Il Sole Domenica 23.12.18
Hanna Arendt
La realtà? Non ci riguarda
di Ermanno Bencivenga
I
Pentagon Papers furono uno studio di settemila pagine commissionato dal
segretario della Difesa americano Robert McNamara nel 1967, sulla
storia della guerra nel Vietnam dal 1945. Lo studio era tanto segreto
che non ne era a conoscenza neanche Lyndon Johnson, allora presidente
degli Stati Uniti. Dal 1969 Daniel Ellsberg, che ci aveva lavorato,
prese a farne copie, con l’intenzione di rivelare al pubblico le
menzogne e i crimini commessi dal governo nella conduzione della guerra,
e nel febbraio del 1971 lo consegnò al New York Times, che in giugno
cominciò a pubblicarlo. Il nuovo presidente Richard Nixon tentò di
bloccare l’operazione e il caso procedette fino alla Corte suprema, che
nello stesso giugno si pronunciò a favore del giornale citando il valore
e la responsabilità di una stampa libera. La reazione di Nixon, che
formò un'unità investigativa deputata a bloccare ogni ulteriore fuga di
notizie, avrebbe portato al Watergate e alla definitiva rovina della sua
presidenza. Il 18 novembre 1971 Hannah Arendt pubblicò un saggio sulla
New York Review of Books dedicato ai Pentagon Papers, intitolato Lying
in Politics e particolarmente attuale nel nostro mondo di fake news, che
la rinnovata casa editrice Marietti 1820 ha reso accessibile in una ben
curata edizione bilingue.
Il saggio di Arendt comincia con
un’osservazione inquietante: «La veridicità non è mai stata annoverata
tra le virtù politiche, e le menzogne sono sempre state considerate come
strumenti giustificabili nella gestione degli affari politici». Ancor
più inquietante è il fatto che Arendt non prende immediatamente le
distanze da questa pratica, a differenza, per esempio, di Socrate nel
Gorgia platonico, ma la comprende e la approva. La politica, dice,
agisce, cambia il mondo, dà inizio a qualcosa di nuovo, e un presupposto
per questa sua azione è rinnegare la realtà presente, affermando una
realtà diversa che al momento è, e forse rimarrà per sempre, un
progetto. «La deliberata negazione della verità fattuale – la capacità
di mentire – e la possibilità di cambiare i fatti – la capacità di agire
– sono fra loro connesse; devono la loro esistenza a un’unica risorsa:
l’immaginazione.» Dunque «la menzogna non è sgattaiolata dentro la
politica per un qualche caso dell’umana tendenza a peccare»; le è
connaturata e vitale.
Chi mente, però, manifesta con il suo
mentire l’esistenza di una verità che vuole occultare o emendare, quindi
esprime un intimo riconoscimento e rispetto della verità: «il guaio con
il mentire e l’ingannare è che la loro efficacia dipende interamente da
una chiara nozione della verità che il bugiardo e l’ingannatore
intendono nascondere». Ed è qui che, secondo Arendt, gli impostori
denunciati dai Pentagon Papers si rivelano una specie nuova. Sono
brillanti intellettuali, problem-solvers, «affascinati dalla mera
dimensione degli esercizi mentali» che il compito loro proposto
richiede, fieri di portarlo a termine con successo. Qual è il compito?
Manipolare l’opinione pubblica, favorire o almeno non deprimere il
consenso, vincere le prossime elezioni. Se questo è il compito, che
importa se gli esperti non credono all’effetto domino (in base al quale
un paese dopo l’altro sarebbe caduto nell’orbita comunista, quindi
bisognava evitare che ci cadesse il Vietnam), se Unione Sovietica e Cina
sono ai ferri corti, se i guerriglieri sud-vietnamiti sostengono la
loro lotta in modo ampiamente autonomo da rifornimenti dal Nord e,
soprattutto, se la guerra non può essere vinta: sono notizie scomode che
porterebbero il governo a un declino di popolarità e a perdere voti.
Dunque diremo il contrario, perché quel che accade davvero non ci
riguarda.
I telegiornali americani non di parte insistono da anni
sulle menzogne di Trump, che ormai contano a migliaia. Ma la lettura del
saggio di Arendt ci fa capire che la parola «menzogna» non è adeguata
per descrivere il fenomeno cui siamo di fronte e che, esploso ora in
misura devastante, ha però origine nei decenni scorsi e si annunciava
già nei Pentagon Papers. Quando Dante, Machiavelli e Leopardi invitano
l’Italia alla riscossa sono consapevoli di parlare di un sogno: sanno
che l’Italia cui fanno appello non esiste e non è mai esistita.
Parlarne, evocarne il fantasma, è un atto politico. Ciò con cui abbiamo a
che fare adesso, invece, quando ci si dice che dai tre ai cinque
milioni di immigrati clandestini hanno votato per la Clinton, o che due
persone furono uccise a Chicago mentre Obama vi faceva un discorso, è il
risultato di un isolamento dalla verità, di una dimenticanza della
verità, quindi anche della menzogna. Il sogno non è più tale perché non
si oppone più alla realtà; sogno e menzogna non esistono più perché
realtà e verità non esistono più. E non esiste più la politica, se per
essa intendiamo, come Arendt, azione che cambia il mondo. Ormai del
mondo basta parlarne, come ci piace e ci diverte, il che vuole anche
dire che non lo cambieremo: che ricchi e poveri, potenti e deboli
rimarranno ciascuno al proprio posto.
La menzogna in politica:
Riflessioni sui Pentagon Papers
Hanna Arendt
Traduzione di Veronica Santini, prefazione di Olivia Guaraldo, Bologna, Marietti 1820, pagg. XXXVIII+85, € 10