martedì 11 dicembre 2018

La Stampa 11.12.18
Artemidoro ultimo atto, il papiro è un falso
di Maurizio Assalto


Artemidoro, chi si risente. Il giallo sul celebre papiro attributo al geografo greco fiorito nel 104 a.C., sulla cui autenticità era divampata a partire dal 2006 una battaglia storico-filologica mai vista e ampiamente seguita dai media, d’improvviso torna alla ribalta. Ma questa volta non si parla più di «affaire Artemidoro»: adesso si parla apertamente di «truffa», e il giallo ha un colpevole (il commerciante amburghese - di origine armeno-egiziana - Serop Simonian, oggi 76enne) e una parte lesa (la Fondazione per l’Arte della Compagnia di San Paolo, che nel 2004 acquistò il documento per la cifra record di 2,75 milioni).
A mettere la parola fine alla vicenda è il procuratore capo di Torino, Armando Spataro, dopo che nei giorni scorsi il presidente della sezione gip del Tribunale di Torino, accogliendo la sua richiesta, aveva disposto l’archiviazione per intervenuta prescrizione del procedimento per truffa aggravata a carico di Simonian ( aperto nel 2013 dall’allora procuratore capo Gian Carlo Caselli). «La certezza del falso è abbondantemente provata, quanto meno sulla base di elementi indiziari gravi, precisi e concordanti», ha scritto Spataro, che fa riferimento alla «evidenze preliminari» risultanti dalla documentazione fornita dalla «Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura» (nuova denominazione della Fondazione per l’Arte della Compagnia di San Paolo), in particolare «agli accertamenti svolti sulla composizione degli inchiostri usati per il papiro di Artemidoro, che appare decisamente diversa da quella degli inchiostri usati nei papiri egiziani» dell’epoca.
Tra gli indizi acquisiti nel corso dell’indagine c’è anche una lettera del 2 marzo 2004 con cui dalla Germania si confermava che non era necessaria l’autorizzazione a esportare il documento, in quanto «non appartiene ai beni artistici di valore per la storia tedesca». Come mai gli acquirenti italiani non si erano insospettiti? In ogni caso, spiega Spataro, «è stato ritenuto inutile disporre una consulenza tecnica, tanto più che i costi di questa non potrebbero essere giustificati», considerando che il fatto è ormai caduto in prescrizione.
Dunque il reato è riconosciuto, anche se non è più perseguibile. Alla medesima conclusione si era già arresa la Compagnia di San Paolo che, dopo avere in un primo tempo strenuamente difeso il suo acquisto, se ne era poi disimpegnata. E ieri, in una nota, ha preso atto delle dichiarazioni di Spataro, sottolineando che «la Fondazione ha intrapreso un percorso parallelo per valutare il reperto: dal mese di ottobre 2018 il papiro è stato trasferito presso l’Istituto di Patologia del Libro di Roma dove si stanno eseguendo indagini scientifiche da parte dei laboratori di tecnologia, chimica e biologia». Aggiungendo che «i risultati raggiunti fino ad ora dimostrano che si tratta comunque di un reperto dall’innegabile valore storico-artistico che potrebbe essere oggetto di studio per la comunità scientifica attenta a questi temi». Pertanto, chiarisce, la Compagnia «non intende intraprendere azioni legali a sua tutela». Vicenda chiusa, almeno dal punto di vista processuale.
«Viva la filologia!», esulta Luciano Canfora, il grecista che per primo, fin dall’inizio, aveva diffidato. Le cose erano andate così: dopo che la Compagnia di San Paolo, nell’ottobre del 2004, aveva annunciato l’acquisto del papiro per darlo in comodato gratuito alla neonata Fondazione del Museo Egizio, nel febbraio del 2006, in coincidenza con le Olimpiadi invernali, il reperto era stato esposto in pompa magna a Torino in una mostra a Palazzo Bricherasio, visitata anche dal Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi (che negli anni 40 si era laureato a Pisa in letteratura greca). «Sfortunatamente» tra i visitatori ci fu anche Canfora, che già soltanto esaminando il papiro nella teca si era accorto che qualcosa non quadrava.
