Il Sole Domenica 23.12.18
I maschi tra utopia e violenza
Francesco
 Piccolo. Nell’«Animale che mi porto dentro» l’unità virile, impersonata
 dal solito uomo del Sud di mezza età, è sottoposta a una lunga e 
sperimentale serie di scissioni
di Gianluigi Simonetti
Col
 passare degli anni e dei libri Francesco Piccolo si è forgiato 
un’identità stilistica precisa, all’opera tanto nei testi più brevi e 
frammentari, come Momenti di trascurabile felicità, quanto nei 
romanzi-non-romanzi di gittata più ampia, a metà tra invenzione, memoir e
 (finta) autobiografia - come La separazione del maschio, Il desiderio 
di essere come tutti o l’ultimo, appena uscito, L’animale che mi porto 
dentro. Elemento ricorrente è la fisionomia del narratore, un maschio 
meridionale di mezza età, che lavora tra letteratura e cinema, e che 
insomma somiglia moltissimo a Piccolo in persona; ma invece di costruire
 un personaggio dalle caratteristiche spiccatamente romanzesche, come 
accade a volte nell’autofiction, chi scrive s’impegna a mettere i dati 
banali della propria vita a confronto con la storia sociale, politica, 
antropologica della comunità che lo circonda. Il romanzesco non nasce 
dalle peripezie del personaggio, ma dall’osservazione personale di una 
materia molto quotidiana: una confessione intima, spesso impudica, 
sempre ostentatamente antintellettualistica e immediata, come se a 
commentare fosse un soggetto senza memoria e senza inconscio, per questo
 spasmodicamente attaccato alla realtà: «Alle volte nei romanzi 
bisognerebbe inventarselo il racconto; ma io, se devo dire la verità, 
non ne ho memoria e quindi nessuna base su cui costruirlo». I libri di 
Piccolo possono piacere solo se si ama quel personaggio onnipresente: 
sia perché racconta vicende di cui è protagonista o testimone, sia 
perché riflette in modo personale e idiosincratico su quelle vicende. Le
 quali, ed è il secondo punto importante, girano sempre attorno a un 
tema ben preciso e di sicuro appeal. Piccolo non cerca mai, come farebbe
 un romanziere vecchio stampo, una conoscenza totale del mondo; 
preferisce mettere in scena – in ogni sua impresa – l’esplorazione 
esauriente di una dimensione parziale. Proprio perché costruiti sullo 
scorrere fluido di episodi frammentari, e sul rinvio brioso, a grappolo,
 a storie parallele - tratte da libri altrui, canzoni e film, in qualche
 modo collegate alla vicenda principale e solidali alla cultura stessa 
del suo lettore medio - i romanzi di Piccolo hanno sempre, come si dice 
in gergo editoriale, un «manico» visibile - un tema o nucleo narrativo 
che consenta al lettore di impugnarli saldamente. Nell’Animale che mi 
porto dentro, come già nella Separazione del maschio, il nucleo in 
questione è l’identità virile, divisa tra idealismo e violenza, sempre 
scismatica eppure bisognosa di conciliazione: «Non voglio essere un 
animale, non riesco a essere un uomo sentimentale (…), ma posso far 
sposare l’animale e il sentimentale, possono convivere, possono star 
bene insieme». Ma mentre La separazione partiva da un dolore lacerante 
per arrivare a una serena, enigmatica tautologia («Sono un maschio, 
nient’altro che un maschio»), nell’Animale l’enigma è proprio il punto 
di partenza, e l’unità del maschio è sottoposta a una lunga e 
sperimentale serie di scissioni.
