La Stampa 1.12.18
“Mio padre ammazzato ad Avola nella protesta dei braccianti
Dopo 50 anni nessun colpevole”
di Fabio Albanese
Il
2 dicembre del 1968, durante uno sciopero generale a sostegno della
vertenza salariale dei braccianti agricoli di Avola, la polizia sparò
sui manifestanti: due di loro morirono, altri 48 rimasero feriti, cinque
in maniera grave. Per quelli che sono passati alla storia come “i fatti
di Avola” non c’è mai stato un processo, non è mai stato individuato un
colpevole.
Avola si prepara a commemorare i cinquant’anni da quel
drammatico episodio che fece poi da apripista all’approvazione dello
Statuto dei lavoratori e alla legge sul disarmo delle forze dell’ordine
durante scioperi e manifestazioni. Paola Scibilia, figlia di Giuseppe,
una delle due persone rimaste sul terreno quel giorno, invoca giustizia
per il padre che, quando morì, aveva 47 anni e tre figli da crescere, e
per l’altra persona uccisa, Angelo Sigona, 29 anni: «Non ce l’ho certo
con lo Stato - dice la donna, 59 anni - noi abbiamo sempre avuto fiducia
nello Stato, mio figlio è un poliziotto, ma vorremmo sapere chi è
stato, chi ha ucciso mio padre e perchè».
Quel lunedì 2 dicembre
di 50 anni fa Avola si era fermata. Da una decina di giorni i braccianti
agricoli della zona sud della provincia di Siracusa, dove si
coltivavano e si coltivano mandorle e olive, chiedevano agli agrari di
equiparare la loro paga giornaliera di 3110 lire e l’orario di lavoro a
quelli dei lavoratori della parte nord del Siracusano, dove si producono
agrumi. Inutilmente, nonostante la mediazione della prefettura e
nonostante la differenza fosse di 300 lire in più e di mezz’ora di
lavoro in meno (da 8 ore a 7 ore e mezza). Un gruppo di manifestanti
bloccava il transito sulla statale 115 alla periferia del paese, in
contrada Chiusa di Carlo, lì dove ora sorge l’ospedale di Avola e dove
un cippo e una lapide ricordano cosa accadde. C’era l’ordine di
sgomberare e, come scrive lo storico locale Sebastiano Burgaretta che ai
Fatti di Avola ha dedicato un libro e la vita, nonostante il tentativo
di mediazione del sindaco dell’epoca, Giuseppe Denaro, che fu tra i
testimoni, «intorno alle 14 il vicequestore di Siracusa dott. Samperisi
dà ordine, e il reparto Celere fatto venire da Catania compie l’opera;
dopo venticinque minuti di fuoco restano sul terreno due morti, Angelo
Sigona e Giuseppe Scibilia, e 48 feriti, tra cui i più gravi sono
cinque: Salvatore Agostino, detto Sebastiano, Giuseppe Buscemi, Giorgio
Garofalo, Paolo Caldarella, Antonino Gianò». Sul terreno, disseminato di
pietre lanciate dai manifestanti per difendersi, verranno raccolti
oltre due chili di bossoli.
L’accordo
La procura di Siracusa
aprì un’inchiesta, lo stesso fece il ministero dell’Interno che dopo
poche ore destituì il questore di Siracusa. Il prefetto convocò subito i
sindacati e gli agrari e la notte stessa fu siglato quell’accordo sul
salario e l’orario di lavoro che fino a due giorni prima era stato
negato. Ma poi non è accaduto più nulla. «Tutto insabbiato - dice Paola
Scibilia - e noi non abbiamo mai avuto un sostegno, se si eccettua un
piccolo vitalizio che la Regione Siciliana aveva accordato a mia madre,
Itria Garfì, morta lo scorso agosto a cent anni sena vedere un po’ di
giustizia».
Le denunce
Dall’inchiesta, infatti, non è mai
scaturito un processo e le carte dell’indagine amministrativa del
Viminale non sono mai state rese pubbliche. Piuttosto, vennero
denunciati i braccianti che avevano manifestato: «Ci consigliavano di
fare una causa - ricorda la signora Paola - mia madre non li ascoltava
ma stava male. Noi siamo gente modesta. Temevamo, se le cose fossero
andate male, di perdere la casa frutto dei sacrifici di una vita di mio
padre e dove mia madre da sola doveva crescere tre figli». «Mio padre
non era un rivoluzionario, era un lavoratore e un marito esemplare -
racconta, ancora, la figlia di Giuseppe Scibilia - che amava i suoi
figli e lavorava sacrificandosi. Lo hanno ammazzato come fosse un
delinquente e ancora oggi c’è qualcuno che se lo porta sulla coscienza.
Quel giorno io, che avevo 9 anni, lo aspettavo per pranzo sull’uscio
della porta; l’ho visto agonizzante alla sera in un letto d’ospedale,
con una grossa ferita di pallottola sul fianco destro. Sembrava già un
cadavere, se ne andò durante la notte».
Ad Avola - dove nel bel
teatro Garibaldi nei giorni scorsi si è tenuto un convegno sulla strage,
il contesto in cui avvenne e il clima del ‘68 e nel municipio è in
corso una mostra con i giornali dell’epoca - domenica prossima da Roma
arriveranno i segretari generali di settore di Cgil, Cisl e Uil e da
Palermo il presidente della Regione Nello Musumeci, per ricordare quel
giorno terribile e dimenticato, una ferita aperta per gli avolesi, un
semplice episodio della storia delle lotte sindacali del Dopoguerra per
gli altri. Verranno portate, come ogni anno, corone d’alloro in contrada
Chiusa di Carlo, poi verranno premiati i ragazzi delle scuole del paese
che hanno partecipato a un concorso di scritti, disegni, lavori sui
«Fatti», infine il sindaco Luca Cannata aprirà un
convegno-commemorazione, per ricordare che è passato mezzo secolo da
quel giorno senza giustizia: «Dal sacrificio di mio padre hanno avuto
beneficio tutti i lavoratori italiani grazie allo Statuto dei lavoratori
che il ministro del lavoro Brodolini preparò dopo essersi precipitato
ad Avola - osserva Paola Scibilia, la cui figlia Ivana vorrebbe ora
dedicare ai Fatti di Avola la sua tesi di laurea - solo noi non abbiamo
avuto nulla. Senza l’accertamento dei fatti noi non siamo riconosciuti
come familiari di vittime di una strage. A noi neanche un risarcimento,
un vitalizio o un lavoro è mai arrivato dallo Stato».