Il Sole Domenica 23.12.18
Liliana Segre:
«Io, donna di pace: il mio impegno contro la parola e i fatti violenti»
colloquio con Maria Luisa Colledani
A
tu per tu. Senatrice a vita e sopravvissuta alla Shoah, Liliana Segre
ha presentato un disegno di legge per combattere l’incitamento all’odio -
«Mi spaventa questo tempo, ma confido nei princìpi della Costituzione»
«Si
figuri, ora vogliono fare i selfie con me, con una anziana nonna ma io
suggerisco loro di cercare qualche bella ragazza», Liliana Segre
confessa con una meraviglia appena accennata la notorietà che l’ha
avvolta da quando, lo scorso 19 gennaio, è stata nominata dal Capo dello
Stato, Sergio Mattarella, Senatrice a vita, proprio nell’anno in cui
ricorrono gli ottant’anni dalla promulgazione delle leggi razziali.
Il
suo appartamento è in una delle vie più belle di Milano, fatta di
silenzi, eleganti palazzi dell’Ottocento e un parco vicino. Sulla porta
il cognome della famiglia, gli interni da agiata borghesia milanese,
quella che con operosità e convinzione ha ricostruito l’Italia dopo la
guerra diventandone faro e modello. Il salotto è fasciato di volumi e
fotografie, su un ripiano della libreria anche un piccolissimo
candelabro ebraico. Due grandi mazzi di fiori freschi catturano la poca
luce di questa mattina che quasi ha in animo di portare la prima neve.
«Ho sempre vissuto mantenendo, per scelta, un profilo basso perché non
ho mai amato né la vita mondana né la rincorsa a qualcosa di importante e
perché - sottolinea - sono stata appagata dalla famiglia ritrovata,
dalla famiglia ricreata, dall’aver cresciuto i miei figli e dall’aver
curato la mia nonna». Poi, di colpo una telefonata dalla Presidenza
della Repubblica: «Un vero fulmine a ciel sereno perché è vero che nel
2018 cadono gli ottant’anni dalle leggi razziali e che i testimoni della
Shoah sono pochi (una mezza dozzina in Italia, ndr) ma, siccome non
c’era stato alcun accenno nella mia vita precedente a questa
possibilità, quando la segreteria del Presidente mi ha chiamato
annunciando la telefonata per “una bella cosa”, ho pensato di essere su
Scherzi a parte». E, invece, era tutto vero: «Il Presidente mi ha
chiamato ed è stato così meraviglioso, come è lui. Ho una grande
devozione per lui, un uomo timido dall’aspetto fragile ma dall’animo
molto forte. Fra noi c’è un affetto reciproco, come fra una vecchia
sorella e un vecchio fratello, anche se il Presidente è più giovane di
me».
Dopo quella nomina, sono arrivati tanti attestati, l’affetto
delle persone comuni, le strette di mano per strada, i selfie, le
richieste di decine di incontri: «Da gennaio la mia vita è cambiata.
Improvvisamente dal basso profilo che avevo scelto, sono diventata una
ricercata speciale in tutte le occasioni; personalità varie mi invitano,
mi tengono in considerazione, e questo mi fa piacere ma, a volte, anche
mi pesa. Non per l’età, che per ora mi conforta tanto che sono molto
indipendente di pensiero e guido ancora l’auto. Sono altri gli elementi
che mi pesano, ad esempio, il dover continuamente raccontare la mia
storia in contesti anche molto importanti. Temo che non solo l’età
avanzata e lo stato di salute, che può cambiare da un momento all’altro,
ma proprio lo spirito, a un certo punto, presto, mi farà riprendere il
silenzio dei 45 anni venuti dopo il lager. A volte, mi sento come un
jukebox: mi sdoppio mentre parlo, sono la nonna di me stessa e mi fa una
gran pena quella ragazzina là». Cioè la Liliana che, nel 1938, con la
promulgazione delle leggi razziali fu espulsa dalla scuola “per la colpa
di essere nata”; che dopo, con l’amatissimo papà Alberto e i nonni
Pippo e Olga (in memoria dei quali il 31 gennaio 2019 saranno collocate
due Pietre d’inciampo a Milano, in corso Magenta 55) sfollò in Brianza, a
Inverigo, per provare poi la fuga in Svizzera nel pieno dell’inverno
del 1943. Ma quel viaggio verso la salvezza, in cui Liliana si sentiva
un’eroina, sarà abortito da un funzionario svizzero tedesco: “Con grande
disprezzo e totale mancanza di umanità ci rimandò indietro. Io e papà
siamo dovuti tornare indietro”, scrive la Senatrice a vita nella sua
nuova opera letteraria Scolpitelo nel vostro cuore. Dal Binario 21 ad
Auschwitz e ritorno: un viaggio nella Memoria (Piemme, 2018). E così
continua il racconto del libro: “Io avevo tredici anni, e lì mi sentii
perduta. Dall’altra parte della rete avevamo i fucili puntati dai
soldati italiani. Che ci catturarono. La nostra fuga era finita. Io so
che cosa significa essere respinti. Perdere in un attimo tutta la
speranza”. E ritrovarsi poi ad attraversare da sola il dolore del mondo
nel gelo delle baracche di Auschwitz.
