sabato 1 dicembre 2018

Corriere 1.12.18
Moretti e il golpe in Cile
Quei 600 dissidenti salvati dall’ambasciata
di Paolo Mereghetti


«Santiago, Italia»: lo sguardo dell’autore sugli anni 70
Nanni Moretti è un regista che punta diritto al cuore, alla ricerca della strada più efficace e diretta. Una volta si sarebbe detto «economia di mezzi», oggi forse «essenzialità espressiva». Se vuole raccogliere i ricordi di un testimone lo fa sedere davanti alla macchina da presa e lo inquadra a metà tra il piano americano e il primo piano: in questo modo lo spettatore non è distratto da niente e ha l’impressione che la persona ripresa stia dialogando con lui, faccia a faccia. È così che ha costruito il suo documentario Santiago, Italia, presentato in chiusura del Torino Film Festival e da giovedì 6 dicembre nei cinema italiani. Ed è così che il film trova la sua forza e la sua emozione.
All’origine, c’è la scoperta di come l’ambasciata d’Italia a Santiago, nei giorni successivi al golpe di Pinochet, avesse dato asilo a molti militanti che cercavano rifugio dagli arresti e dalla repressione poliziesca. La notizia della disponibilità italiana ad accogliere i fuggiaschi si era diffusa, e in breve tempo sono stati quasi 600 gli asilados, i richiedenti asilo cileni, che hanno trovato riparo tra le mura italiane. Il merito era di due giovani funzionari, Piero De Masi e Roberto Toscano che, assente l’ambasciatore e di fronte al silenzio del Ministero degli Esteri (ai tempi guidato da Aldo Moro), aprirono le porte della nostra ambasciata. «Per una volta che avevamo fatto bella figura» aveva detto Moretti…
Da qui la voglia del regista di ritrovare chi quel muro l’aveva saltato davvero e aveva potuto lasciare il Cile grazie ai lasciapassare italiani. Niente voce off che introduce o spiega: solo le testimonianze di chi ha vissuto quei giorni drammatici con qualche spezzone giornalistico che ricostruisce l’elezione di Allende nel 1970, la breve esperienza del governo di Unidad Popular, il golpe dell’11 settembre 1973 e la successiva repressione.
Alcuni nomi noti come i registi Patricio Guzmán e Miguel Littin (entrambi arrestati subito dopo il golpe) aiutano a ricordare le speranze e le tensioni di quegli anni, ma sono soprattutto le persone comuni che interessano a Moretti. Di alcuni si intuisce la fede e la militanza partitica ma il regista ce li presenta con la semplice indicazione della loro professione. Non cerca intemerate ideologiche o politiche (e infatti le interviste più scontate sono proprio le più «militanti»), vuole invece ritrovare quella che con un pizzico di retorica potremmo chiamare «umanità» ma che dà meglio il senso delle parole che ascoltiamo. Ricordi di paura, di rassegnazione, anche di rabbia, il più delle volte di stupore e di dolore, dietro cui spunta una commozione che invano cercano di controllare e reprimere.
Con due eccezioni, le interviste a due militari: chi non ha debiti con la giustizia rivendica ancora oggi la legittimità del golpe «contro i comunisti», chi invece è in prigione per aver torturato e sequestrato si difende dietro il dovere dell’obbedienza, l’unico che spinge Moretti a entrare in scena, rivendicando la propria orgogliosa «parzialità» di fronte a quello che successe.
Un percorso di ricordi emozionanti, che si chiude sull’accoglienza di chi arrivò in Italia, accolto con generosità prima dal governo e poi da chi offrì un lavoro, permettendo un’integrazione che fa dire a un’artigiana dai capelli bianchi: «Noi siamo ricchi perché abbiamo due identità nazionali. Sono cilena per nascita ma il Cile è stato un patrigno cattivo. E invece l’Italia è stata una madre generosa e solidale».
Era il 1975…