, la Voce di Rovigo, Cronache Qui Torino, Latina Oggi, Ciociaria Oggi, Il Quotidiano del Sud. Coinvolta anche Radio Radicale che perderà una parte cospicua per la sua attività di informazione pubblica sulle attività parlamentari. Contro il taglio è intervenuto sette volte il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, due la presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati. Vito Crimi ha sottolineato che è nel «Dna del movimento Cinque Stelle l’abolizione dell’ordine dei giornalisti e il taglio del finanziamento ai giornali. Quindi abbiamo un mandato forte e netto». A In Mezz’ora di Lucia Annunziata , il Presidente della Camera Roberto Fico (M5S) ha confuso le acque, richiamando una realtà che non esiste più. «I contributi pubblici hanno anche generato dei veri e propri mostri» ha detto. Quell’epoca è finita da tempo. Ora si vanno a colpire mille lavoratori diretti, 10mila negli indotti.
LA LETTURA dell’emendamento, in particolare del quinto comma, rivela una realtà diversa da quella descritta da Crimi secondo il quale i risparmi «rimangono. Vogliamo garantire un sostegno a tutti, non solo ad alcuni editori». È vero, ma i finanziamenti saranno gestiti attraverso i decreti dalla Presidenza del Consiglio che acquisirà una funzione politica discrezionale. Oggi, invece, ha solo un ruolo esclusivamente amministrativo deciso da una legge del parlamento. Una volta approvata la legge di bilancio, la stampa indipendente sarà alle dipendenze dirette del governo di turno. Tutto il contrario di quanto la propaganda di regime sostiene in queste ore. Come sempre sarà la politica, e non il presunto «mercato», e tantomeno i «cittadini», a decidere come e in quale misura la libertà dovrà esprimersi. Come in altri paesi europei, anche nel nostro si sta provando a soffocare il dissenso, anche con l’arma del ricatto economico.
LE OPPOSIZIONI (Pd, Forza Italia, Fratelli d’Italia, LeU) denunciano il rischio della chiusura di numerosi giornali e la perdita di posti di lavoro. «I 5Stelle ci pensino bene prima di commettere un atto irreparabile» sostiene Debora Serracchiani, parlamentare del Pd eletta in Friuli Venezia Giulia, dove vive la minoranza linguistica slovena autoctona.

il manifesto 18.12.18
Editoria, la cancellazione dell’informazione come bene pubblico
Edittoria. Una rappresaglia contro la stampa indipendente, mentre in Europa è tutelata
di Roberto Ciccarelli


La volontà di Lega e Cinque Stelle di cancellare i contributi pubblici all’editoria per i media di idee, locali, delle minoranze linguistiche è un ritorno all’Ottocento. Nell’Inghilterra vittoriana il cancelliere dello scacchiere, il liberale George Lewis, vide nel libero mercato lo strumento di controllo delle opinioni non allineate a quelle del governo. Rispetto a Di Maio, Salvini, Lewis era più onesto. Il mercato non faceva gli interessi dei lettori, come invece pretendono i «populisti» che identificano il popolo con il mercato, ma le «preferenze degli inserzionisti pubblicitari».
Fu questo il modo in cui quel governo usò il mercato per tutt’altra finalità, ovviamente non dichiarata, ma sostanziale: indebolire, o cancellare, la stampa della classe lavoratrice e, in generale, quella critica con il capitalismo e il liberalismo autoritario dell’epoca. In forma indiretta, gli oligopolisti del settore, e gli inserzionisti che decidono il successo di una pubblicazione, acquisirono anche il potere di decidere chi avrebbe potuto fare un giornale e cosa avrebbe dovuto pubblicare. In un’epoca diversa, ma con la stessa virulenza ideologica, oggi si vogliono colpire le voci anti-razziste e anti-capitaliste, di diverso orientamento culturale.
Nel secondo dopoguerra, in Europa e negli Stati Uniti, nacque una nuova sensibilità: era interesse generale tutelare l’informazione, e la produzione culturale indipendente, come un bene pubblico «non rivale» e non esclusivo. Questo significa che una persona che guarda un programma, legge una storia o un articolo non impedisce ad altri di farlo perché, una volta di dominio pubblico, i contenuti sono accessibili da tutti. Questo orientamento, consolidato nelle legislazioni già a partire dall’inizio degli anni Settanta, è stato adottato perché tali benefici non possono essere misurati solo alla luce nei prezzi della produzione di un giornale, una radio o una Tv. Se attraverso la lettura, la visione di un video, l’ascolto di una trasmissione radiofonica, il cittadino conquista una consapevolezza critica dell’attualità, e ha maggiori probabilità di impegnarsi, allora è interesse pubblico sostenere il pluralismo dell’informazione.
Questi principi sono stati adottati per riequilibrare un mercato, storicamente caratterizzato da editori «non puri», come quello italiano soggetto a concentrazioni oligopolistiche oggi ancor più inedite, e una stampa privata meno diffusa, ma comunque radicata sui territori e storicamente espressione di orientamenti politici riconosciuti.
Nell’ultimo cinquantennio l’esigenza di tutelare il pluralismo, e riequilibrare il mercato, ha portato la Francia, Paesi Bassi, Svezia, Portogallo, la Germania ad adottare legislazioni garantiste. La Francia e l’Italia hanno un modello misto: i media ricevono importi inferiori ai canoni e agli stanziamenti pubblici, che sono combinati con i proventi della pubblicità e di altre attività commerciali. Il sostegno si è articolato in maniera indiretta e diretta. Dopo varie riforme, che hanno ristretto l’accesso ai fondi a causa di violazioni della normativa riscontrate in 13 casi (fu il caso dell’Avanti, ad esempio) nel nostro paese non ci sono più forti aiuti indiretti, mentre quelli diretti sono stati limitati a 48 testate per circa 60 milioni di euro all’anno.
Se si confrontano oggi i dati ufficiali sul finanziamento pubblico all’editoria, risulta che l’Italia, rispetto a Francia, Germania, Gran Bretagna, Stati Uniti, è penultima come stanziamento pubblico complessivo , già drasticamente ridotto, e ultima come spesa pro capite (43 euro). Proprio quello che la rappresaglia di Lega e Cinque Stelle vuole cancellare, senza aspettare l’entrata in vigore nel 2019 della «riforma Lotti» che ha modificato profondamente il settore solo nel 2017.
Tutto, teoricamente, dovrebbe tornare ostaggio del mercato. Gli oligopoli ringraziano per il favore atteso in campagna elettorale e, ora, vicino a diventare realtà.

La Stampa 18.12.18
Decreto sicurezza, ci saranno 140 mila irregolari in più
di Flavia Amabile


Tra giugno 2018 e dicembre 2020, in Italia ci saranno almeno 140 mila stranieri irregolari in più. È l’effetto del decreto sicurezza approvato dal governo a ottobre secondo le prime stime dell’Ispi, l’Istituto per gli studi di politica internazionale.
Una parte di questo aumento è avvenuta nei mesi scorsi, sono circa 25 mila persone in più senza alcun documento in strada. Ma l’aumento maggiore verrà registrato tra oggi e la fine del 2020.
Nello studio Matteo Villa, analista dell’Ispi nel Programma Migrazioni, parte dallo «scenario base», quello in cui l’Italia avrebbe mantenuto tutti e tre i livelli di protezione internazionale presenti prima del nuovo decreto (status di rifugiato, protezione sussidiaria e protezione umanitaria). Anche in quel caso ci sarebbe stato un aumento degli irregolari ma sarebbero stati 60 mila in più. Secondo l’Ispi il decreto invece porterà ad un raddoppio abbondante del numero di irregolari in Italia, saranno altri 70 mila in più. E non servirà a nulla sperare nei rimpatri perché «sarebbero necessari 90 anni, e solo a condizione che nel prossimo secolo non arrivi più nessun irregolare».
In totale - prosegue lo studio - «entro il 2020 il numero di migranti irregolari presenti in Italia potrebbe superare quota 670.000. Si tratta di un numero più che doppio rispetto ad appena cinque anni fa, quando i migranti irregolari stimati erano meno di 300.000. Sarebbe anche il record di sempre se si esclude il 2002, quando in Italia si stimavano presenti 750.000 irregolari».
La riforma, infatti, spiega Matteo Villa nello studio, avrà due effetti. La prima conseguenza sarà la fine della protezione nei confronti di chi è arrivato in Italia, ha avviato la procedura per ottenere una tutela ma è ancora in attesa della valutazione. «Non potranno più ricevere la protezione umanitaria - sottolinea lo studio - e correranno dunque un maggior rischio di vedersi negato almeno un livello di protezione, scivolando nell’irregolarità».
La seconda conseguenza sarà la fine delle tutele anche per coloro che già sono titolari di protezione umanitaria perché «non potranno chiederne il rinnovo, diventando dunque irregolari».
Da un punto di vista numerico, questo vuol dire che nel caso di coloro che ancora attendono una valutazione «nei mesi precedenti l’avvio dell’attuale governo, circa il 28% delle domande esaminate aveva come esito la protezione umanitaria. Dunque, sui 107.500 casi pendenti, poco più di 30.000 avrebbero ricevuto la protezione umanitaria nello scenario base, mentre in questo caso si vedranno opporre un diniego di protezione, diventando irregolari».
Se invece si prendono in esame coloro che sono già titolari di protezione, lo studio avverte che non è possibile conoscere con certezza il numero degli attuali titolari di protezione umanitaria. Tuttavia, dal momento che la protezione può durare al massimo due anni, e che prima della riforma poteva essere rinnovata, una stima conservativa è quella di considerare titolari di protezione tutte quelle persone cui è stata assegnata la protezione umanitaria negli ultimi due anni. Si tratta di quasi 40.000 persone, che non potranno fare richiesta di rinnovo di protezione una volta scaduta, e che dunque diventeranno irregolari entro i prossimi due anni.
Sommando le due cifre si raggiunge il numero di 69.751, quasi 70.000 persone sono a rischio di diventare irregolari in Italia entro la fine del 2020 a causa dell’abolizione della protezione umanitaria, più del doppio rispetto alla situazione pre-decreto.