Il suo è stato il viaggio
nella banalità del male, l’ha ammutolita per quasi mezzo secolo, poi «a
45 anni dai fatti - ricorda - ho lasciato quella vecchia ragazza di
quindici anni per una nonna di 60. Era nato il mio primo nipote e ho
sentito che non potevo più fare a meno di parlare». Perché, come ha
scritto Primo Levi, “Se comprendere è impossibile, conoscere è
necessario”. Da quel giorno, scolaresca dopo scolaresca, gruppo dopo
gruppo, questa signora con la sua nuvola bellissima di capelli bianchi e
dalle collane eleganti ha incontrato 200-300mila giovani. Ora il suo
servizio di testimone non è più solo raccontarsi. «Quando sono arrivata
in Senato mi son detta che volevo fare qualcosa di buono, così ho
presentato il Disegno di legge contro l’ “Hate speech”. Ho orrore della
violenza in sé, non solo perché l’ho provata sulla mia pelle e l’ho
vista attorno a me, ma perché sento che è un fenomeno montante. La
violenza dilaga a tutti i livelli, dal più basso al più alto, e questo
propagarsi mi fa molta paura. Si deve cominciare a combattere la parola
violenza e la parola violenta così come i fatti violenti. La gente non
si frena più, si esprime con termini assolutamente inadatti
all’accaduto, l’umanità odia l’umanità. Ma come si può? E pensare che io
ho raccontato la mia esperienza sempre senza odio né vendetta».
I
nostri nonni che hanno combattuto per la libertà e tutti quelli che si
sono opposti al nazismo, al fascismo e agli -ismi sognavano un’altra
Italia: «Hanno fatto la SCELTA, scritta in maiuscolo, e pensavano - è la
riflessione di Liliana - che con il loro sacrificio avrebbero portato
la democrazia». Oggi il nostro Paese balla sull’orlo dell’abisso: lo sa
bene questa donna di pace, che ama definirsi, prima di tutto, nonna. E,
dalla sua poltrona, si china verso un tavolinetto. Qualche foglio di
carta intestata, gli occhiali e un libretto, la Costituzione italiana.
La prende, la tiene fra le mani come un bene prezioso, da difendere: «La
nostra Costituzione è straordinaria, i padri costituenti, che uscivano
dal quel momento storico e politico durato vent’anni, hanno studiato gli
articoli della nostra Carta da padri, non solo da liberi cittadini. Non
c’è alcuna violenza in questi articoli e ci sono solo princìpi contro
la violenza per ridare diritti alle persone. È un vero capolavoro».
Ma,
intanto, quella saggezza, quella preveggenza restano inascoltate:
perché tanta violenza, non solo in Italia? «Mi viene una risposta di
buonsenso - prova a spiegare la Senatrice -, anche se è terribile come
ipotesi. Ogni tot anni gli uomini devono fare la guerra, che è pura
violenza, e solo l’Europa unita, anche se non la trovo tanto unita, fa
sì che non si arrivi al conflitto ma stiamo vivendo quella fase sospesa,
quando sta per succedere qualcosa di grosso, che non scoppia per
davvero ma alimenta tanti rivoletti di male». E tutto, in qualche modo, è
legato all’esplodere di -ismi ovunque: «La fascistizzazione sta uscendo
ora - è l’amarezza della Senatrice - perché gli anni sono passati,
vittime e carnefici sono morti, i negazionisti sono tornati e non
dimentichiamo che nel Ventennio le piazze erano piene, che tutti ci
andavano spontaneamente e che le leggi razziali sono passate
nell’indifferenza generale. Quello spirito sta tornando». Ma la
nonna-testimone attraversa l’Italia e, instancabile, racconta: «Credo
nella memoria perché la memoria rende liberi e perché sento di fare il
mio dovere per quei sei milioni di ebrei che non sono tornati». Liliana
Segre tiene vivo il ricordo ma è pervasa da grande pessimismo: «Nel
1915, poco più di cent’anni fa, alle porte dell’Europa è avvenuto il
genocidio del popolo armeno. Chi ne sa più qualcosa? Trovo grandi
similitudini fra quanto hanno subìto armeni ed ebrei. Fra cent’anni la
Shoah sarà solo una riga sui libri di storia, che ormai non legge più
nessuno... Alla Shoah succederà come ai barconi dei migranti, coperti
dal Mediterraneo, nel silenzio più assordante».
I ragazzi sono i
suoi interlocutori principi, i destinatari della sua memoria, ma i suoi
occhi guardano lontano, oltre le persone che ha davanti, come se si
fossero fermati in quella voragine dell’umanità: «Io e mio marito ci
siamo molto amati: mi ha curato le ferite, mi ha aiutato, mi ha
sostenuto, “mi ha” seguito da tutti i participi possibili e anche nei
momenti in cui eravamo più giovani, più innamorati, mi diceva “Amore
mio, il tuo sguardo, i tuoi occhi guardano lontano, stai qui, stai qui
con me”».
Oggi Liliana Segre è nonna di tre nipoti e di tutti i
ragazzi che incontra: «Auguro loro di essere sempre più coscienti delle
loro possibilità, senza mai delegare. Solo in se stessi possono trovare
la forza di vincere la vita». Quella che la Senatrice ci dona con le sue
parole. Un dono eterno, non proprio come il piccolo pacchetto rosso che
poso fra le sue mani. Apre, incuriosita, alza gli occhi e sorride
appena: «Allora, ha letto», mi dice. Sono albicocche secche, le stesse
che la Senatrice ricorda nel libro La memoria rende liberi (Bur, 2015):
il 1° maggio 1945, i belli e abbronzati soldati americani le lanciavano
da una camionetta senza distinzione fra prigionieri e tedeschi. Liliana,
pur magrissima (pesava 32 chili), esausta e prostrata, riuscì a
piegarsi: «Con fatica ne raccolsi una, era fantastica, quell’albicocca
era il sapore della libertà». E, mentre mi congeda con un abbraccio
dolce e forte, mi ricorda che «la vita è bellissima, è un bambino che
nasce, un fiore che sboccia, un mare che scintilla». Ben più di un inno
alla vita. La vita stessa, la vita per sempre.