martedì 25 dicembre 2018


Il Sole Domenica 23.12.18
Sebastiano Maffettone
Un vademecum per leggere Marx
Sdrammatizzato il contrasto tra il Marx materialista e il Marx «umanistico»
di
Mario Ricciardi

Cominciato in sordina, sull’onda della lunga crisi economica, il dibattito sull’attualità degli scritti di Karl Marx ha acquistato nuovo vigore nel corso del 2018 per via del bicentenario dalla nascita del pensatore tedesco. Sembra che ci sia ormai un consenso molto ampio sul fatto che è ora di tornare a leggere Marx con attenzione. Chi volesse seguire questo consiglio, si troverebbe tuttavia ad affrontare un serio problema. Gli scritti di Marx non sono di facile comprensione per un lettore alle prime armi. Le sue opere più importanti, infatti, a cominciare dal monumentale Capitale, di cui è coautore l’amico e collaboratore di una vita Friedrich Engels, si occupano principalmente di economia, ma con uno stile e un lessico piuttosto lontano da quello dei testi odierni di questa disciplina. Serve quindi una guida, un mediatore, che sappia accompagnare il lettore in un percorso di scoperta tutt’altro che facile. A raccogliere la sfida di redigere un vademecum al pensiero di Marx è stato Sebastiano Maffettone, un maestro della filosofia politica italiana, noto anche all’estero per i suoi lavori su Rawls e sulla teoria della giustizia. Proprio tali caratteristiche della formazione e del profilo intellettuale di Maffettone rendono la lettura di questo libro particolarmente interessante. L’autore, come afferma egli stesso nelle prime pagine, non è mai stato marxista. La sua non è quindi una lettura di parte, ispirata dal proposito di difendere la reputazione di un pensatore il cui nome è inevitabilmente connesso alle vicende tragiche del “socialismo reale” del XX secolo. Questa estraneità di Maffettone al marxismo non comporta tuttavia un’ostilità preconcetta. Al contrario, con spirito laico egli vuole rileggere questo «filosofo tedesco della seconda metà del XIX secolo» per aiutarci a comprenderlo meglio, collocandone le idee nel contesto storico in cui furono formulate, ma anche mostrando che esse conservano una certa rilevanza per la situazione attuale.
L’ambiente di formazione e gli scritti degli anni giovanili di Marx sono oggetto di attenzione nei primi capitoli del libro di Maffettone. Giustamente, perché non è possibile comprendere le idee del Marx maturo, senza familiarizzarsi con il mondo dei “giovani Hegeliani”, un gruppo di pensatori di straordinario interesse, che rivoltavano le “armi della critica” contro lo stesso Hegel, e quindi contro la cultura dello Stato e della borghesia Prussiana cui il filosofo aveva assegnato un posto di rilevo nella sua ricostruzione filosofica delle vicende dello Spirito. Tra gli esponenti di questa corrente di pensiero, quello che esercita la maggiore influenza su Marx è Ludwig Feuerbach, la cui critica della religione su basi materialistiche sarà il “campo base” dal quale parte il percorso che condurrà, nel giro di pochi anni, alla prima formulazione di alcune delle tesi centrali del pensiero marxiano. A questa stagione, che corrisponde alla metà degli anni quaranta dell’Ottocento, appartengono le riflessioni consegnate ad alcuni quaderni, che verranno pubblicati solo a partire dagli anni Venti del secolo seguente. Questi “manoscritti economico-filosofici” riveleranno un Marx che alcuni vollero considerare “umanistico”, in contrapposizione a quello austeramente materialista della vulgata Sovietica. Maffettone ci aiuta a rileggere questa vecchia polemica sdrammatizzando il contrasto tra i due Marx. L’elaborazione delle tesi sull’alienazione e sullo sfruttamento dei manoscritti orienta sempre più l’interesse di Marx verso i fondamenti dell’economia politica, e questo lo conduce a riformulare le proprie idee portando in primo piano la prospettiva macroeconomica, letta attraverso una concezione materialistica dello sviluppo della società e dunque della storia. Le pagine in cui Maffettone descrive in modo accessibile le idee economiche di Marx sono brillanti. Sono pochi i filosofi che riuscirebbero a districarsi nell’orizzonte teorico del Capitale spiegando perché l’economia posteriore, per effetto della svolta marginalista e neoclassica, ha preso una strada che sembrava aver relegato le idee di Marx nell’irrilevanza. Maffettone corregge questa percezione ricordando alcune riletture contemporanee del pensiero di Marx che dovrebbero essere di grande interesse anche per gli economisti – come quelle di G.A. Cohen, Jon Elster o John Roemer – e l’attualità di diversi aspetti della critica del capitalismo che il pensatore tedesco ha cercato di delineare nelle sue opere mature. Sotto questo profilo, i liberali e i socialdemocratici hanno buone ragioni per tornare a leggere Marx.
Alla fine il Marx di Maffettone è un filosofo acuto e profondo, che non è mai riuscito a dare forma definitiva alle proprie idee, che in molti casi sono più delle intuizioni, o delle tracce da cui partire, che gli elementi di una dottrina da applicare.
Karl Marx nel XXI secolo
Sebastiano Maffettone,
Luiss University Press, 2018,
pagg. 184, € 12

Il Sole Domenica 23.12.18
Hanna Arendt
La realtà? Non ci riguarda
di Ermanno Bencivenga