Repubblica 18.12.18
Sanità
Il ministero ordina "Medici scrivete in bella grafia"
di Michele Bocci


La calligrafia dei medici fa quasi sempre ammattire.
A tutti è capitato di portare un foglio con sopra strani geroglifici al farmacista e di osservarlo mentre tenta di capirci qualcosa, magari anche cambiando l’angolazione della ricetta.
Sigle, abbreviazioni, numeri e largo uso del corsivo rendono pressoché impossibile l’interpretazione, tanto che ormai la brutta scrittura dei camici bianchi è un fatto acquisito. Un marchio di fabbrica.
Il modo in cui vengono scritte le prescrizioni, però, non è solo una cosa su cui ironizzare, perché ha conseguenze sanitarie. C’è uno studio statunitense che rileva come il 4,7% degli errori medici siano riconducibili all’uso di abbreviazioni difficili da capire.
La cosa è seria e la Direzione generale della programmazione sanitaria del ministero alla Salute ha appena inviato una raccomandazione a tutte le Regioni perché intervengano presso tutti i medici, da quelli ospedalieri a quelli di famiglia e pediatri. "Dovete scrivere meglio": è la sintesi. «Gli errori conseguenti all’uso di abbreviazioni, acronimi, sigle e simboli possono interessare tutte le fasi di gestione del farmaco in ospedale e sul territorio — si legge nel documento — Una brutta grafia, ad esempio, può rendere difficile la comprensione di una prescrizione e causare errori nella dispensazione di una terapia farmacologica».
Consigli per migliorare la situazione? Gli esperti ne fanno diversi, alcuni dei quali sembrerebbero banali.
Intanto «in caso di scrittura a mano è necessario usare lo stampatello». Cosa piuttosto ragionevole. Poi, tra l’altro, si chiede di ridurre al minimo l’uso di abbreviazioni, acronimi, sigle e simboli e comunque di farne un elenco ufficiale, perché ognuno adesso fa quello che gli pare e ogni medico ha un modo suo di esprimersi. Poi ci sono richieste come quella di scrivere per intero il nome dei principi attivi e di usare i numeri arabi anziché quelli romani. Si chiede di «non mettere lo zero dopo la virgola per le dosi espresse da numeri interi». Per colpa di una calligrafia confusa, un 2,0 milligrammi potrebbe facilmente diventare un 20, con conseguenze immaginabili. Sempre riguardo ai numeri, infine, si chiede di mettere il punto prima dei tre zeri delle migliaia. Certo, si taglierebbe la testa al toro con la prescrizione informatizzata, un modo per cancellare definitivamente il mito vero dei medici che scrivono male.
E aiutare i pazienti.

Repubblica 18.12.18
Welfare
Pensioni più povere Avere la badante e invecchiare a casa diventerà un lusso
Auser-Cgil: la metà delle famiglie ha già ridotto i consumi per pagarsi l’assistenza domiciliare nel 2030 serviranno 2 milioni di operatori
di Rosaria Amato


ROMAI precari con retribuzioni basse e discontinue e i Neet, cioè i giovani fuori dai percorsi di studio e di lavoro, rappresentano un grave problema per l’oggi e una bomba a orologeria per domani. A lanciare l’allarme su una futura società di anziani poveri, non in grado di provvedere a se stessi soprattutto se non autosufficienti, è una ricerca pubblicata da Auser e Spi- Cgil dal titolo " Problemi e prospettive della domiciliarità. Il diritto di invecchiare a casa propria". I dati mostrano un numero crescente di anziani e una quantità decrescente di risorse destinate al welfare, in particolare all’assistenza, uniti a un aumento dei costi: il rischio è che già adesso gli anziani vengano abbandonati a se stessi, in case peraltro non sempre adeguate alle loro condizioni. Nel 56% di case con anziani in edifici superiori ai due piani, infatti, manca l’ascensore, e nel 7% dei casi non c’è il riscaldamento. Il tasso di attività dei giovani tra il 2012 e 2016 si è abbassato di quattro punti, ed è inferiore al 50%. I Neet italiani costituiscono la percentuale più alta in Europa. Come faranno tra 30 o 40 anni a permettersi una badante, e chi li assisterà se il welfare pubblico si ritrae? Già adesso lo Stato non garantisce l’assistenza domiciliare che sarebbe necessaria. Si calcola che in media il welfare " informale" costa 667 euro per famiglia. Solo il 31,4% delle famiglie riesce a ottenere un sostegno pubblico, in genere l’assegno di accompagno. Per il resto, il 48,2% delle famiglie pur di pagare un assistente ha ridotto i consumi, il 20,2% ha intaccato i propri risparmi, il 2,8% si è dovuta indebitare, percentuale che in futuro rischia di aumentare in modo consistente. Attualmente sono impegnate in Italia 1.655.000 badanti: le proiezioni sul numero crescente di anziani ci dicono che nel 2030 ne serviranno più di due milioni, ma le famiglie avranno sufficiente disponibilità economica per provvedere ai loro stipendi?
Al di là degli stipendi delle badanti, le famiglie fanno già adesso una grande fatica a provvedere all’assistenza degli anziani in generale: i tre quarti delle famiglie hanno dovuto fare gravi rinunce, dai consumi alimentari alle spese sanitarie. I dati del servizio sanitario svelano la contraddizione della spesa per il welfare in questi anni: a fronte di un numero crescente di anziani ( tra il 2009 e il 2013 sono aumentati dell’8,6%, passando da quasi 12 a 13 milioni, sono diminuiti del 21,4% gli anziani che hanno usufruito di un servizio di assistenza a domicilio. Secondo le proiezioni dell’Istat l’aumento degli ultrasessantacinquenni bisognosi di cure proseguirà: passeranno dai circa due milioni e mezzo del 2013 ai circa 3,5- 3,9 del 2045. Serviranno più servizi a domicilio, più badanti, più posti letto negli ospedali. Sta accadendo il contrario, e il 51% delle famiglie con persone non autosufficienti dichiara già adesso di non essere in grado di far fronte alle spese sanitarie ( contro il 30,5% della media delle altre famiglie). « Quella della non autosufficienza è una vera e propria emergenza nazionale che riguarda da vicino non solo tanti anziani ma anche e soprattutto le loro famiglie. – dice il segretario generale dello Spi Cgil Ivan Pedretti – Serve una legge nazionale, servono risorse e serve ripensare il nostro sistema di welfare che altrimenti rischia così di non reggere». Soprattutto, è da garantire un’assistenza a domicilio di livello adeguato, rileva il presidente dell’Auser Enzo Costa: « Invecchiare a casa propria è un diritto che va garantito con una rete efficace di servizi sul territorio nel rispetto della persona in tutto l’arco della sua vita».

