il manifesto 18.12.18
Michel Foucault, archeologo del sapere
Per Orthotes la monografia che Gilles Deleuze dedica nel 1986 all’autore de «Le parole e le cose»
di Paolo Vignola
È
ora disponibile la nuova edizione del libro di Gilles Deleuze, Foucault
(1986), riproposto egregiamente dalla casa editrice Orthotes (pp. 180,
euro 17), con traduzione, cura e postfazione eccellenti di Filippo
Domenicali. Pubblicato a due anni dalla scomparsa del filosofo che ci ha
regalato lo scalpello per portare alla luce le stratificazioni del
sapere e nuove lenti per osservare il potere, Foucault probabilmente non
rappresenta soltanto una commemorazione concettuale dell’amicizia tra i
due filosofi, caratterizzata da profonde condivisioni così come dal
disaccordo sul desiderio e il piacere, bensì anche una risposta
diagonale, discreta, quasi impercettibile, all’ormai celebre frase
foucaultiana secondo cui «un giorno, forse, il secolo sarà deleuziano».
Invece di interpretarne il senso o di ricambiare la civetteria con
un’altra frase altisonante, Deleuze, in continuità con le sue monografie
precedenti, sembra aver scelto la strada della macchinazione, ossia la
ripetizione differenziante per cui si fa dire a un autore ciò che il suo
pensiero prepara senza affermarlo esplicitamente.
Così, forse,
Deleuze ci sta suggerendo che, se il secolo deve diventare deleuziano,
le ragioni – quali che siano – vanno cercate proprio in Foucault, ossia
dentro al Foucault, nel suo Foucault, il quale proviene dal fuori del
pensiero foucaultiano, vale a dire appunto dalla prospettiva di Deleuze,
un fuori da cui osservare le viscere e i movimenti peristaltici
dell’elaborazione concettuale del suo amico. L’ecografia deleuziana è
allora quanto mai precisa nel descrivere le tre ontologie di Foucault,
sapere, potere e sé, monitorandone anche il crescere e l’intrecciarsi
lungo il corso dei suoi libri. Sono ontologie storiche, poiché non
stabiliscono condizioni universali bensì problematiche, la cui aria
kantiana si impasta col fumo delle barricate, con gli odori e le
penombre delle carceri, con il vapore dei piaceri: «presentano la
maniera in cui il problema si pone in una certa formazione storica: che
cosa posso sapere, o che cosa posso vedere ed enunciare in certe
condizioni di luce e di linguaggio? Che cosa posso fare, a che potere
posso aspirare e che resistenze opporre? Che cosa posso essere, di quali
pieghe posso circondarmi o come posso produrmi come soggetto?».
Ontologie:
Foucault è per Deleuze sicuramente un archivista-archeologo del sapere e
un cartografo del potere, ma anche e soprattutto un filosofo teoretico
della molteplicità che lavora con metodologie, oggetti e materiali
diversi dai suoi, ai quali però lo stesso Deleuze ha spesso attinto per
sviluppare il proprio pensiero.
Foucault è però anche un pensatore
delle pratiche, tanto per il suo impegno nelle lotte politiche e
sociali – con la conseguente trasformazione del ruolo dell’intellettuale
– quanto perché è precisamente analizzando come funzionano nel concreto
e nel dettaglio le stratificazioni del sapere, le strategie del potere e
le pieghe della soggettivazione, che ha reso possibile al tempo stesso
una fondazione ontologica di queste tre sfere e un loro dinamismo
storico. È poi tale dinamismo la chiave per leggere le evoluzioni delle
formazioni giuridiche della sovranità, della disciplina e della
sicurezza, dell’anatomia politica e della biopolitica, così come il
primato della resistenza rispetto al potere, che sancisce la potenza –
in termini nietzschiani e spinoziani – dei processi di soggettivazione
e, dunque, delle lotte.
SI TRATTA TUTTAVIA di un primato
ontologico che deve sempre essere espresso in seno alla storia, nelle
condizioni concrete dell’esperienza e nella microfisica dei rapporti di
potere. Le domande poste in precedenza hanno allora un loro doppio
militante, che continua a innervare e problematizzare il nostro
presente: «Quali sono i nuovi tipi di lotte, trasversali e immediate,
piuttosto che centralizzate e mediate? Quali sono i nuovi modi di
soggettivazione, privi di identità, piuttosto che identitari? Quali
poteri bisogna affrontare, e quali sono le nostre capacità di
resistenza, oggi, nel momento in cui non è più sufficiente dire che le
antiche lotte non valgono più?». E così, Foucault, ossia il doppio di
Foucault, nelle ultimissime righe può esibire con grande chiarezza il
senso della «morte dell’uomo» annunciata in Le parole e le cose,
descrivendola come l’estinguersi di una forma antropocentrica di dominio
sull’esistente a vantaggio di un nuovo composto di forze, una nuova
forma che non sia «né Dio né uomo, di cui si può sperare che non sarà
peggiore delle due precedenti»: forse, era proprio quella morte, questa
nuova forma, la nascita del secolo deleuziano.