I Pentagon Papers furono uno studio di settemila pagine commissionato dal segretario della Difesa americano Robert McNamara nel 1967, sulla storia della guerra nel Vietnam dal 1945. Lo studio era tanto segreto che non ne era a conoscenza neanche Lyndon Johnson, allora presidente degli Stati Uniti. Dal 1969 Daniel Ellsberg, che ci aveva lavorato, prese a farne copie, con l’intenzione di rivelare al pubblico le menzogne e i crimini commessi dal governo nella conduzione della guerra, e nel febbraio del 1971 lo consegnò al New York Times, che in giugno cominciò a pubblicarlo. Il nuovo presidente Richard Nixon tentò di bloccare l’operazione e il caso procedette fino alla Corte suprema, che nello stesso giugno si pronunciò a favore del giornale citando il valore e la responsabilità di una stampa libera. La reazione di Nixon, che formò un'unità investigativa deputata a bloccare ogni ulteriore fuga di notizie, avrebbe portato al Watergate e alla definitiva rovina della sua presidenza. Il 18 novembre 1971 Hannah Arendt pubblicò un saggio sulla New York Review of Books dedicato ai Pentagon Papers, intitolato Lying in Politics e particolarmente attuale nel nostro mondo di fake news, che la rinnovata casa editrice Marietti 1820 ha reso accessibile in una ben curata edizione bilingue.
Il saggio di Arendt comincia con un’osservazione inquietante: «La veridicità non è mai stata annoverata tra le virtù politiche, e le menzogne sono sempre state considerate come strumenti giustificabili nella gestione degli affari politici». Ancor più inquietante è il fatto che Arendt non prende immediatamente le distanze da questa pratica, a differenza, per esempio, di Socrate nel Gorgia platonico, ma la comprende e la approva. La politica, dice, agisce, cambia il mondo, dà inizio a qualcosa di nuovo, e un presupposto per questa sua azione è rinnegare la realtà presente, affermando una realtà diversa che al momento è, e forse rimarrà per sempre, un progetto. «La deliberata negazione della verità fattuale – la capacità di mentire – e la possibilità di cambiare i fatti – la capacità di agire – sono fra loro connesse; devono la loro esistenza a un’unica risorsa: l’immaginazione.» Dunque «la menzogna non è sgattaiolata dentro la politica per un qualche caso dell’umana tendenza a peccare»; le è connaturata e vitale.
Chi mente, però, manifesta con il suo mentire l’esistenza di una verità che vuole occultare o emendare, quindi esprime un intimo riconoscimento e rispetto della verità: «il guaio con il mentire e l’ingannare è che la loro efficacia dipende interamente da una chiara nozione della verità che il bugiardo e l’ingannatore intendono nascondere». Ed è qui che, secondo Arendt, gli impostori denunciati dai Pentagon Papers si rivelano una specie nuova. Sono brillanti intellettuali, problem-solvers, «affascinati dalla mera dimensione degli esercizi mentali» che il compito loro proposto richiede, fieri di portarlo a termine con successo. Qual è il compito? Manipolare l’opinione pubblica, favorire o almeno non deprimere il consenso, vincere le prossime elezioni. Se questo è il compito, che importa se gli esperti non credono all’effetto domino (in base al quale un paese dopo l’altro sarebbe caduto nell’orbita comunista, quindi bisognava evitare che ci cadesse il Vietnam), se Unione Sovietica e Cina sono ai ferri corti, se i guerriglieri sud-vietnamiti sostengono la loro lotta in modo ampiamente autonomo da rifornimenti dal Nord e, soprattutto, se la guerra non può essere vinta: sono notizie scomode che porterebbero il governo a un declino di popolarità e a perdere voti. Dunque diremo il contrario, perché quel che accade davvero non ci riguarda.
I telegiornali americani non di parte insistono da anni sulle menzogne di Trump, che ormai contano a migliaia. Ma la lettura del saggio di Arendt ci fa capire che la parola «menzogna» non è adeguata per descrivere il fenomeno cui siamo di fronte e che, esploso ora in misura devastante, ha però origine nei decenni scorsi e si annunciava già nei Pentagon Papers. Quando Dante, Machiavelli e Leopardi invitano l’Italia alla riscossa sono consapevoli di parlare di un sogno: sanno che l’Italia cui fanno appello non esiste e non è mai esistita. Parlarne, evocarne il fantasma, è un atto politico. Ciò con cui abbiamo a che fare adesso, invece, quando ci si dice che dai tre ai cinque milioni di immigrati clandestini hanno votato per la Clinton, o che due persone furono uccise a Chicago mentre Obama vi faceva un discorso, è il risultato di un isolamento dalla verità, di una dimenticanza della verità, quindi anche della menzogna. Il sogno non è più tale perché non si oppone più alla realtà; sogno e menzogna non esistono più perché realtà e verità non esistono più. E non esiste più la politica, se per essa intendiamo, come Arendt, azione che cambia il mondo. Ormai del mondo basta parlarne, come ci piace e ci diverte, il che vuole anche dire che non lo cambieremo: che ricchi e poveri, potenti e deboli rimarranno ciascuno al proprio posto.
La menzogna in politica:
Riflessioni sui Pentagon Papers
Hanna Arendt
Traduzione di Veronica Santini, prefazione di Olivia Guaraldo, Bologna, Marietti 1820, pagg. XXXVIII+85, € 10

Il Sole Domenica 23.12.18
I maschi tra utopia e violenza
Francesco Piccolo. Nell’«Animale che mi porto dentro» l’unità virile, impersonata dal solito uomo del Sud di mezza età, è sottoposta a una lunga e sperimentale serie di scissioni
di Gianluigi Simonetti