Repubblica 18.12.18
Contro di me polemiche insensate Non partecipo al congresso dem
di Massimo D’Alema


Caro direttore, sono sinceramente sconcertato dalle insensate polemiche che si leggono in queste ore.
Sabato scorso, la Fondazione Italianieuropei ha organizzato una giornata di discussione libera, aperta, partecipata sul futuro dell’Unione Europea.
Ci siamo confrontati in modo vero, anche da posizioni diverse, sulle prospettive del progetto europeo. All’incontro hanno partecipato anche diversi esponenti del Partito Democratico.
A margine del mio intervento, ho ripreso l’ipotesi, emersa chiaramente nel corso del dibattito, che le forze che si ispirano al socialismo europeo possano presentarsi unite alla prossima scadenza elettorale di maggio 2019.
Come si può facilmente verificare attraverso la registrazione dell’intera giornata di lavori su Radio Radicale o dalla chiara sintesi del mio intervento pubblicata dal sito la Nuova Atlantide, il dibattito ha trattato altri argomenti rispetto a quelli su cui si è successivamente aperta una discussione paradossale. È stato un confronto scevro da qualsiasi riferimento polemico.
L’unico dirigente del Partito Democratico con cui abbiamo concordato la data dell’iniziativa è stato Maurizio Martina, in quanto allora segretario reggente. Lo stesso Martina ha confermato da subito la sua partecipazione.
Solo nel tardo pomeriggio di venerdì scorso ha, invece, comunicato che, per impegni precedentemente presi, non sarebbe stato presente.
Le reazioni di alcuni dirigenti del Partito Democratico, talvolta cariche di odio, non turbano affatto la mia persona, tuttavia confermano in me una notevole preoccupazione per il drammatico stato di salute in cui, evidentemente, versano quel partito e il centrosinistra italiano.
Non sono iscritto al PD, non parteciperò al congresso e ovviamente non sosterrò alcun candidato. Gli auguro di fare una discussione chiara e nel merito che possa rappresentare un passo in avanti per tornare a svolgere un ruolo positivo per la società.

La Stampa 18.12.18
Le proteste scuotono l’europa
di Francesca Sforza


Si scende in piazza in tutta Europa, e per motivi diversi: contro il carovita, contro il razzismo, contro i referendum già votati. Ed è singolare che nell’epoca del digitale, in cui si lamenta che l’eccesso di relazioni virtuali abbia preso il posto della vita associativa tradizionale, la gente senta il bisogno di scendere in strada per esprimere il proprio messaggio, sia esso di protesta o di solidarietà. Due fattori sembrano essere alla radice di questo nuovo movimentismo, e il primo è proprio connesso alla presenza del digitale nelle nostre vite. Sì perché in una quotidianità scandita dal tempo di permanenza sullo smartphone, ognuno di noi ha una visione della realtà inevitabilmente filtrata dalla sua esperienza digitale. Vale per gli appassionati di animali, che dopo aver visitato qualche sito sull’argomento si vedranno recapitare notifiche o avvisi relative a cuccioli, veterinari, vicende di amici a quattro zampe. Il mondo, probabilmente, sembrerà loro popolato da amanti di animali o di loro torturatori, di pubblicità per cibi, di libri a tema, di gadget da regalare durante le festività. E lo stesso accade per chi si appassiona di temi sociali o di questioni economiche. La quantità di messaggi, di input e di stimoli che arrivano a ciascuno, si riveleranno in grado, sommati, di produrre una mobilitazione di massa. Non sfugge, agli analisti di cyber flussi, la pericolosità di simili smottamenti che attraversano le opinioni pubbliche – Brexit non è forse il risultato di una decisione tanto massiccia quanto imponderata? – che si caratterizzano per produrre risultati di grande impatto, ma non sempre sufficientemente strutturati per far presa sino alle fondamenta della società civile.
C’è un altro fattore però, ed è quello che ha caratterizzato la mobilitazione dei jilet jaunes francesi: per la prima volta una rivolta di massa che non ha esitato a fare uso della violenza – minacciando ancora ieri il blocco di alcuni negozi e impianti commerciali - ha riscosso l’attenzione non solo degli spettatori, ma dei governanti, già da oggi impegnati a Parigi in una serie di incontri finalizzati alla concertazione con le ragioni della rivolta. Il presidente Macron si è ovviamente richiamato all’importanza del funzionamento democratico e alla necessità di isolare i violenti, ma il messaggio che è passato, nella forma semplificata che la moderna comunicazione impone ed esige, è che i gilet gialli hanno ottenuto ascolto, e che le loro richieste saranno messe a tema. In un’opinione pubblica europea così influenzabile ed emotiva, il successo dei gilet gialli è una conferma di quello che ciascuno già sperimenta nella propria quotidiana vita digitale: vince chi usa parole semplici, chi è in grado di aggregare su pochi e insistiti contenuti, e chi alza la voce. In molti casi questi ingredienti possono essere volti a fin di bene, per rafforzare ad esempio la solidarietà contro razzismi e nuovi nazionalismi. In altri però no, e stando alla storia recente, i messaggi negativi viaggiano con più velocità e con maggiore intensità di quelli positivi.

La Stampa 18.12.18
La rabbia dell’Europa scende in piazza
Da Parigi a Budapest decine di migliaia di cittadini protestano contro i rispettivi governi: sul tavolo diritti e salari

La battaglia dei gilet gialli contro Macron e il carovita
di Marco Bresolin


È partito tutto da un video su Facebook della signora Jacline Mouraud, un’automobilista bretone di 51 che si è scagliata contro le imposte sul carburante. Da quel video pubblicato a metà ottobre, nel giro di due mesi, la Francia è stata sconvolta dal movimento dei Gilet Gialli. Dai blocchi alle rotatorie di provincia, la rabbia è arrivata fino agli Champs Elysées di Parigi. A partire dal 17 di novembre (290 mila persone in piazza in tutto il Paese) si sono dati appuntamento ogni sabato, per cinque grandi manifestazioni. Il bilancio è drammatico: sei morti, 1.400 feriti e centinaia di arresti. Una bomba sociale esplosa sotto la sedia di Emmanuel Macron, costretto ad annunciare una serie di misure per venire incontro alle richieste dei manifestanti, spesso infiltrati dai «casseurs» di professione che hanno messo a ferro e fuoco le strade della capitale. Il 10 dicembre Macron ha promesso un aumento di 100 euro del salario minimo, ma anche la detassazione degli straordinari. La rabbia però non si è placata, anche se l’ultima manifestazione (sabato 15, a pochi giorni dall’attentato di Strasburgo) ha visto «solo» 66 mila persone in piazza.
I Gilet Gialli hanno sconfinato anche in Belgio, soprattutto tra la comunità francofona, scatenando diversi incidenti a Bruxelles. Non sono rimasti a guardare i fiamminghi: due giorni fa i movimenti di estrema destra hanno dato vita a scontri con la polizia nel quartiere europeo. A scatenare la loro rabbia è stata la decisione del governo belga di firmare il Global Compact sull’immigrazione.

La Stampa 18.12.18
Gran Bretagna
Slogan e cortei degli anti-Brexit

Si riuniscono a Parliament Square i nemici della Brexit, talvolta un manipolo sparuto, in altri giorni una moltitudine che marcia per le vie di Londra per chiedere di fermare la Brexit. O un secondo referendum. Il popolo dei remainers è variopinto, giovani perlopiù. La premier britannica May ieri ha ribadito che un secondo voto non si farà: «Tradiremmo gli elettori». Il laburista Corbyn ha presentato una mozione di sfiducia contro la May: inaccettabile rimandare il voto su Brexit in gennaio. Fuori Westminster tanti striscioni anti-Brexit, dentro il palazzo il rito della battaglia politica.

La Stampa 18.12.18
Vienna si mobilita contro il razzismo

Il governo austriaco compie un anno e sabato scorso, contro il cancelliere popolare Kurz e gli alleati della destra (Fpö), sono scese in piazza a Vienna 50 mila persone. La manifestazione era organizzata da sinistra, sindacati, organizzazioni femministe e antirazziste. Era una sollevazione contro la politica nero-blu giudicata discriminatoria nei confronti dei migranti. Nelle scorse settimane, il governo ha introdotto una legge per tagliare il sussidio minimo, che va a colpire soprattutto immigrati e richiedenti asilo. l. tor.