In un momento della nostra 
narrativa in cui molte voci tendono a somigliarsi, possederne una 
propria, chiara e riconoscibile è in sé un un fatto positivo. Tuttavia 
le modalità di questa voce implicano un grande potenziale e insieme un 
limite. La forza consiste nell’empatia conversevole che riesce a 
sviluppare, anche grazie a una scrittura affabile e vocata all’ironia: 
per esempio nell’Animale che porto dentro il parallelismo fra il 
protagonista (casertano) e l’esoticissimo Sandokan è ravvivato dalla 
scoperta che la Perla di Labuan in realtà è napoletana: «Lady Marianna, 
scopriamo pagina dopo pagina del libro di Salgari, è cresciuta a Napoli e
 canta accompagnandosi con un mandolino – quindi con ogni probabilità 
suona e canta canzoni napoletane. Mio padre, fin da quando ero bambino, 
ci ha fatto ascoltare canzoni napoletane». Proprio una di queste 
canzoni, Accordo in fa, opportunamente analizzata, aiuterà il 
protagonista a comprendere alcuni aspetti decisivi della sua educazione 
sentimentale: ciò che apparentemente è lontano serve a spiegare il 
vicinissimo, ciò che è vicino può portarci assai lontano. Tutto il 
romanzo di Piccolo, anzi in effetti tutti i suoi romanzi, sono ricchi di
 analoghe simmetrie o asimmetrie, più o meno nascoste, più o meno 
scoperte. Ma le ragioni drammaturgiche dell’autodenuncia sofferta o 
compiaciuta prevalgono di gran lunga sull’architettura ’profonda’ del 
racconto, e in fondo ne annacquano il vero contenuto (in questo caso la 
rivendicazione orgogliosa delle proprie riserve di violenza). I libri di
 Piccolo, e questo anche più di altri, sembrano meno organizzati e più 
insinceri di quello che in effetti sono: forse per bisogno di piacere e 
divertire, forse per eccesso di confidenza col lettore.
Ecco 
allora che l’handicap, nell’Animale che mi porto dentro, deriva dalla 
preminenza che la voce conversevole e brillante esercita sulle forme 
profonde del romanzo: a parità di argomento, La separazione del maschio 
lo ricordiamo più cattivo ed efficace dell’Animale, più radicale nel 
lasciare aperte le domande e nel farle confliggere tra loro. E del resto
 l’apparente semplicità dell’Animale ha spinto molti recensori a 
concentrarsi esclusivamente sul tema del romanzo, mettendolo alla prova 
del costume e della cronaca (il #metoo, la crisi del maschio); 
dimenticando tra l’altro che chi racconta è un personaggio, che si 
proclama sincero ma è capace di mentire, e che comunque quel che dice 
conta quanto quello che non dice; ogni episodio è ’in situazione’, ogni 
suo commento deve essere interpretato. E in effetti, a lettura 
terminata, l’impressione è che il tema in piena luce - il contrasto 
maschile tra bestialità e sensibilità – sia meno interessante di altre 
tracce che rimangono nell’ombra, e che un lettore attento potrà 
divertirsi a interrogare: il rapporto con il padre e con la moglie, il 
conflitto tra ciò che muta e ciò che cambia, la lotta interna non 
soltanto al maschio, ma all’essere umano. Insomma, «The Duality of Man»:
 così il protagonista di Full Metal Jacket, sulla cui divisa da marine 
il simbolo della pace e dell’amore convive con il motto «Born To Kill».
In
 fondo è lo stesso tema di una novella appena uscita, Trascurare Milano,
 di Luca Ricci (di cui pure si parla in questa pagina) - e probabilmente
 non è un caso: più la società chiede ai maschi di sentirsi in colpa, 
più la letteratura (che è rovescio dell’ideologia) mette in scena forme 
problematiche di orgoglio. Leggere Ricci insieme a Piccolo servirà a 
esemplificare due modi opposti di essere sinceri nel racconto: dove il 
secondo si interroga e ragiona, il primo risolve tutto sul piano 
narrativo, costruendo un breve apologo in cui la superficie cittadina è 
il regno della menzogna (e del «buio»), la metropolitana quello della 
verità (e del «vento»). Piccolo cerca di portare a galla ciò che non si 
vede, Ricci ci trascina in basso per vederci meglio.
L’animale che mi porto dentro
Francesco Piccolo
Einaudi, Torino, pagg. 240, € 19,50