Col passare degli anni e dei libri Francesco Piccolo si è forgiato un’identità stilistica precisa, all’opera tanto nei testi più brevi e frammentari, come Momenti di trascurabile felicità, quanto nei romanzi-non-romanzi di gittata più ampia, a metà tra invenzione, memoir e (finta) autobiografia - come La separazione del maschio, Il desiderio di essere come tutti o l’ultimo, appena uscito, L’animale che mi porto dentro. Elemento ricorrente è la fisionomia del narratore, un maschio meridionale di mezza età, che lavora tra letteratura e cinema, e che insomma somiglia moltissimo a Piccolo in persona; ma invece di costruire un personaggio dalle caratteristiche spiccatamente romanzesche, come accade a volte nell’autofiction, chi scrive s’impegna a mettere i dati banali della propria vita a confronto con la storia sociale, politica, antropologica della comunità che lo circonda. Il romanzesco non nasce dalle peripezie del personaggio, ma dall’osservazione personale di una materia molto quotidiana: una confessione intima, spesso impudica, sempre ostentatamente antintellettualistica e immediata, come se a commentare fosse un soggetto senza memoria e senza inconscio, per questo spasmodicamente attaccato alla realtà: «Alle volte nei romanzi bisognerebbe inventarselo il racconto; ma io, se devo dire la verità, non ne ho memoria e quindi nessuna base su cui costruirlo». I libri di Piccolo possono piacere solo se si ama quel personaggio onnipresente: sia perché racconta vicende di cui è protagonista o testimone, sia perché riflette in modo personale e idiosincratico su quelle vicende. Le quali, ed è il secondo punto importante, girano sempre attorno a un tema ben preciso e di sicuro appeal. Piccolo non cerca mai, come farebbe un romanziere vecchio stampo, una conoscenza totale del mondo; preferisce mettere in scena – in ogni sua impresa – l’esplorazione esauriente di una dimensione parziale. Proprio perché costruiti sullo scorrere fluido di episodi frammentari, e sul rinvio brioso, a grappolo, a storie parallele - tratte da libri altrui, canzoni e film, in qualche modo collegate alla vicenda principale e solidali alla cultura stessa del suo lettore medio - i romanzi di Piccolo hanno sempre, come si dice in gergo editoriale, un «manico» visibile - un tema o nucleo narrativo che consenta al lettore di impugnarli saldamente. Nell’Animale che mi porto dentro, come già nella Separazione del maschio, il nucleo in questione è l’identità virile, divisa tra idealismo e violenza, sempre scismatica eppure bisognosa di conciliazione: «Non voglio essere un animale, non riesco a essere un uomo sentimentale (…), ma posso far sposare l’animale e il sentimentale, possono convivere, possono star bene insieme». Ma mentre La separazione partiva da un dolore lacerante per arrivare a una serena, enigmatica tautologia («Sono un maschio, nient’altro che un maschio»), nell’Animale l’enigma è proprio il punto di partenza, e l’unità del maschio è sottoposta a una lunga e sperimentale serie di scissioni.
In un momento della nostra narrativa in cui molte voci tendono a somigliarsi, possederne una propria, chiara e riconoscibile è in sé un un fatto positivo. Tuttavia le modalità di questa voce implicano un grande potenziale e insieme un limite. La forza consiste nell’empatia conversevole che riesce a sviluppare, anche grazie a una scrittura affabile e vocata all’ironia: per esempio nell’Animale che porto dentro il parallelismo fra il protagonista (casertano) e l’esoticissimo Sandokan è ravvivato dalla scoperta che la Perla di Labuan in realtà è napoletana: «Lady Marianna, scopriamo pagina dopo pagina del libro di Salgari, è cresciuta a Napoli e canta accompagnandosi con un mandolino – quindi con ogni probabilità suona e canta canzoni napoletane. Mio padre, fin da quando ero bambino, ci ha fatto ascoltare canzoni napoletane». Proprio una di queste canzoni, Accordo in fa, opportunamente analizzata, aiuterà il protagonista a comprendere alcuni aspetti decisivi della sua educazione sentimentale: ciò che apparentemente è lontano serve a spiegare il vicinissimo, ciò che è vicino può portarci assai lontano. Tutto il romanzo di Piccolo, anzi in effetti tutti i suoi romanzi, sono ricchi di analoghe simmetrie o asimmetrie, più o meno nascoste, più o meno scoperte. Ma le ragioni drammaturgiche dell’autodenuncia sofferta o compiaciuta prevalgono di gran lunga sull’architettura ’profonda’ del racconto, e in fondo ne annacquano il vero contenuto (in questo caso la rivendicazione orgogliosa delle proprie riserve di violenza). I libri di Piccolo, e questo anche più di altri, sembrano meno organizzati e più insinceri di quello che in effetti sono: forse per bisogno di piacere e divertire, forse per eccesso di confidenza col lettore.
Ecco allora che l’handicap, nell’Animale che mi porto dentro, deriva dalla preminenza che la voce conversevole e brillante esercita sulle forme profonde del romanzo: a parità di argomento, La separazione del maschio lo ricordiamo più cattivo ed efficace dell’Animale, più radicale nel lasciare aperte le domande e nel farle confliggere tra loro. E del resto l’apparente semplicità dell’Animale ha spinto molti recensori a concentrarsi esclusivamente sul tema del romanzo, mettendolo alla prova del costume e della cronaca (il #metoo, la crisi del maschio); dimenticando tra l’altro che chi racconta è un personaggio, che si proclama sincero ma è capace di mentire, e che comunque quel che dice conta quanto quello che non dice; ogni episodio è ’in situazione’, ogni suo commento deve essere interpretato. E in effetti, a lettura terminata, l’impressione è che il tema in piena luce - il contrasto maschile tra bestialità e sensibilità – sia meno interessante di altre tracce che rimangono nell’ombra, e che un lettore attento potrà divertirsi a interrogare: il rapporto con il padre e con la moglie, il conflitto tra ciò che muta e ciò che cambia, la lotta interna non soltanto al maschio, ma all’essere umano. Insomma, «The Duality of Man»: così il protagonista di Full Metal Jacket, sulla cui divisa da marine il simbolo della pace e dell’amore convive con il motto «Born To Kill».
In fondo è lo stesso tema di una novella appena uscita, Trascurare Milano, di Luca Ricci (di cui pure si parla in questa pagina) - e probabilmente non è un caso: più la società chiede ai maschi di sentirsi in colpa, più la letteratura (che è rovescio dell’ideologia) mette in scena forme problematiche di orgoglio. Leggere Ricci insieme a Piccolo servirà a esemplificare due modi opposti di essere sinceri nel racconto: dove il secondo si interroga e ragiona, il primo risolve tutto sul piano narrativo, costruendo un breve apologo in cui la superficie cittadina è il regno della menzogna (e del «buio»), la metropolitana quello della verità (e del «vento»). Piccolo cerca di portare a galla ciò che non si vede, Ricci ci trascina in basso per vederci meglio.
L’animale che mi porto dentro
Francesco Piccolo
Einaudi, Torino, pagg. 240, € 19,50

Il Sole Domenica 23.12.18
Liliana Segre:
«Io, donna di pace: il mio impegno contro la parola e i fatti violenti»
colloquio con Maria Luisa Colledani