La Stampa 18.12.18
La “legge degli schiavi” accende la lotta anti Orban
di Monica Perosino


Si dice che tra i popoli dell’Est Europa gli ungheresi siano i meno propensi ad arrabbiarsi, i più lenti a reagire, ma che quando succede fermarli sia impossibile. E con la cosiddetta «legge degli schiavi» il premier Orban potrebbe essersi spinto troppo oltre, innescando la miccia della rabbia e della frustrazione finora congelata nel consenso plebiscitario. Per cinque giorni e cinque notti migliaia di ungheresi si sono riversati nelle piazze di Budapest in quelle che sono le proteste di massa più massicce e violente degli ultimi anni. Decine di arresti e feriti, barricate, roghi, cariche e, ieri, mattina un gruppo di deputati picchiati e buttati fuori dall’edificio della tv di Stato Mtva (controllata dal governo) che si rifiutava di dare notizia delle proteste.
Negli ultimi mesi il «sovrano» Orban ha trattato l’opposizione, i giornalisti, gli studenti e gli attivisti che protestavano contro la sua «democrazia illiberale» con troppo disprezzo, convinto non fossero sufficientemente numerosi per creargli problemi. Ma questa volta potrebbe aver commesso un errore tattico, approvando la legge che consente ai datori di lavoro di richiedere fino a 400 ore di straordinario all’anno e ritardare i pagamenti fino a tre anni. Tutto per compiacere le aziende straniere, con buona pace dei lavoratori ungheresi, già tra i più poveri dell’Unione. Ecco la miccia che ha fatto esplodere la rabbia. La protesta nata dai sindacati si è allargata alla società civile che chiede la «liberazione dei media» dal controllo di Orban e l’indipendenza dei giudici, degli universitari che chiedono il «diritto allo studio libero», di una gran parte dell’Ungheria che ora chiede la fine «dell’oppressione».

Corriere 18.12.18
Proteste in piazza Manca manodopera, scatta l’obbligo degli straordinari
«Orbán ci rende schiavi»
Le 5 giornate d’Ungheria
di Elena Tebano


L’Ungheria in piazza contro gli straordinari. Il governo Orbán li ha portati a 400 ore l’anno. Pagabili anche tre anni dopo. La stretta perché nel Paese anti-migranti manca manodopera. Per il quinto giorno consecutivo ci sono state proteste a Budapest.
C’è voluta la «legge schiavitù» per portare a galla il dissenso degli ungheresi nei confronti del governo di Viktor Orbán. È stata ribattezzata così la norma appena approvata dal parlamento ungherese (in cui il partito del premier, Fidesz, ha la maggioranza dei seggi) che alza il limite degli straordinari annuali da 250 a 400: circa un’ora e mezzo di lavoro in più al giorno che può essere pagata anche tre anni dopo.
Per il quinto giorno consecutivo ci sono state proteste a Budapest, dove fino a quindicimila manifestanti dell’opposizione e dei sindacati hanno sfilato con slogan contro la «schiavitù», ma anche cartelli che invitavano il governo a «smettere di rubare» e chiedevano «tribunali indipendenti». La polizia li ha caricati e dispersi con i lacrimogeni. Fidesz ha puntato il dito contro il suo nemico pubblico preferito, sostenendo che «le rivolte» erano «organizzate dalla rete di Soros». Cioè il milionario americano progressista di origini ungheresi che Orbán accusa di essere dietro a tutti i mali del Paese.
Il momento più drammatico è arrivato nella notte tra domenica e ieri quando i deputati del partito di opposizione Lmp Ákos Hadházy e Bernadett Szél, accompagnati da circa duemila manifestanti, hanno provato a entrare nella sede della tv pubblica Mtva per leggere una petizione contro le politiche del governo. Sono stati buttati fuori dall’edificio — nonostante potessero entrare in quanto parlamentari — con la minaccia di una condanna «a 10 anni», ha denunciato sui social Hadházym, ex di Fidesz che ha lasciato nel 2013 criticandone la «corruzione».
Una mossa che serviva anche a gettare luce sulla restrizione della libertà di stampa: all’inizio del mese Orbán ha sottratto al controllo dell’autorità sui monopoli la Fondazione centro-europea per la stampa e i media, un conglomerato filogovernativo che possiede 400 tra giornali, tv e radio ricevuti «in dono» da imprenditori vicini a Fidesz. L’altra norma contro cui protestavano i manifestanti è quella sui tribunali votata la settimana scorsa che, scrive il Budapest Business Journal , dà al ministro della Giustizia il potere finale sulle nomine, la promozione e lo stipendio dei singoli giudici.
Ma è stata la legge sugli straordinari a scatenare le proteste di piazza. Il governo l’ha varata per rispondere alla carenza di manodopera che affligge l’economia in piena espansione (nell’ultimo trimestre è cresciuta del 5%). Molte grandi aziende straniere — in particolare tedesche — negli ultimi anni hanno delocalizzato in Ungheria , ma fanno fatica a trovare la manodopera necessaria. Ci sono imprenditori italiani che hanno investito nel Paese e sono in difficoltà ad assumere operai. La forza lavoro è ancora in buona parte legata all’agricoltura e il governo ha incentrato la sua politica sul rifiuto dell’immigrazione: nel 2017 sono stati solo 12 mila gli immigrati (la metà dall’Ue), i rifugiati 1.300. Mentre dal 2010, anno in è andato al potere Orbán, 600 mila ungheresi — in particolare i più istruiti — sono andati all’estero.
Finora la politica anti-migranti, grazie alla piena occupazione, gli aveva garantito ampi consensi. Ma senza gli stranieri manca anche manodopera a buon mercato, così il premier ha dovuto rispondere forzando sugli straordinari. E gli ungheresi hanno iniziato a dire no.

Corriere 18.12.18
Straordinari per 400 ore L’Ungheria in piazza contro il governo Orbán
Proteste (le più dure dal 2010) contro il nuovo limite annuo Nel Paese del «no agli immigrati» manca la manodopera
di Elena Tebano


C’è voluta la «legge schiavitù» per portare a galla il dissenso degli ungheresi nei confronti del governo di Viktor Orbán. È stata ribattezzata così la norma appena approvata dal parlamento ungherese (in cui il partito del premier, Fidesz, ha la maggioranza dei seggi) che alza il limite degli straordinari annuali da 250 a 400: circa un’ora e mezzo di lavoro in più al giorno che può essere pagata anche tre anni dopo.
Per il quinto giorno consecutivo ci sono state proteste a Budapest, dove fino a quindicimila manifestanti dell’opposizione e dei sindacati hanno sfilato con slogan contro la «schiavitù», ma anche cartelli che invitavano il governo a «smettere di rubare» e chiedevano «tribunali indipendenti». La polizia li ha caricati e dispersi con i lacrimogeni. Fidesz ha puntato il dito contro il suo nemico pubblico preferito, sostenendo che «le rivolte» erano «organizzate dalla rete di Soros». Cioè il milionario americano progressista di origini ungheresi che Orbán accusa di essere dietro a tutti i mali del Paese.
Il momento più drammatico è arrivato nella notte tra domenica e ieri quando i deputati del partito di opposizione Lmp Ákos Hadházy e Bernadett Szél, accompagnati da circa duemila manifestanti, hanno provato a entrare nella sede della tv pubblica Mtva per leggere una petizione contro le politiche del governo. Sono stati buttati fuori dall’edificio — nonostante potessero entrare in quanto parlamentari — con la minaccia di una condanna «a 10 anni», ha denunciato sui social Hadházym, ex di Fidesz che ha lasciato nel 2013 criticandone la «corruzione».
Una mossa che serviva anche a gettare luce sulla restrizione della libertà di stampa: all’inizio del mese Orbán ha sottratto al controllo dell’autorità sui monopoli la Fondazione centro-europea per la stampa e i media, un conglomerato filogovernativo che possiede 400 tra giornali, tv e radio ricevuti «in dono» da imprenditori vicini a Fidesz. L’altra norma contro cui protestavano i manifestanti è quella sui tribunali votata la settimana scorsa che, scrive il Budapest Business Journal, dà al ministro della Giustizia il potere finale sulle nomine, la promozione e lo stipendio dei singoli giudici.
Ma è stata la legge sugli straordinari a scatenare le proteste di piazza. Il governo l’ha varata per rispondere alla carenza di manodopera che affligge l’economia in piena espansione (nell’ultimo trimestre è cresciuta del 5%). Molte grandi aziende straniere — in particolare tedesche — negli ultimi anni hanno delocalizzato in Ungheria , ma fanno fatica a trovare la manodopera necessaria. Ci sono imprenditori italiani che hanno investito nel Paese e sono in difficoltà ad assumere operai. La forza lavoro è ancora in buona parte legata all’agricoltura e il governo ha incentrato la sua politica sul rifiuto dell’immigrazione: nel 2017 sono stati solo 12 mila gli immigrati (la metà dall’Ue), i rifugiati 1.300. Mentre dal 2010, anno in è andato al potere Orbán, 600 mila ungheresi — in particolare i più istruiti — sono andati all’estero.
Finora la politica anti-migranti, grazie alla piena occupazione, gli aveva garantito ampi consensi. Ma senza gli stranieri manca anche manodopera a buon mercato, così il premier ha dovuto rispondere forzando sugli straordinari. E gli ungheresi hanno iniziato a dire no.