Il documento era stato presentato come recuperato da una maschera funeraria tardo-tolemaica di papier-maché (un impasto di papiri di scarto, colla e gesso) acquistata da un collezionista tedesco che poi, incuriosito da alcuni dettagli, l’aveva fatta disfare scoprendovi diversi testi antichi. Quello più rilevante, che sarebbe stato composto in una bottega di scribi all’inizio del I secolo dell’era volgare, riportava uno dei pochi passi superstiti del trattato Tà gheographoúmena di Artemidoro di Efeso, relativo alla Penisola iberica, oltre a un preambolo «filosofico» fino a quel momento sconosciuto. Ma soprattutto era accompagnato da una serie di disegni, tra i quali spiccava quella che sarebbe stata la più antica carta geografica pervenuta fino a noi. Tale da giustificare il prezzo pagato dalla Compagnia, quando alla fine del secolo scorso il papiro era tornato sul mercato.
Tanto più che se ne faceva garante un’autorità mondiale nel campo dell’archeologia classica come Salvatore Settis, che già l’avrebbe voluto acquistare quando dirigeva il Getty Institute di Malibu, dovendovi rinunciare per insufficienza di budget. Su sollecitazione dell’allora ministro dei Beni culturali Giuliano Urbani, e sulla scorta di una perizia affidata al papirologo milanese Claudio Gallazzi e alla tedesca Bärbel Kramer, la Fondazione torinese riuscì a farlo suo.
Ma Canfora sospettò subito l’inganno: svarioni storici e geografici - «impensabili per un autore al cui confronto Strabone era un puro compilatore» -, disegni che ricordavano troppo immagini di epoca più tarda, espressioni greche improbabili, altre prese paro paro da autori del IV secolo e successivi. «La filologia è un’arma efficace, anche se spesso poco considerata», commenta adesso lo studioso, «ma questa volta celebra il suo trionfo, grazie a un’analisi linguistica, sintattica e contenutistica». Alla fine Canfora era riuscito anche a ipotizzare il nome del falsario, tale Constandinos Simonidis, un geniale greco vissuto nell’800, dottore in teologia e filosofia, pittore e paleografo. Ed era risalito fino all’ultimo anello della catena, il commerciante Serop Simonian, già implicato in oscuri traffici di antichità con tanto di un fratello morto ammazzato negli Stati Uniti.
Risultato: l’allora direttrice dell’Egizio, Eleni Vassilika, già scottata dall’antiquario tedesco quando curava il «Roemer und Pelizaeus Museum» di Hildesheim, non volle saperne di accoglierlo nel museo torinese, e così il papiro finì malinconicamente nel Centro di Restauro della Venaria. Ma soprattutto, dal 2006 in poi, Canfora ha avviato sul caso Artemidoro un fitto fuoco di fila, con decine di pubblicazioni in diverse lingue, conferenze in tutto il mondo e perfino un tour di interventi nei licei, a metà tra il missionario e l’agit-prop della sua causa filologica. Dall’altra parte si è risposto con altri studi, oltre 200, e con l’edizione critica del papiro, presentata con grandi squilli di tromba nel marzo del 2008 all’Ägyptisches Museum di Berlino: un maxi cofanetto di 20 chili e 480 euro di prezzo.
E la battaglia è proseguita - producendo, va detto, una mole di contributi la cui rilevanza scientifica va anche al di là del caso in questione. Adesso siamo davvero alla svolta conclusiva? Sentiamo l’altro duellante, Salvatore Settis «Non sempre la verità processuale e la verità storica coincidono. Per me conta solo quella storica. Io la conosco, perché ho studiato il papiro. E ribadisco che non è un falso. Ne sono assolutamente certo, dal punto di vista storico, archeologico, filologico, papirologico e paleografico».
L’impressione è che di Artemidoro sentiremo ancora parlare.