A tu per tu. Senatrice a vita e sopravvissuta alla Shoah, Liliana Segre ha presentato un disegno di legge per combattere l’incitamento all’odio - «Mi spaventa questo tempo, ma confido nei princìpi della Costituzione»
«Si figuri, ora vogliono fare i selfie con me, con una anziana nonna ma io suggerisco loro di cercare qualche bella ragazza», Liliana Segre confessa con una meraviglia appena accennata la notorietà che l’ha avvolta da quando, lo scorso 19 gennaio, è stata nominata dal Capo dello Stato, Sergio Mattarella, Senatrice a vita, proprio nell’anno in cui ricorrono gli ottant’anni dalla promulgazione delle leggi razziali.
Il suo appartamento è in una delle vie più belle di Milano, fatta di silenzi, eleganti palazzi dell’Ottocento e un parco vicino. Sulla porta il cognome della famiglia, gli interni da agiata borghesia milanese, quella che con operosità e convinzione ha ricostruito l’Italia dopo la guerra diventandone faro e modello. Il salotto è fasciato di volumi e fotografie, su un ripiano della libreria anche un piccolissimo candelabro ebraico. Due grandi mazzi di fiori freschi catturano la poca luce di questa mattina che quasi ha in animo di portare la prima neve. «Ho sempre vissuto mantenendo, per scelta, un profilo basso perché non ho mai amato né la vita mondana né la rincorsa a qualcosa di importante e perché - sottolinea - sono stata appagata dalla famiglia ritrovata, dalla famiglia ricreata, dall’aver cresciuto i miei figli e dall’aver curato la mia nonna». Poi, di colpo una telefonata dalla Presidenza della Repubblica: «Un vero fulmine a ciel sereno perché è vero che nel 2018 cadono gli ottant’anni dalle leggi razziali e che i testimoni della Shoah sono pochi (una mezza dozzina in Italia, ndr) ma, siccome non c’era stato alcun accenno nella mia vita precedente a questa possibilità, quando la segreteria del Presidente mi ha chiamato annunciando la telefonata per “una bella cosa”, ho pensato di essere su Scherzi a parte». E, invece, era tutto vero: «Il Presidente mi ha chiamato ed è stato così meraviglioso, come è lui. Ho una grande devozione per lui, un uomo timido dall’aspetto fragile ma dall’animo molto forte. Fra noi c’è un affetto reciproco, come fra una vecchia sorella e un vecchio fratello, anche se il Presidente è più giovane di me».
Dopo quella nomina, sono arrivati tanti attestati, l’affetto delle persone comuni, le strette di mano per strada, i selfie, le richieste di decine di incontri: «Da gennaio la mia vita è cambiata. Improvvisamente dal basso profilo che avevo scelto, sono diventata una ricercata speciale in tutte le occasioni; personalità varie mi invitano, mi tengono in considerazione, e questo mi fa piacere ma, a volte, anche mi pesa. Non per l’età, che per ora mi conforta tanto che sono molto indipendente di pensiero e guido ancora l’auto. Sono altri gli elementi che mi pesano, ad esempio, il dover continuamente raccontare la mia storia in contesti anche molto importanti. Temo che non solo l’età avanzata e lo stato di salute, che può cambiare da un momento all’altro, ma proprio lo spirito, a un certo punto, presto, mi farà riprendere il silenzio dei 45 anni venuti dopo il lager. A volte, mi sento come un jukebox: mi sdoppio mentre parlo, sono la nonna di me stessa e mi fa una gran pena quella ragazzina là». Cioè la Liliana che, nel 1938, con la promulgazione delle leggi razziali fu espulsa dalla scuola “per la colpa di essere nata”; che dopo, con l’amatissimo papà Alberto e i nonni Pippo e Olga (in memoria dei quali il 31 gennaio 2019 saranno collocate due Pietre d’inciampo a Milano, in corso Magenta 55) sfollò in Brianza, a Inverigo, per provare poi la fuga in Svizzera nel pieno dell’inverno del 1943. Ma quel viaggio verso la salvezza, in cui Liliana si sentiva un’eroina, sarà abortito da un funzionario svizzero tedesco: “Con grande disprezzo e totale mancanza di umanità ci rimandò indietro. Io e papà siamo dovuti tornare indietro”, scrive la Senatrice a vita nella sua nuova opera letteraria Scolpitelo nel vostro cuore. Dal Binario 21 ad Auschwitz e ritorno: un viaggio nella Memoria (Piemme, 2018). E così continua il racconto del libro: “Io avevo tredici anni, e lì mi sentii perduta. Dall’altra parte della rete avevamo i fucili puntati dai soldati italiani. Che ci catturarono. La nostra fuga era finita. Io so che cosa significa essere respinti. Perdere in un attimo tutta la speranza”. E ritrovarsi poi ad attraversare da sola il dolore del mondo nel gelo delle baracche di Auschwitz.
Il suo è stato il viaggio nella banalità del male, l’ha ammutolita per quasi mezzo secolo, poi «a 45 anni dai fatti - ricorda - ho lasciato quella vecchia ragazza di quindici anni per una nonna di 60. Era nato il mio primo nipote e ho sentito che non potevo più fare a meno di parlare». Perché, come ha scritto Primo Levi, “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”. Da quel giorno, scolaresca dopo scolaresca, gruppo dopo gruppo, questa signora con la sua nuvola bellissima di capelli bianchi e dalle collane eleganti ha incontrato 200-300mila giovani. Ora il suo servizio di testimone non è più solo raccontarsi. «Quando sono arrivata in Senato mi son detta che volevo fare qualcosa di buono, così ho presentato il Disegno di legge contro l’ “Hate speech”. Ho orrore della violenza in sé, non solo perché l’ho provata sulla mia pelle e l’ho vista attorno a me, ma perché sento che è un fenomeno montante. La violenza dilaga a tutti i livelli, dal più basso al più alto, e questo propagarsi mi fa molta paura. Si deve cominciare a combattere la parola violenza e la parola violenta così come i fatti violenti. La gente non si frena più, si esprime con termini assolutamente inadatti all’accaduto, l’umanità odia l’umanità. Ma come si può? E pensare che io ho raccontato la mia esperienza sempre senza odio né vendetta».
I nostri nonni che hanno combattuto per la libertà e tutti quelli che si sono opposti al nazismo, al fascismo e agli -ismi sognavano un’altra Italia: «Hanno fatto la SCELTA, scritta in maiuscolo, e pensavano - è la riflessione di Liliana - che con il loro sacrificio avrebbero portato la democrazia». Oggi il nostro Paese balla sull’orlo dell’abisso: lo sa bene questa donna di pace, che ama definirsi, prima di tutto, nonna. E, dalla sua poltrona, si china verso un tavolinetto. Qualche foglio di carta intestata, gli occhiali e un libretto, la Costituzione italiana. La prende, la tiene fra le mani come un bene prezioso, da difendere: «La nostra Costituzione è straordinaria, i padri costituenti, che uscivano dal quel momento storico e politico durato vent’anni, hanno studiato gli articoli della nostra Carta da padri, non solo da liberi cittadini. Non c’è alcuna violenza in questi articoli e ci sono solo princìpi contro la violenza per ridare diritti alle persone. È un vero capolavoro».
Ma, intanto, quella saggezza, quella preveggenza restano inascoltate: perché tanta violenza, non solo in Italia? «Mi viene una risposta di buonsenso - prova a spiegare la Senatrice -, anche se è terribile come ipotesi. Ogni tot anni gli uomini devono fare la guerra, che è pura violenza, e solo l’Europa unita, anche se non la trovo tanto unita, fa sì che non si arrivi al conflitto ma stiamo vivendo quella fase sospesa, quando sta per succedere qualcosa di grosso, che non scoppia per davvero ma alimenta tanti rivoletti di male». E tutto, in qualche modo, è legato all’esplodere di -ismi ovunque: «La fascistizzazione sta uscendo ora - è l’amarezza della Senatrice - perché gli anni sono passati, vittime e carnefici sono morti, i negazionisti sono tornati e non dimentichiamo che nel Ventennio le piazze erano piene, che tutti ci andavano spontaneamente e che le leggi razziali sono passate nell’indifferenza generale. Quello spirito sta tornando». Ma la nonna-testimone attraversa l’Italia e, instancabile, racconta: «Credo nella memoria perché la memoria rende liberi e perché sento di fare il mio dovere per quei sei milioni di ebrei che non sono tornati». Liliana Segre tiene vivo il ricordo ma è pervasa da grande pessimismo: «Nel 1915, poco più di cent’anni fa, alle porte dell’Europa è avvenuto il genocidio del popolo armeno. Chi ne sa più qualcosa? Trovo grandi similitudini fra quanto hanno subìto armeni ed ebrei. Fra cent’anni la Shoah sarà solo una riga sui libri di storia, che ormai non legge più nessuno... Alla Shoah succederà come ai barconi dei migranti, coperti dal Mediterraneo, nel silenzio più assordante».
I ragazzi sono i suoi interlocutori principi, i destinatari della sua memoria, ma i suoi occhi guardano lontano, oltre le persone che ha davanti, come se si fossero fermati in quella voragine dell’umanità: «Io e mio marito ci siamo molto amati: mi ha curato le ferite, mi ha aiutato, mi ha sostenuto, “mi ha” seguito da tutti i participi possibili e anche nei momenti in cui eravamo più giovani, più innamorati, mi diceva “Amore mio, il tuo sguardo, i tuoi occhi guardano lontano, stai qui, stai qui con me”».
Oggi Liliana Segre è nonna di tre nipoti e di tutti i ragazzi che incontra: «Auguro loro di essere sempre più coscienti delle loro possibilità, senza mai delegare. Solo in se stessi possono trovare la forza di vincere la vita». Quella che la Senatrice ci dona con le sue parole. Un dono eterno, non proprio come il piccolo pacchetto rosso che poso fra le sue mani. Apre, incuriosita, alza gli occhi e sorride appena: «Allora, ha letto», mi dice. Sono albicocche secche, le stesse che la Senatrice ricorda nel libro La memoria rende liberi (Bur, 2015): il 1° maggio 1945, i belli e abbronzati soldati americani le lanciavano da una camionetta senza distinzione fra prigionieri e tedeschi. Liliana, pur magrissima (pesava 32 chili), esausta e prostrata, riuscì a piegarsi: «Con fatica ne raccolsi una, era fantastica, quell’albicocca era il sapore della libertà». E, mentre mi congeda con un abbraccio dolce e forte, mi ricorda che «la vita è bellissima, è un bambino che nasce, un fiore che sboccia, un mare che scintilla». Ben più di un inno alla vita. La vita stessa, la vita per sempre.