Repubblica 18.12.18
Ungheria
La piazza di Budapest sfida Orbán ormai è rivolta per la " legge-schiavitù"
di Andrea Tarquini


BERLINO, GERMANIA Continua e cresce per il quinto giorno consecutivo nella capitale ungherese Budapest la protesta contro la cossidetta "legge-schiavitù" passata dal governo di Viktor Orbán. Ogni giorno migliaia di persone scendono in piazza, tutti uniti: sindacati, partiti d’opposizione di sinistra o liberal, estrema destra, gruppi giovanili della società civile. Ieri le forze di sicurezza hanno nuovamente reagito con durezza: tra i lanci di lacrimogeni della polizia alcuni deputati indipendenti dell’opposizione sono stati pestati ed espulsi a forza dalla sede centrale della MTV, la tv pubblica, dove erano entrati pacificamente per chiedere che i media dessero notizie del movimento. È una difficoltà imprevista per il carismatico leader. Nelle prossime ore sono annunciati nuovi cortei dopo quelli attaccati con lacrimogeni e idranti nella tarda serata di domenica. Per la prima volta un esecutivo sovranista nel gruppo di Viségrad (Polonia, Cechia, Slovacchia, Ungheria) e nella Ue in generale affronta simili proteste, che minacciano di guadagnare ampiezza paragonata da diplomatici e osservatori a quella dei gialli in Francia.
Ákos Hadházy e la signora Bendett Szél, entrambi legislatori indipendenti dell’opposizione, sono stati brutalmente picchiati e buttati fuori dall’edificio della Magyar Televizíó dove erano entrati pacificamente per esporre le loro richieste di libera informazione. La signora Szél è riuscita a documentare tutto in un video girato con lo smartphone mentre insieme a Hadházy veniva pestata, spintonata ed espulsa. È la prima volta da quando è stato eletto nell’aprile 2010 (e rieletto poi nel 2014 e quest’anno) che Orbán affronta contestazioni talmente ampie, e soprattutto trasversali: le forze più eterogenee, da sindacati, socialisti e liberali, ai giovani alternativi, all’ultradestra di Jobbik, sfilano da cinque giorni in piazza sventolando bandiere nazionali contro la legge che aumenta a 400 l’anno il numero di ore straordinarie permesse, e che secondo il governo favorisce sia le imprese sia i lavoratori che vogliono guadagnare di più. "Gli eventi di piazza sono una dimostrazione aggressiva di una piccola minoranza", ha dichiarato Gergely Gyulas, ministro e tra i principali consiglieri del premier.
Sono le dimostrazioni più massicce a Budapest da quelle contro il governo socialista svoltesi nel 2006. Domenica a tarda sera almeno 15mila persone si sono riunite nella monumentale Piazza degli eroi marciando poi lungo il lungo, centrale viale Andrássy fino al Parlamento e affrontando cariche della polizia. Da ieri il nuovo obiettivo delle dimostrazioni è il centralissimo palazzo della televisione, accusata di silenzio sulle proteste. I manifestanti chiedono anche la fine del controllo totale sui media da parte del governo e della fondazione istituita da oligarchi che controlla 432 testate.

Corriere 18.12.18
Sfida di Corbyn: mozione di sfiducia a May
dal corrispondente a Londra Luigi Ippolito


I laburisti tentano lo sgambetto di Natale a Theresa May: non è detto che riescano a farla cadere, ma sicuramente aggiungono ulteriore pressione a una premier già sotto assedio. Ieri il capo dell’opposizione, Jeremy Corbyn, ha annunciato una mozione di sfiducia contro la leader del governo: non contro l’esecutivo nel suo complesso, ma proprio contro la persona di Theresa May. I laburisti, spiegavano ieri sera alcune loro deputate, sanno di non poter mandare sotto il governo, ma puntano a catturare i voti di quei conservatori euroscettici che osteggiano la premier: che, se venisse sfiduciata in aula, sarebbe costretta a dimettersi. La speranza dell’opposizione è che la mozione venga messa ai voti già oggi: tuttavia i rappresentanti della fronda conservatrice anti-May hanno fatto sapere che in ogni caso voterebbero a favore della premier e dunque la mossa laburista rischia di esaurirsi nel nulla.
La mozione di Corbyn è però il segnale di una esasperazione generale. Ieri la May ha annunciato nell’aula di Westminster che il contestato accordo con l’Europa sulla Brexit non sarà messo ai voti prima della seconda metà di gennaio. Già la scorsa settimana la premier era stata costretta a cancellare all’ultimo minuto la votazione perché era evidente che l’accordo sarebbe stato bocciato: ora punta ad allungare i tempi il più possibile in modo da agitare il fantasma del no deal, un’uscita catastrofica dalla Ue senza accordi. Questo perché la data della Brexit, fissata per legge, è il 29 marzo: e se non si approva il patto con Bruxelles si rischia effettivamente un salto nel buio. Tuttavia anche il governo si sta spaccando: c’è una pattuglia di ministri che punta a un cosiddetto «no deal controllato», nella speranza che le ripercussioni siano minime, mentre un’altra fazione sta esplorando la via di una Brexit supersoft o al limite anche di un secondo referendum, con l’obiettivo di invertire la rotta all’ultimo minuto. Oggi l’esecutivo si riunisce a Downing Street: e forse vedremo chi alla fine avrà la meglio.

Corriere 18.12.18
Shoah
La Germania risarcirà i bambini che fuggirono dai rastrellamenti nazisti
di Luigi Ippolito


Un risarcimento in denaro, sia pur simbolico (2.500 euro), per centinaia di quei bambini soprattutto ebrei, oggi anziani, che furono costretti a separarsi dai genitori e a lasciare la Germania a bordo di treni speciali diretti in Gran Bretagna per mettersi in salvo dal nazismo. È il risultato raggiunto dalla trattativa fra la Claims Conference (che si occupa del risarcimento delle vittime della Shoah) e il governo tedesco, di cui ha dato annuncio il presidente Julius Berman.

Corriere 18.12.18
Il rapporto
«Israele viola la legge a Hebron»


Israele viola «regolarmente e in modo grave» la legalità internazionale ad Hebron, in Cisgiordania, dove esiste una enclave ebraica - di 500-800 persone -  un Rapporto del Tiph (Temporary International Presence in Hebron) : una forza internazionale di monitoraggio (disarmata) di cui fanno parte carabinieri italiani, che ne hanno il vicecomando — in occasione del suo 2o° anno di attività. La città, in base agli Accordi, oltre al settore H2 ha quello H1 che è sotto giurisdizione dell’Autorità nazionale palestinese e dove vivono circa 175mila palestinesi. Il quotidiano Haaretz ne riferisce in esclusiva del contenuto.

