La Stampa 15.12.18
Il vangelo sovranista
Una sicurezza immaginaria per conquistare il popolo impaurito
di Giovanni De Luna
Le
discriminazioni che affiorano nel «decreto sicurezza e immigrazione»
hanno rilanciato nella polemica politica il richiamo al fascismo
mussoliniano e alle spinte razziste che culminarono nelle leggi
antiebraiche del 1938. Il termine era stato già usato nel passato,
spesso a sproposito, e proprio alla luce di questi precedenti oggi si è
un po’ tutti ostaggi della favola di Esopo, quella del pastore che
gridava «al lupo, al lupo!»: da un lato c’è il timore di non riconoscere
per tempo una malattia che sarebbe mortale per la nostra democrazia,
dall’altro quello di lanciare l’ennesimo allarme sbagliato e di
ritrovarsi inermi quando e se il lupo arrivasse davvero.
È un
fatto, però, che certe pulsioni biopolitiche presenti nel decreto
propongono uno scenario inedito nella storia recente della destra
italiana. Nel patto di cittadinanza che sorregge le costituzioni
democratiche e liberali, oggetto della sovranità dello Stato è l’uomo
come attore politico, non l’uomo come semplice essere vivente, con la
sua nuda vita e la sua fisicità corporea. Solo la smisurata statualità
dei totalitarismi novecenteschi si era spinta, con i lager, a
impadronirsi anche dei corpi dei deportati, riducendoli a esseri
biologicamente animali. Ora, nel decreto, l’esclusione degli immigrati
passa proprio attraverso la loro spoliazione di tutti i «segni» della
cittadinanza (anagrafi, passaporti, permessi di soggiorno, licenze e
diplomi scolastici) così che a definirli restano solo i marchi della
loro fisicità (le impronte digitali, le fotografie delle schedature, i
corpi «palestrati» della nave Diciotti, gli scheletri viventi ammassati
nei campi libici). Di colpo decine di migliaia di persone hanno smesso
di essere attori politici.
Oltre a questa, nella destra che ha
indicato in Matteo Salvini il proprio leader indiscusso ci sono molte
altre novità rilevanti. Nei primi due decenni della Seconda Repubblica,
nello schieramento che si riconosceva in Berlusconi (e Bossi) erano
molti gli elementi che aiutavano a decifrarne l’identità politica e
culturale: la leadership carismatica del «capo» era il nucleo centrale
di un’operazione per la quale i valori venivano a coincidere con gli
interessi, da difendere con un’aggressività direttamente proporzionale
alla paura di vederli messi a rischio da un «nemico» (di volta in volta
lo Stato, il fisco, l’Europa, la globalizzazione, i meridionali, gli
extracomunitari e, perfino - agli inizi - i comunisti!). Fu allora che
affiorò un tumultuoso «estremismo di centro», con il centro politico e
sociale del nostro paese, tradizionalmente caratterizzato da un cauto
moderatismo, che indossò i panni di un inedito radicalismo, scoprendo
forme di mobilitazione collettiva in passato appartenute prevalentemente
ai movimenti di sinistra (proteste di piazza, occupazioni stradali, con
i «Cobas del latte» di allora che anticipavano i gilet jaunes francesi
di oggi). Anche il progetto politico era chiaro, caratterizzato dal
tentativo di ridurre il peso contrattuale della massa dei salariati,
abbassare il costo del lavoro, diventato precario e flessibile, grazie
all’abolizione degli ammortizzatori sociali, trasformare la scuola, la
sanità, le pensioni da servizi a cui si aveva diritto in beni
privatizzati da «acquistare». Non si trattava certo di una destra
liberale in senso classico, anche se era ispirata da una concezione
quasi religiosa del mercato, giudicato perfetto in sé, in grado di
autoriformarsi e autoregolarsi.
Tutto questo, dopo la crisi del
2008, ha subito un vistoso appannamento; il mercato ha mostrato le sue
crepe e il mito della perfezione è andato in frantumi travolgendo molti
degli «interessi« che si erano sostituiti ai «valori». Nella destra di
Salvini è rimasta certamente la ricerca di un nemico a tutti i costi, ma
questa volta sono soprattutto i «poteri forti», la finanza, le
multinazionali a indirizzare verso l’alto l’aggressività che verso il
basso viene rivolta contro gli immigrati.
Il sovranismo di oggi,
con la sua idea di economia nazionale, indica così un percorso nel quale
la difesa dei propri interessi economici si coniuga con la ricerca dei
valori in grado di tutelarli al meglio, in questo senso consapevole
della insufficienza della «religione del mercato». Fino al 2008 lo
slogan «meno Stato più mercato» auspicava una cura dimagrante, in grado
si snellire l’ipertrofica dimensione che il ruolo dello Stato aveva
assunto nel ’900. Adesso invece la statualità della politica si
ripropone con forza sia nella destra leghista sia nel composito universo
dei Cinque stelle. Con qualche differenza: per Di Maio, lo Stato è solo
quello chiamato ad amministrare la cosa pubblica, un attento rapporto
costi/benefici, senza una progettualità politica riconosciuta, con un
patto di cittadinanza fondato sullo scambio consenso-sussidi; per
Salvini, il ripristino della sovranità dello Stato ignora il «patto di
cittadinanza» sul quale, nel welfare novecentesco, si sono fondate le
democrazie occidentali, proponendone uno di tipo securitario che esclude
ogni aspetto di solidarietà e condivisione, fondandosi esclusivamente
sullo scambio consenso-protezione.