La Stampa 24.12.18
Cambia la costituzione


Partito comunista forza trainante
di Paolo Mastrolilli


Cuba cambia la costituzione. Quanto poi questo inciderà sulla vita reale dei suoi cittadini, a partire dal riconoscimento della proprietà privata, è tutto da vedere.
La legge fondamentale dell’isola era stata scritta nel 1976, quindi in piena era sovietica. Il regime ha deciso di rivederla, contestualmente al passaggio della presidenza da Raul Castro a Miguel Diaz Canel, per metterla più al passo con i tempi. Il processo si è svolto attraverso la scrittura di una bozza, che poi è stata sottoposta ai commenti dei cittadini. Sabato il testo emendato è stato approvato dall’Assemblea Nazionale, come al solito all’unanimità, e il 24 febbraio verrà votato in un referendum popolare per la scontata ratifica definitiva. Aldilà della procedura abituale, al centro del dibattito c’erano questioni significative sul piano politico, economico e sociale. Sul primo punto, la scrittura iniziale aveva omesso che l’obiettivo di Cuba è «avanzare verso una società comunista», ma le proteste dei cittadini hanno costretto gli autori a cambiarla. Naturalmente è lecito dubitare della sincerità di questa richiesta, che forse serviva al regime solo per avere la copertura popolare per la prosecuzione del vecchio modello, ma comunque la nuova costituzione ribadisce che il Partito comunista, tuttora guidato da Raul Castro, resta la forza trainante del Paese. Verranno inseriti invece limiti alla durata della presidenza, ora che non ci sono più i fratelli Castro ad occuparla, e nascerà la figura del premier. Sul piano economico si registrano i cambiamenti già in corso da qualche tempo, indispensabili per rilanciare la crescita, che procede ad un ritmo poco superiore all’1%. Viene riconosciuta la proprietà privata, che le riforme volute da Raul avevano già consentito per far nascere piccole imprese, ma la sua accumulazione sarà regolata dallo stato. Inoltre si sottolinea l’importanza degli investimenti stranieri, e il via libera alle cooperative possedute dai loro membri. Sono tutti elementi che Castro aveva considerato necessari a smuovere l’economia cubana, e diventano ancora più importanti ora che il presidente americano Trump ha messo fine a quasi tutte le aperture fatte dal predecessore Obama, che peraltro avevano favorito gli investimenti dei cubano-americani nell’isola, nella convinzione che servissero più dell’embargo a cambiarla. 
Referendum sulle nozze gay
Sul piano sociale il punto più importante era la proposta sostenuta dalla figlia di Raul, Mariela, per legalizzare i matrimoni gay. L’opposizione dei cittadini e delle chiese evangeliche l’ha tolta dalla costituzione, ma verrà sottoposta a referendum.


La Stampa 24.12.18
Banksy, il bimbo ha il potere di un presepe
di Giulia Zonca


La fila davanti al garage non fa che aumentare: persone in processione, senza doni, ma con un telefono in mano per portarsi a casa un pezzetto di miracolo. L’ultima opera di Banksy ha il potere di un presepe, il bambino sotto la neve attira pellegrini contemporanei che attribuiscono alla denuncia un presagio di riscatto. È un graffito, però funziona come una natività carica di promesse. Proprio come succede con le apparizioni, è stato messo sotto vetro, protetto dal plexiglass e dalle buone intenzioni.
Il bimbo è comparso qualche giorno fa sull’angolo bruciacchiato di una rimessa. Sta con le braccia aperte, gli occhi chiusi, la lingua fuori, solo che il chiaroscuro che lo circonda non è un disegno, è una macchia. È il fumo di Port Talbot, profondo Galles dove l’industria pesante è rimasta la base di ogni introito, le acciaierie muovono l’economia locale. Oltre al rilevatore di avvelenamento.
Da una parte del muro c’è il ragazzino che sembra godersi la nevicata natalizia e dall’altra il cassonetto in fiamme da cui esce la condensa scura, il pericolo e il sospetto che da anni tormenta una città preoccupata e confusa. Non sanno più a chi credere: la scorsa primavera la World Health Organization ha dichiarato Port Talbot «il posto più inquinato del Regno Unito», gli ha imputato un livello di tossicità oltre il doppio del lecito. Dopo un paio di mesi sono arrivate le scuse perché l’aria in realtà sta sempre in bilico tra il poco sano e il molto dannoso, ma è ancora lontana dai valori inquietanti. Cambiano i numeri, il grado di malessere, non proprio la sostanza: la fuliggine che si sparge per le strade, si deposita sulle case, condiziona gli animali e raggiunge i polmoni degli esseri umani c’è, solo che lì hanno già perso le miniere e non se la sentono di rinunciare alle acciaierie. La natività di Banksy attira gratitudine e furore: ieri l’hanno fortificata proprio perché nella notte un ubriaco ha tentato di sfregiarla. Ogni profeta ha vita difficile.
Opera su commissione
Stavolta non esistono dubbi sull’attribuzione, l’opera è stata fatta su commissione, richiesta da Gary Owen, gallese che ha scritto la sua lettera a Babbo Natale: «Caro Banksy qui non si respira, vieni a disegnare qualcosa che svegli l’attenzione. I gabbiani dovrebbero portare le maschere antigas». Voleva dare un’ispirazione, ha fornito delle coordinate e Banksy si è preso la paternità del lavoro con un video. Parte la musichetta innocente di «Little Snowflake» e la camera gira dal primo piano della faccia apparentemente in estasi, al totale misto fumo, fino a inquadrare il fuoco acido. Chiude con una panoramica che include la vera ciminiera. Se il disegno contiene un messaggio salvifico, il filmato ha un retrogusto macabro.
Il proprietario del garage ha scoperto il graffito sul cemento e ha subito riconosciuto l’autore, ci ha messo di più a realizzare le conseguenze. Il primo giorno c’era solo il vicinato, poi i fotografi e le tv e adesso è comparsa la coda. Ogni ora una quarantina di persone si muovono intorno all’opera, scattano, telefonano, chiedono, si confrontano. Qualcuno si lamenta perché «la curiosità porta guai», i più sono ipnotizzati. Sanno che cosa si troveranno davanti però non hanno idea di come gestire il messaggio: è arte che racconta un paese, è una rivelazione, una chiamata all’azione? Il bimbo sotto la neve obbliga chi lo guarda a farsi delle domande, coinvolge, stranisce, tocca corde che altri hanno già smosso e che ora vibrano all’unisono. Tutta la contea è già stata lì davanti.
La battaglia
Nell’area di Port Talbot sono nati Richard Burton, Anthony Hopkins e Michael Sheen, gli attori sono di casa e la provocatoria frase: «Qui c’è qualcosa nell’aria» circola con insistente ironia. Sheen, protagonista di film come «Twilight», «La Regina», «Frost/Nixon» e «Il maledetto United», non solo sta pagando per la sicurezza piazzata intorno al Banksy, ma ha già tentato una campagna contro l’inquinamento. Nel 2011 ha allestito una maratona teatrale, «The Passion», per raccontare la controversa situazione del luogo. Ci tiene e sa, come ogni figlio di quella terra, che protestare è solo il lato A di un equilibrio complesso. A Port Talbot si dice: «If you can smell sulphur, it means someone is getting paid», se senti l’odore di zolfo qualcuno sarà pagato. Un mantra del compromesso fino al bambino sul muro con una folla davanti.
La gente sta in fila e sa che non c’è nesso tra il graffito e il futuro eppure non esclude che quella visione possa cambiare il mondo.