il manifesto 18.12.18
Israele, una legge per deportare i parenti degli attentatori palestinesi
Una commissione ministeriale porterà alla Knesset un disegno di legge che prevede il "trasferimento" con la forza delle famiglie dei palestinesi autori di attacchi. Intanto Airbnb revoca l'esclusione dalle sue liste delle case dei coloni
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Difficilmente avrà qualche effetto la contrarietà manifestata dal procuratore generale Avichai Mandelblit. La commissione ministeriale per la legislazione è intenzionata a portare al voto della Knesset il disegno di legge che consentirà il “trasferimento forzato”, la deportazione, delle famiglie di palestinesi responsabili di attentati. La proposta viola i diritti umani e potrebbe sfociare in una condanna internazionale di Israele, fa notare Mandelblit. Ma i ministri israeliani fanno spallucce. Il loro obiettivo è autorizzare i comandi militari a “ricollocare”, così scrivono, i parenti degli attentatori, che saranno allontanati dalle loro case e portati in altre località, se non addirittura mandati a Gaza, già una prigione di fatto per oltre due milioni di persone.
I governi israeliani, non solo quello in carica, hanno sempre considerato il potere di deterrenza nei confronti di palestinesi, arabi e nemici, come «la pietra angolare della sicurezza». Non sorprende perciò che il premier Netanyahu abbia dato il suo pieno appoggio alla legge in cantiere. «I giuristi dicono che è contraria alla legge e che sarà contestata ma io non ho dubbi sull’efficacia di questo strumento», ha commentato. Secondo il ministro dell’istruzione Naftali Bennett, l’esercito è costretto a badare troppo alle leggi a danno della «lotta al terrorismo». I militari, spiega Bennett, piuttosto devono avere le mani libere e fare ciò che credono, incluse le deportazioni dei parenti degli attentatori che nella stragrande maggioranza dei casi colpiscono soltanto persone innocenti, anche bambini, e, lo pensano anche alcuni dirigenti dei servizi di sicurezza, non servono a nulla. Lo dimostrano le tante demolizioni di case degli attentatori eseguite sino ad oggi. La malattia da debellare piuttosto è l’occupazione militare e coloniale dei Territori palestinesi. Ma Israele non cambia politica. A Shweika (Tulkarem) ieri le ruspe dell’esercito hanno ridotto in un ammasso di macerie l’abitazione della famiglia di Ashraf Naalwa che lo scorso ottobre aveva ucciso due israeliani, nella colonia di Barkan. Naalwa è stato freddato la scorsa settimana da un commando israeliano nel campo profughi di Askar (Nablus).
La distruzione di case, edifici e strutture palestinesi è una pratica diffusa che va ben oltre i confini della reazione ad attentati. Nei giorni scorsi, denuncia l’Ufficio Onu per gli affari umanitari (Ocha), le forze armate israeliane hanno demolito la scuola della comunità beduina di As Simiya, a sud di Hebron, pronta ad aprire le sue sette aule a cinquanta studenti. Si trattava di una scuola fatta di cointainer, costata circa 40 mila euro, e avrebbe permesso ai ragazzi di non dover andare ogni giorno fino ad Al Samou, lontano alcuni chilometri. Invece per Israele quella scuola era illegale, assemblata senza il suo permesso. Adesso si teme che le ruspe entrino in azione anche a Khan al Ahmar, il piccolo insediamento beduino dove sorge la Scuola di gomme costruita dalla Ong italiana Vento di Terra, non ancora demolito grazie all’intervento dell’Ue e dell’Onu sul governo israeliano.
Israele la deterrenza la applica solo nei confronti dei palestinesi e non anche dei suoi coloni, protagonisti negli ultimi giorni di violente rappresaglie, a colpi di pietre, contro case e automobili palestinesi. Violenze criticate persino dall’inviato degli Stati uniti in Medio oriente Jason Greenblatt. A dare una mano ai coloni è anche il procuratore Mandelblit. Contrario alle deportazioni dei parenti degli attentatori, Mandelblit è stato pronto ad aprire la strada alla legalizzazione di 66 avamposti coloniali in Cisgiordania richiesta dal governo. Inoltre ieri sera Airbnb ha ritirato il provvedimento con il quale aveva eliminato dalle sue liste gli alloggi dei coloni indicati dai proprietari in Israele mentre si trovano in un territorio palestinese occupato.

La Stampa 18.12.18
Bimbi migranti al confine Usa identificati con un timbro
di Francesco Semprini


Ha sollevato un’ondata di profonda indignazione la vicenda dei bambini migranti provenienti dall’America Centrale e marchiati sulla pelle dagli agenti di frontiera del Messico. Un metodo utilizzato per schedare i minori che insieme con le famiglie tentano di attraversare il confine verso gli Stati Uniti passando per la Ciudad Juárez, ai quali viene contestualmente chiesto di riempire formulari con le loro generalità.
Sono così diventate immediatamente virali le immagini diffuse dalla rete Msnbc dei giovanissimi migranti al confine tra Messico e Stati Uniti che alzano le maniche di maglie e giubbotti per mostrare il marchio effettuato con un pennarello scuro. Scene rilanciate dai media di tutto il mondo, che riportano alla mente quelle dei campi di concentramento nazisti tanto da scatenare la protesta della stampa israeliana, a partire da Haaretz e Jerusalem Post. Sebbene si tratti di una pratica attuata dai funzionari messicani, la vicenda ha riaperto le polemiche trattamento delle persone alla frontiera meridionale degli Usa e la linea dura sull’immigrazione dettata dal presidente Donald Trump sono tornati negli ultimi giorni al centro del dibattito, dopo la tragica morte di Jakeline Caal.
La piccola morta
La bimba di sette anni del Guatemala è deceduta poco dopo essere stata fermata dalla polizia di frontiera nel deserto del New Mexico dopo aver attraversato il confine con il padre, e faceva parte di un gruppo di 163 migranti presi in custodia dagli agenti del Us Customs and Border Protection (Cbp). Circa otto ore dopo essere stata fermata, a Jackeline è venuta la febbre a 40 e ha iniziato ad avere convulsioni: è deceduta per arresto cardiaco a meno di 24 ore dal trasporto in elicottero al Providence Children’s Hospital di El Paso, in Texas.
Secondo le autorità americane la minore era disidratata e non mangiava da giorni, ma il padre della bimba, Nery Caal, attraverso un portavoce, ha raccontato una versione diversa, spiegando che Jackeline aveva mangiato e bevuto acqua potabile durante gli oltre 3200 chilometri di viaggio percorsi dal centro del Guatemala e poi attraverso il Messico prima di essere arrestata il 6 dicembre con altri 162 migranti al confine col New Mexico. La famiglia chiede adesso un’indagine «obiettiva e completa» per accertare se le autorità Usa hanno rispettato gli standard previsti per la detenzione dei minori. L’autopsia chiarirà le cause del decesso, nel frattempo i primi esami hanno rivelato un gonfiore al cervello e una insufficienza epatica.

Repubblica 18.12.18
Il muro di Trump
Bambini "marchiati" al confine l’ultimo scandalo tra Usa e Messico
Numeri sulle braccia dei piccoli migranti. La protesta dei democratici: "Come l’Olocausto" Polizia messicana sotto accusa. Le Ong: "Gli agenti americani tolgono l’acqua per i soccorsi"
di Federico Rampini


NEW YORK L’ultimo scandalo al confine tra Messico e Stati Uniti è quello dei bambini " marchiati", coi numeri segnati sulle braccia: le immagini sono circolate via Twitter dopo essere state riprese da un fotografo della Reuters, José Luis Gonzalez, poi dalla televisione Nbc. Hanno fatto il giro del mondo anche perché la deputata newyorchese Alexandra Ocasio- Cortez ha paragonato la sorte dei migranti a quella degli ebrei che fuggivano l’Olocausto nella seconda guerra mondiale; un riferimento che ha avuto una risonanza particolare sulla stampa israeliana. Ma proprio i media israeliani, nel sollecitare verifiche e approfondimenti sul campo, hanno aggiunto alcuni dettagli: i numeri iscritti sull’avanbraccio di quei minorenni erano segnati con un semplice pennarello; e a usare questi metodi per l’identificazione è stata la polizia messicana, non le guardie di frontiera sul versante Usa.
Intanto si è raggiunta una ricostruzione ufficiale sulla tragedia della bambina di sette anni morta di disidratazione al confine. La sua identità è stata confermata dal governo del Guatemala, il paese di provenienza: si chiamava Jakelin Amei Rosmeri Caal Maquin. Era stata fermata, con suo padre, mentre attraversavano la frontiera penetrando nello Stato del New Mexico con un gruppo di 160 migranti. La località più vicina al loro attraversamento, Antelope Wells, non ha personale medico per affrontare queste emergenze. Prima che il gruppo di migranti venisse caricato su autobus per essere trasferiti, il padre di Jakelin ha lanciato l’allarme segnalando che la bimba stava male e vomitava. Quando è arrivata alla prima postazione delle guardie di frontiera a Lordsburg, un’ora e mezza dopo, la bambina aveva cessato di respirare. Al pronto soccorso hanno fatto due tentativi di rianimarla, poi è stata trasportata all’ospedale di El Paso in Texas, dove è morta per un arresto cardiaco sotto gli occhi del padre. Era in uno stato di disidratazione grave, il che ha provocato le accuse contro la polizia di frontiera. Il capo della Border Patrol, Kevin McAleenan, è stato chiamato a deporre davanti al Congresso, in un’audizione dedicata alla situazione lungo la frontiera col Messico. Ha detto che le postazioni della Border Patrol lungo il confine non sono mai state progettate né attrezzate per accogliere minori. A novembre 25.000 famiglie con bambini hanno attraversato la frontiera, più 5.200 minori non accompagnati. « La nostra infrastruttura — ha detto il capo della polizia di frontiera — non è compatibile con questa realtà». I democratici alla Camera hanno chiesto l’apertura di un’inchiesta federale sulla morte della bambina guatemalteca, e sulle azioni della polizia di frontiera che possono avervi contribuito. Una ong umanitaria, No More Deaths (" Basta morti") ha diffuso un video che mostra agenti di frontiera nell’atto di eliminare taniche d’acqua potabile lasciate dai volontari nel deserto per soccorrere i migranti.
Intanto il Muro col Messico è tornato in primo piano a Washington. Trump esige che nella prossima legge di bilancio figuri uno stanziamento di 5 miliardi per costruire quel Muro, che fu una delle sue più celebri promesse in campagna elettorale. I democratici al massimo accettano di concedere 1,4 miliardi per la modernizzazione delle cinte già esistenti lungo il confine ( una muraglia vera e propria esiste solo in California, fra Tijuana e San Diego, e venne costruita ai tempi di Bill Clinton). Il braccio di ferro potrebbe portare a uno " shutdown", cioè la chiusura parziale degli uffici pubblici, prima di Natale. È il primo episodio di coabitazione tesa fra la nuova maggioranza democratica alla Camera e Trump, dopo che le elezioni di mid-term il 6 novembre hanno segnato un’avanzata della sinistra.

La Stampa 18.12.18
Quando siamo diventati “teste rotonde”
In due geni le differenze tra noi e i Neanderthal
“L’evoluzione ha plasmato la forma e i pensieri”
di Marta Paterlini


Caratteristiche distintive degli esseri umani moderni sono la scatola cranica e il cervello di forma arrotondata: questa globularità - come si dice in gergo - si è evoluta gradualmente, in modo indipendente dal volume cerebrale. Anche i più antichi fossili di Sapiens, ritrovati a Jebel Irhoud, in Marocco, e risalenti a 300 mila anni fa, avevano un volume endocranico come quello di un umano contemporaneo, ma la forma era allungata. Sarebbe, quindi, più una questione di forma che di volume una delle differenze-chiave tra noi e i cugini Neanderthal.
La transizione verso la globularità riflette, probabilmente, i cambiamenti evolutivi nell’organizzazione delle strutture del cervello e forse nel modo in cui le aree si sono connesse. «Tuttavia il tessuto cerebrale non si fossilizza e quindi la biologia di base è rimasta elusiva. Finora - spiega Philipp Gunz, paleoantropologo del Max Planck Institute di Lipsia -. Ecco perché abbiamo cercato le risposte con un approccio interdisciplinare, riunendo l’analisi di crani fossili, delle sequenze di genomi antichi che hanno contaminato quelli moderni, di imaging cerebrale e di genetica molecolare. Così si ottiene una finestra su come il cervello sia cambiato in 300 mila anni».
Tracce sepolte
In ognuno di noi è sepolta qualche traccia di Neanderthal, tra l’1 e il 2% del Genoma. «Sfruttando la nostra Neanderthalianità, abbiamo voluto capire se qualcuno di questi frammenti spinga verso una forma cerebrale meno globulare - continua Gunz -: abbiamo identificato due frammenti di Dna di Neanderthal che, ritrovati nel Genoma dell’uomo moderno, rendono la forma cerebrale leggermente più allungata. Abbiamo quindi scoperto che su questi frammenti si associavano sottili alterazioni nell’espressione genica. Per i portatori della componente neanderthaliana nel gene Ubr4, che promuove la neurogenesi (la generazione di neuroni), abbiamo individuato una piccola diminuzione dell’attività nel putamen, la porzione esterna dei gangli della base. Per Phlpp1, invece, un gene che riduce la crescita di mielina intorno agli assoni, abbiamo osservato un aumento dell’attività nel cervelletto. Entrambi, putamen e cervelletto ricevono input diretti dalla corteccia motoria e sono quindi coinvolti nella preparazione, nell’apprendimento e nella coordinazione senso-motoria del movimento».
Il tratto multifattoriale
Questi effetti genetici sono interessanti, perché putamen e cervelletto sono strutture che possono contribuire ai cambiamenti nella forma del cervello stesso. «Nel confronto tra Neanderthal e umani la variazione del cervelletto e quella delle regioni al di sotto dei lobi parietali rappresenta una significativa proporzione della differenza morfologica tra le due specie», commenta Gunz. Il suo è il primo studio sulla globularità, che è un «tratto multifattoriale»: la forma cerebrale dipende dall’interazione tra crescita dell’osso cranico, dimensione del viso e modalità del neurosviluppo. È quindi probabile che ci siano altri geni da scoprire. Al Max Planck, perciò, si vuole aumentare il numero di campioni da sequenziare.
«I due geni suggeriscono nuove idee sull’evoluzione: gli psicobiologi hanno sempre sostenuto che la corteccia prefrontale fosse uno dei tratti più distintivi, e sviluppati, dell’uomo moderno», spiega Gunz. Il cranio dei Neanderthal presenta invece una corteccia prefrontale dalla volta più bassa e ciò ha fatto supporre che le abilità nei processi decisionali e nei comportamenti sociali possano essere state più scarse. E tuttavia «l’aumento della dimensione del cervello, da solo, non è sufficiente per spiegare le caratteristiche uniche della nostra specie. Antropologi e neuroscienziati hanno riesaminato il ruolo dei gangli della base e del cervelletto nel supportare aspetti cruciali della cognizione e del comportamento - conclude Gunz -. Naturalmente non sminuiamo i contributi della corteccia, ma è essenziale considerare altre aree che hanno influenzato l’evoluzione».

Il Fatto 18.12.18
I troppi papirologi improvvisati
di Filippomaria Pontani


“Una parte della magistratura si arroga il diritto di decidere della scienza”: le dure parole della senatrice Elena Cattaneo contro i giudici che, senza competenza di merito, avallarono le cure del metodo Stamina, si attagliano bene al pronunciamento della Procura di Torino sul papiro di Artemidoro. Un documento ricco di errori d’ortografia e di merito (per es. Khashaba Pasha pare una città dell’Egitto, ma è il donatore del Museo di Asyut), che già a pagina 1 assimila una rivista specialistica come Museum Helveticum e un quotidiano come la Frankfurter Allgemeine Zeitung: un fondo di giornale e un articolo di filologia sono “stampa internazionale” alla stessa stregua. Nell’ultima pagina si citano le analisi sugli inchiostri del papiro prima ancora che esse siano concluse e pubblicate, insomma per sentito dire da una imprecisata comunicazione di Piero Gastaldo (cosa saranno le “reti di zinco” di cui si parla?), mentre si tace dell’articolo del 2010 sulla rivista scientifica americana Radiocarbon, che definisce gli inchiostri senz’altro compatibili con quelli usati nel I-II secolo d.C.
Così, tra le “prove” acquisite dal giudice Spataro figurano le didascalie del Museo di Antichità di Torino (apposte da solerti dipendenti del Museo), alcuni scritti di Luciano Canfora e della sua scuola (per lo più apparsi in sedi editoriali di Bari, Catania, Palermo, San Marino, direttamente o indirettamente controllate dal Canfora stesso), le risultanze di una conversazione tra il giudice e il medesimo studioso (19 maggio 2017), e la sbobinatura di un incontro bolognese del 2013; vengono ignorati, come se non esistessero, i tanti articoli su rivista e i convegni internazionali (con atti apparsi in sedi scientifiche indipendenti) di Oxford, Roma, Firenze, in cui dozzine di studiosi hanno affrontato molteplici aspetti del papiro, dal testo ai disegni “artistici” alla presunta mappa della Spagna, per lo più confutando o accantonando gli argomenti di Canfora.
S’ignorano anche le repliche – punto su punto – ai “furied attack” (come ebbe a dire un infastidito Martin West, principe dei filologi del Novecento) di Canfora e dei suoi allievi, come quella prodotta da Carlo Martino Lucarini su Philologus del 2009, o la magistrale analisi di Giambattista D’Alessio sulla Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik dello stesso anno. Né si accenna all’inverosimiglianza che l’artefice del manufatto possa essere il greco Konstandinos Simonidis, un falsario ottocentesco che non aveva le competenze e le abilità tecniche, paleografiche e filologiche per comporre un oggetto di questo genere, e che nelle più recenti versioni della claudicante teoria barese (forse ignote a Spataro) sarebbe stato seguíto da almeno un secondo truffatore: le figure di animali sul verso del papiro risalirebbero agli anni 70 del XX secolo (!), mentre trovano ottimi confronti nei disegni sicuramente autentici pubblicati nell’ultimo volume dei Papiri di Ossirinco (83, 2018).
A un certo punto del documento della Procura, dopo pagine e pagine che cercano di scovare qualcosa di sospetto nell’acquisizione del papiro (complessa e a tratti controversa come quella di tanti reperti di questo tipo), e mentre si mantiene sempre aperto il piano B (forse il papiro è davvero autentico, ed è stato acquisito in modo illegittimo), sboccia la sentenza di Spataro: “Canfora sostiene motivatamente” (p. 22): in assenza di perizie di esperti terzi, temo la sua parola abbia tanto peso quanto la mia in materia di procedura penale.
La vicenda dice molto anche di certa parte dell’accademia italiana: un luogo di baroni e di ombre, nel quale i “capibastone”, ben protetti dal sistema delle Consulte e della grande stampa, cercano di ottenere per via mediatica e ora anche giudiziaria quel consenso che non hanno raggiunto per via scientifica: telefonano a destra e a manca, inviano a tutti i colleghi articoli e pamphlet irricevibili contro chi osa argomentare un’altra posizione, mentre colleghe dal cognome importante, digiune di papirologia, decantano su un grande giornale la loro vittoria. Un’ottica di clan, di occupazione militare dello spazio che atterrisce chi s’interessa non ai tribunali né ai giornali ma alle tante questioni poste dal papiro, ed è convinto – al contrario di Spataro – che i molti e gravi “problemi aperti” lasciati dalla prima edizione del papiro non siano necessariamente una prova della sua falsità.
Le provocatorie teorie di Canfora sono in se spesso utili per mettere a fuoco delle difficoltà e per alimentare il dibattito critico, anche quando non riescano persuasive (varie sue tesi di storia contemporanea sono state confutate da grandi studiosi come Giancarlo De Vivo, Angelo Ventura e altri). È triste che vengano accompagnate dal dileggio degli avversari, dall’autoreferenzialità, dalla protervia.