La Stampa 24
Allarmi son jazzisti
“Musica negroide”: così il fascismo boicottò Armstrong e Cole Porter
di Sandro Cappelletto


La notte del 12 agosto 1926 una grande chiatta, illuminata a giorno, è ormeggiata in Laguna, davanti a piazza San Marco. A bordo, una negro jazz-band formata da musicisti afroamericani e guidata da Cole Porter fa ballare fino alle due del mattino un pubblico di 150 invitati, ospiti dell’Hotel Excelsior al Lido, dove l’attività principale di quell’estate è imparare il charleston. Il 15 e 16 gennaio 1935 la band di Louis Armstrong suona al Teatro Chiarella di Torino. Tra il pubblico, un giovane critico che da lì a qualche mese sarebbe stato arrestato per attività antifascista: è Massimo Mila e «Jazz hot», la sua recensione sulla rivista Pan, testimonia l’interesse che gli intellettuali italiani riservano a quella musica nuova che ormai sta conquistando il mondo. Nello stesso anno esce America primo amore. Mario Soldati racconta così una serata trascorsa al Cotton Club di New York: «Conosco da tempo questi locali: ottimi jazz (basti il nome di Duke Ellington), ottimi numeri di varietà e pubblico più bianco dei più bianchi, più ricchi, più manhattaniti». Il jazz in Italia era diventato moda.
Il peso dell’ideologia
Ma il successo durerà ancora poco, scrive Camilla Poesio in Tutto è ritmo, tutto è swing - Il Jazz, il fascismo e la società italiana (Le Monnier, pp. 175, € 14). La giovane studiosa documenta come un’ideologia possa prevaricare un gusto vincente, un piacere diffuso. Perché agli occhi del regime - mentre nel 1936 si proclama l’Impero dopo la cruenta conquista di territori africani e nel 1938 si promulgano le leggi razziali - è intollerabile che una musica «negroide» possa smuovere il corpo, il divertimento di un popolo di cui si ribadisce l’appartenenza alla «razza bianca». Ironia della storia: un figlio del Duce, Romano Mussolini (1927-2006), sarebbe diventato uno dei più stimati jazzisti italiani.
Il libro della Poesio - che si aggiunge al fondamentale contributo di Adriano Mazzoletti sulla diffusione e la specificità del jazz in Italia, agli studi di Stefano Zenni e di Marcello Piras sul protagonismo dei musicisti italiani, in particolare siciliani, emigrati negli Stati Uniti nella formazione delle prime band e nell’incisione dei primi dischi jazz - privilegia, più che l’aspetto musicale, il racconto politico e di costume.
«La focosa» Baker
Avvisaglie si erano già manifestate nel 1929, quando il debutto italiano della Revue Nègre di Josephine Baker è bloccato dalla censura. Alludendo a una scenata di gelosia della Baker nei confronti di un ballerino spagnolo, Radio Orario, come allora si chiamava il futuro Radiocorriere, scrive che «evidentemente la focosa Giuseppina non ha voluto perdere un’occasione per dimostrare di essere realmente consanguinea di Otello».
Anche nelle arti bisogna diventare autarchici: oggi diciamo sovranisti. Mentre la Chiesa cattolica teme il decadimento della pubblica morale e invita le ragazze a non uscire la sera a ballare, viene creato un Ente Nazionale per la Musica Sinfonico-Vocale il cui scopo è contrastare «il dilagare di musiche esotiche, fatte di suoni contorti e selvaggi, che ha malauguratamente contribuito a far cadere in disuso i canti sgorgati dalla semplice e spontanea vena popolare. Il nostro popolo ha in gran parte perduto il senso artistico nazionale». Nonostante l’Eiar (l’ente radiofonico di Stato) informi il regime che il pubblico ama quella musica, il Sindacato Fascista dei Musicisti va all’attacco: il jazz esprime «il primitivismo musicale dei negri, le barbare musiche negre imbastardite e incanagliate». È la difesa della razza in ambito musicale.
George Gershwin non è nero ma ebreo e la sua musica viene bandita. Analogo destino attende il jazz in Germania e in Russia: le dittature lo temono più di quanto i nazisti detestino l’«arte degenerata» o i sovietici il «formalismo borghese e antipopolare». Perché il jazz, che il nazismo definisce nientemeno che «musica bolscevica, giudaica e negroide», è fisico, ancestrale. È sexy: caratteristica oggi purtroppo perduta. La sua festosa, improvvisativa verve è irrigidita, anchilosata.
Anche le sorelle del Trio Lescano sono, forse, ebree. Si avviano indagini e infine Arturo Bocchini, capo della polizia, interviene in prima persona: «Avvertesi che Alessandra, Giuditta e Caterina Leschan di Alessandro essendo state riconosciute come non appartenenti razza ebraica (ripetesi non) possono continuare a risiedere nel Regno ed essere autorizzate in via provvisoria a svolgere attività artistica».
Attraverso il jazz, questo libro racconta la violenta determinazione censoria e razzista della nostra classe politica dominante, soltanto poche generazioni fa.

Corriere 24.12.18
La collana In edicola sabato con il quotidiano la prima uscita della Storia dell’arte raccontata da Philippe Daverio
Con la rivoluzione di Giotto la filosofia diventa dipinto
Dialogo con gli antichi, ritmi e spazi architettonici, riflessione sul mondo: così nei grandiosi cicli di Assisi e Padova il maestro impone il nuovo stile
di Arturo Carlo Quintavalle