Corriere 18.12.18
A fil di rete di Aldo Grasso
La prosa barocca di Franca Leosini contro i revisionisti di Erba


Il delitto di Erba, come altri delitti famosi, si porta dietro un affaticamento spettacolare, un andirivieni dalla realtà al reality, e viceversa, fatto di «vite in diretta», di cronaca nera trasformata in fiction, di racconti artefatti su realtà spaventosamente autentiche. «Fu la notte buia dell’anima quella notte del 2006», sostiene Leosini, che ha dedicato una puntata di «Storie maledette» non agli assassini Rosa e Olindo ma alle vittime, ai fratelli Castagna (Rai3, domenica, 21.15).
Perché questo scarto? «Non è per ripercorrere l’orrore — sostiene ancora Leosini —, ma è perché all’interno di un vento revisionista, innocentista verso Rosa e Olindo, si annida il tentativo di insinuare che la responsabilità sia di un familiare».
Leosini non rinuncia alle sue volute barocche («Olindo e Rosa, due pastori scesi da un presepe sbagliato»), ai racconti melò («Azouz sembra un tronista di Maria De Filippi»), agli accenni sessuali («il fascino della Bazzi non era di un fulgore ustionante»), a una prosa tutta scritta di «limacciosa fantasia». Ma perché interviene in favore della famiglia Castagna? Questo è davvero l’aspetto più curioso. Di norma, Leosini cerca di capire i motivi sociali che hanno spinto la vittima a commettere un delitto. Questa volta, invece, tenta di opporsi alla «sia pur legittima» spinta revisionista della difesa, in particolare cerca di contrastare indirettamente le tesi sostenute nel documentario «Tutta la verità» (in onda sul Nove nell’aprile di quest’anno), che aveva sposato la tesi dei difensori e di qualche cronista, cercando di entrare nelle inevitabili crepe delle indagini.
Leosini ha gioco facile nel tratteggiare tutte le ambiguità di Azouz (spacciatore, piccolo boss, espulso dall’Italia…) e la ferocia di Rosa e Olindo, il cui rapporto quasi morboso era stato rotto dalle intemperanze dei vicini. Oggi il revisionismo processuale è in tv, senza una fine.

Repubblica 18.12.18
"L’amica geniale" l’eccellenza italiana che parla al mondo
Mentre stasera su Rai1 si conclude la serie di Saverio Costanzo tratta dai best seller di Elena Ferrante, da domani in vendita con Repubblica arrivano in edicola i dvd
L’opera ha conquistato la critica americana e il pubblico italiano
di Silvia Fumarola


Gli americani si sono inchinati alla cura artigianale, hanno visto L’amica geniale di Saverio Costanzo come un omaggio al neorealismo. La serie è tra i finalisti per il miglior dramma in tv dei Critics Choice Awards che saranno assegnati il 13 gennaio sul canale CW. Il pubblico italiano (con ascolti record, 7 milioni di spettatori, col 30% di share), si è innamorato di Elena e Lila, le protagoniste di una saga al femminile che racconta il faticoso viaggio verso la vita di due piccole grandi donne partendo dalla Napoli degli anni 50. L’amica geniale si avvia all’epilogo, stasera su Rai 1 si chiude la prima stagione, e da domani la serie sarà disponibile in dvd in edicola con Repubblica (9,90 euro in più).
Tratta dai best seller di Elena Ferrante, la serie (Hbo-Rai Fiction e TimVision, prodotta da Lorenzo Mieli e Mario Gianani per Wildside e da Domenico Procacci per Fandango), era una sfida difficile da portare sullo schermo che Costanzo ha stravinto. Ha scelto come protagoniste due giovanissime esordienti di rara bravura. Lila bambina è interpretata da Ludovica Nasti, da adolescente ha il volto di Gaia Girace. Mentre la bionda Elisa Del Genio è Elena da piccola, e Margherita Mazzucco da ragazzina.
Nel quartiere Luzzatti di Napoli, ricostruito dallo scenografo Giancarlo Basili nella ex fabbrica Saint Gobain di Caserta, le pagine dei libri prendono vita, dai banchi di scuola alla bottega del padre calzolaio di Lila, dove la bambina, che non continua gli studi, inizia a lavorare. Ma la sua voglia di sapere, la passione per i libri, la accompagna: continua a leggere, divora i romanzi della biblioteca. È lei a spiegare a Elena il metodo per imparare il latino. Gli anni passano, le scelte di vita — spesso subite — non dividono le amiche che scoprono l’amore e la fatica di crescere. Sognano, provano a immaginare un’altra vita possibile oltre la ferrovia, i cortili, l’esistenza povera del quartiere, quella strada sterrata che è tutto il loro mondo.
Due figure minuscole e gigantesche: per Saverio Costanzo (che firma la sceneggiatura con la stessa Ferrante, Francesco Piccolo, Laura Paolucci) l’avventura di Elena e Lila «è come un western». Ora che è tempo di bilanci, il regista confessa che non si aspettava «un impatto col pubblico così sorprendente.
Certo grazie ai libri» spiega «sapevamo che la storia era amata, che sarebbe stata accolta con attenzione, ma personalmente non mi aspettavo che potesse coinvolgere bambini e ragazzi, anche se era la mia speranza profonda. A Caserta mentre giravo, pensavo: "Che bello se un’adolescente s’identificasse nelle nostre ragazzine". Oggi mi arrivano i disegni delle figlie di amici con Lila e Lenù piccoline, fatti da bambine di sette anni».
La forza dell’Amica geniale secondo il regista «sta nella vita stessa, vedevo germogliare il racconto sul set: era come assistere a un miracolo.
Prendeva forma ogni volta in maniera inaspettata. Questo grazie agli attori: abbiamo avuto la fortuna di trovare un gruppo di persone disponibili e umili, in ascolto, che si sono buttate rischiando oltre i propri limiti.
Tutti bravi, sono diventati una compagnia. Per arrivare a quest’armonia c’è un lavoro come quello che si fa con un’orchestra». Gli spettatori non si sono fatti intimorire neanche dal dialetto napoletano. «Parte di questa pasta recitativa è stata proprio il dialetto» dice Costanzo «sublime nell’ascolto, ricco e vario, come se fosse una lingua infinita. Il dialetto è un elemento drammaturgico prima ancora che linguistico e poi dà immediatezza, verità, e potenza alla recitazione».
Costanzo non dà peso alla censura della Rai, che ha sfumato pochi secondi della scena della violenza subita da Elena nel sesto episodio. «Sono un regista» chiarisce «consegno all’emittente quello che ritengo essere rispettoso e funzionale, poi se decidono di tagliare perché ritengono una scena inadatta sono loro considerazioni. Ci sono piattaforme in cui si può vedere la scena integrale. La Rai ha avuto il diritto di tutelare i suoi spettatori, in quanto servizio pubblico. Io non sono l’emittente. Come artista non mi sono sentito offeso perché la scena stava in piedi comunque».
Cose insegna L’amica geniale?
«Come sia ricco e stratificato l’universo femminile. Sto lavorando alla seconda stagione, quello che mi affascina e mi sorprende è la varietà: oltre a Elena e Lila ci sarà anche Pinuccia, la sorella di Stefano.
Scrivendo la sceneggiatura riflettevo proprio sulla ricchezza, le sfumature, la complessità dei personaggi.
Le eroine mi danno più stimoli, riescono a coinvolgermi anche da spettatore. Credo che la vera forza dell’Amica geniale sia la tenerezza dello sguardo».

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