I contemporanei sanno che gli affreschi ad Assisi e a Padova cambiano la storia del racconto dipinto in Occidente: Dante Alighieri (Purgatorio XI, versi 94-96) scrive: «Credette Cimabue ne la pittura/ tener lo campo ed ora ha Giotto il grido,/ sì che la fama di colui è scura». E proprio quel confronto, fra Cimabue e Giotto (1237-1337) lo possiamo fare subito anche noi, ad Assisi, con i grandiosi, incombenti affreschi di Cimabue nella Basilica inferiore e lo spazio diverso, disteso, unitario costruito nella Basilica superiore da Giotto (1290 circa).
Due le immagini di Francesco, quella scarnita, povera, sofferente dipinta da Cimabue e l’altra, idealizzata, modellata sulla nuova Vita di Bonaventura da Bagnoregio, di Giotto. Il suo racconto è diverso: nelle chiese medievali le vite dei santi sono confinate a un architrave all’esterno o a pochi riquadri dipinti all’interno, ma ad Assisi Giotto propone la sua rivoluzione. La grandiosa basilica è pensata come unica aula per un diretto dialogo tra fedeli e predicatori e per un rapporto immediato fra racconto della vita del Santo e teatro, ecco dunque un «Mistero» medievale dipinto che dialoga, campo dopo campo, con chi cammina nella chiesa.
Sì, davvero, come scrive il cronista fiorentino Giovanni Villani (1280-1348), Giotto è «il più sovrano maestro stato in dipintura che si trovasse al suo tempo». E proprio gli affreschi della Cappella degli Scrovegni a Padova propongono ancora una volta i misteri medievali, quelli della vita del Cristo, costruiti secondo un modello umanistico, dove l’evocazione dell’antico, delle porte, delle mura romane, degli spazi, dei ritmi architettonici fanno capire quanto Giotto riflettesse sulla architettura romana ma insieme su quella contemporanea, a cominciare da Arnolfo di Cambio. Giotto, architetto che progetta per la cattedrale di Firenze il campanile, è ben consapevole della ricerca gotica: la sua spaziata pittura, mimica e gesti come nel teatro antico, muove anche dalla grande scultura gotica in Île de France a cominciare dallo jubé della cattedrale di Bourges (1235 circa),come ha mostrato Cesare Gnudi.
Così Giotto crea in pittura un nuovo stile per l’arte d’Occidente. Dopo di lui, dopo le sue grandiose composizioni, nulla sarà più come prima nell’arte europea. La novità dell’arte italiana nasce dunque dallo stretto rapporto con la letteratura e la filosofia, è la cultura umanistica, come la abbiamo chiamata noi moderni. Lo spazio di Dante è quello di Aristotele interpretato da San Tommaso ma anche quello di Plotino, lo stesso spazio proposto da Giotto e da chi verrà dopo di lui nel XIV secolo.
Una seconda rivoluzione trasforma un secolo e mezzo dopo le lingue della pittura europea, una rivoluzione che si costruisce fra la corte dei Gonzaga a Mantova e la Padova di un antiquario, collezionista ma pittore modesto, lo Squarcione, e ancora la Venezia dei grandi rapporti internazionali con l’Oriente, Bisanzio ma anche le grandi città costiere del Mediterraneo. Ecco, in questa dimensione crescono due artisti che non potevano essere più diversi, Mantegna dunque (1431-1506) e Giovanni Bellini (1433-1516). Mantegna vive nel mito dell’antico che, dall’Italia, coinvolgerà, due generazioni dopo, l’intero Occidente, un mito che è prima di tutto indagine sul passato, raccolta dei testi, scritti, architettati, scolpiti, dipinti. Mantegna conosce la ricerca di Leon Battista Alberti, il Trattato della Pittura (1435) che insegnerà la prospettiva a tutti gli artisti del XV secolo e, forse, il suo trattato di architettura, De re aedificatoria (1450 ma pubblicato solo nel 1485). Per Alberti lo spazio è quello unitario, proposto a Firenze da Brunelleschi, è ben diverso dall’altro spazio, frammentato, analitico, sublimemente dipinto dai van Eyck e dagli altri grandi fiamminghi. Da qui nasce lo spazio circolare, che traguarda sulle campagne, della Camera degli Sposi a Mantova (1465-1474) che Mantegna ripete nei grandiosi Trionfi di Hampton Court dove coniuga la memoria dell’antico e il sogno di una nuova arte di corte.
Giovanni Bellini, che pur conosce bene questa ricerca, inventa un altro racconto: quello delle Madonne col Bambino con dietro il paesaggio che propongono un nuovo dialogo degli affetti e, insieme, il colore dei tramonti sulla laguna. Bellini poi crea una diversa, soffusa luce nelle opere più tarde, come nella Pala di San Giovanni Crisostomo (1513), la luce da cui muoveranno prima Giorgione e poi Tiziano. Se arte dunque è umanistica riflessione sul mondo la sua capacità di imporsi in Occidente inizia da Giotto. Scrive Dante (Purgatorio XI, versi 97-99): «Così ha tolto l’uno all’altro Guido/ la gloria della lingua; e forse è nato/ chi l’uno e l’altro caccerà dal nido»: Guido Guinizelli e Guido Cavalcanti, poeti del Dolce Stil Novo, e adesso il nuovo poeta, Dante stesso, come, prima, Cimabue ed ora Giotto. Poesia, dialogo con l’antico, filosofia, ecco la eredità dell’arte italiana nel contesto europeo.


Il Sole Domenica 23.12.18
Il dialetto «geniale»
Oltre la fiction. L’exploit del napoletano con la Ferrante, il siciliano pop di Camilleri,veneto e genovese tra teatro e musica: le lingue locali diventano globali ed esportano
di Francesco Prisco


«Questo Natale si è presentato come comanda Iddio. Cu’ tutt’ ’e sentiment’. E lo deve fare: è il mese suo». Forse suona esotico: è il napoletano di Eduardo De Filippo. Azzeccatissimo di questi tempi, perché parliamo di Natale in casa Cupiello. Esotico ma lo capirete tutti: il grande drammaturgo alternava dialetto e italiano, pronunciava frasi idiomatiche nella “lingua dei padri” e poi le traduceva in quella di Dante, perché raggiungessero il pubblico più vasto possibile. Perché parlava di Napoli, ma raccontava il mondo, la sua Napoli era teatro di una rappresentazione che aveva carattere di universalità, universale era il messaggio che da Napoli Eduardo mandava. Senza sottotitoli.
Molto diverso da quanto succede qui: «Pure Jo ha scritt’ ’nu raccont’. E nisciun’ pensav’ c’o putev’ scrivere. ’A stessa cosa ’amma fa’ nuje». È L’amica geniale, serie Tv di Saverio Costanzo tratta dall’omonimo ciclo di romanzi di Elena Ferrante. Martedì scorso su Rai 1 si è conclusa con 6,9 milioni di spettatori e il 27,7% di share la co-produzione Rai-Hbo costata oltre 30 milioni e già venduta in 56 Paesi. Un’opera recitata in napoletano stretto, lingua meno comprensibile del napoletano di Eduardo, stavolta con l’ausilio dei sottotitoli.
Valore aggiunto: l’autenticità
Benvenuti nell’epoca del dialetto da esportazione, della lingua “local” che si fa “global”: se è vero che, qui da noi, gli idiomi locali non sono mai passati di moda e hanno spesso e volentieri prodotto arte, alta o meno alta che fosse, mai come in questo momento l’industria culturale ha avuto piena consapevolezza del potenziale “internazionale” delle opere scritte, cantate o recitate in dialetto o vernacolo. Con un valore aggiunto: l’autenticità. E un rischio da cui stare alla larga: lo stereotipo. «Parlo per Napoli e per il napoletano: la nostra è una lingua, ha prodotto letteratura, capolavori come Lu cunto de li cunti di Basile, e una tradizione musicale che spazia dalla canzone classica allo swing di Renato Carosone e al blues di Pino Daniele», sottolinea Raiz, storico front leader degli Almamegretta, band dub che in lingua napoletana ha realizzato album storici come Sanacore (1995). Con le lingue Raiz non ha perso il vizio di confrontarsi: l’ultimo progetto, Neshama, è in ebraico sefardita. «Come l’ebraico - spiega - il napoletano è una grande lingua mediterranea, la parlata di una comunità aperta, inclusiva, pronta ad accogliere dominazioni e influenze, arricchendosene». La mediterraneità “global” del napoletano sarebbe una delle chiavi del suo successo internazionale: «Una serie Tv in napoletano con i sottotitoli, come nel caso de L’amica geniale o di Gomorra, per uno spettatore americano ha un surplus di autenticità che cogli nel suono delle parole. Senza contare che, su uno spettatore di lingua italiana, un’opera ambientata al rione Luzzatti o a Secondigliano e recitata in italiano avrebbe un effetto straniante». Così come Non calpestare i fiori nel deserto (1995) sarà pure il maggiore successo commerciale di Pino Daniele, ma suona meno autentico di Nero a metà (1980), interamente cantato in napoletano.
Parli di musica e non puoi fare a meno di pensare che l’Italia ha sempre “esportato” pochissimo. Ma ci sono le eccezioni: c’è un disco di Fabrizio De André considerato dalla critica internazionale una pietra miliare della world music. «Negli anni, non ricordo a quanti amici abbia regalato quel disco», ha detto il regista tedesco Wim Wenders. È Crêuza de mä (1984), l’unico album di Faber interamente cantato in genovese. «In questo caso il ricorso al dialetto è una specie di patente di autenticità», secondo Marco Malvaldi, scrittore pisano abituato a confrontarsi con il toscano nei romanzi della serie del BarLume. Anche in questo caso con una fortunata trasposizionetelevisiva: il 25 dicembre e il 1°gennaio tornano infatti su Sky due nuovi episodi de I delitti del BarLume.
Immagini al posto dei concetti
«La prima considerazione che mi viene da fare - dice Malvaldi - è che i dialetti hanno un potere evocativo che le lingue standard non hanno. Un dialetto lavora sulle similitudini, cerca immagini concrete per rappresentare concetti. A una persona che esita, in italiano potremmo dire: “Cosa aspetti a muoverti?”. Il toscano ti mette davanti agli occhi un’immagine: “Aspetti la banda?”». In espressioni come questa si coglie come una sottile ironia di fondo. Che deve sicuramente aver contribuito al successo dei corsi di riappropriazione di lingue e culture dialettali organizzati da un capo all’altro del Paese. Ma da dove arriva la grande attenzione che l’industria dell’entertainment sta rivolgendo ai dialetti? «È un’attenzione che nasce un gradino sopra», risponde Malvaldi. «Nasce dalla letteratura di intrattenimento consapevole. Un grande contributo lo hanno dato Andrea Camilleri e lo straordinario successo di Montalbano». Il siciliano “pop” del commissario di Vigata, spostatosi con disinvoltura dai romanzi al piccolo schermo, fino a diventare uno dei personaggi più celebri della Tv italiana, ha fatto scuola. Che non sia più vera la regola dell’editoria libraria che impone una “lingua media” non troppo raffinata a chi ambisce a scrivere un bestseller? «La regola c’è - risponde Malvaldi - così come ci sono le pressioni di molte case editrici a farti scrivere in un italiano senza particolari guizzi. Ma la verità, come diceva Josephine Tey, sta nel tempo. Sono sicuro che tra 50 anni continueremo a leggere i romanzi di Camilleri e della Ferrante. Ho qualche dubbio che possa succedere lo stesso con i libri di Fabio Volo». Quanto agli stereotipi, per Malvaldi «nessun pericolo: sono solo negli occhi di chi guarda».
Con 20 regioni, 94 tra province e città metropolitane, più di 8mila comuni e 24 idiomi tra lingue e varianti dialettali, l’Italia può contare su un patrimonio straordinario. E tra le lingue letterarie più ricche c’è sicuramente il veneto, potente strumento della commedia dell’arte ma anche di un innovatore settecentesco che si chiamava Carlo Goldoni. «Luigi Meneghello aveva capito tutto: il dialetto è la lingua madre, quella che ci riconcilia con le origini, ci mette d’accordo con ciò che siamo», rivendica Natalino Balasso, attore e autore di Porto Tolle, provincia di Rovigo. Artista che il veneto lo studia e utilizza con grande efficacia. Che si tratti di interpretare l’Arlecchino servitore di due padroni o una tra le innumerevoli figure archetipo della sua terra.
Nuova dignità alle radici
«Se devo associare a un concetto il dialetto, questo concetto è radice. Che non a caso si utilizza anche in linguistica: le parole hanno una radice. Il dialetto è il posto dal quale proveniamo, un pezzo di noi. Fino a qualche anno fa era spesso inteso come lingua popolare, adesso sono le elite ad appropriarsene, un po’ come aveva fatto Gadda nel Pasticciaccio. Ed è un bene, perché il processo coincide con il conferimento di una dignità tutta nuova a questo patrimonio ricchissimo di suo». Ma attenti a non parlare di ritorno al dialetto: «In realtà - secondo Balasso - non se n’è mai andato, ci accompagna da sempre. Ed è più o meno presente nella nostra cultura a seconda delle stagioni». Oggi “buca” al teatro come al cinema, «anche perché siamo diventati molto più laici rispetto all’utilizzo dei sottotitoli. Fino a qualche anno fa - ricorda Balasso - sarebbe stato impensabile mandare su Rai 1 in prima serata una serie Tv sottotitolata». Comunque la pensiate, gran parte del successo televisivo de L’amica geniale arriva da una lingua geniale. Una lingua “glocal” che si chiama dialetto.

Il Sole Domenica 23.12.18
Catullo. Un poeta geniale, snob, tenero, fragile e sboccato, allo stesso tempo erudito e istintivo. Nei suoi carmi,tra sesso, potere e vita quotidiana, si ritrovano prospettive modernissime, centrali per l’esperienza di ognuno
Insondabile alchimia dell’amore
di Carlo Carena


La Nuova Universale Einaudi pubblica un’edizione eccezionale di un classico latino: il Libretto dei versi di Catullo, curato da Alessandro Fo. I cento carmi del «ragazzaccio veronese, geniale, snob, tenerissimo, fragile e sboccato, istintivo e insieme erudito e sorvegliatissimo nello stile, irritabile, pettegolo…» secondo le classificazioni in cui lo inquadra Luca Canali nella sua edizione (1997), trova qui un assetto degno di quello che ancora Canali additava come «l’insostituibile crocevia» della poesia lirica latina di tutto il secolo seguente, il secolo d’oro.
Nell’Introduzione, di 163 pagine, Fo affronta e imposta con polso fermo e individualità di vedute, nel quadro di una tradizione esegetica molto ricca e autorevole, ogni problema che l’opera catulliana pone agli studiosi e ai lettori. Professore di Letteratura latina all’Università di Siena, egli ha dalla sua, come Canali, anche il retroterra di una personalità di traduttore e di poeta in proprio. Nella stessa Universale uscì infatti nel 2012 una sua versione dell’Eneide, che già affrontava e risolveva in modo originale problemi di metrica; e nella Collana di Poesia un paio di libri, Corpuscolo, del 2004 e Mancanze, del 2016.
E qui l’Introduzione si apre prospettando e dividendo metricamente e concettualmente i carmi catulliani, un primo gruppo in metri vari, e poi in distici elegiaci; dapprima composizioni brevi e leggere, le nugae, scherzi, poi di maggior estensione e impegno e su temi ispirati alla vita quotidiana, soprattutto le amicizie e le inimicizie e il sommo e struggente, fortissimo e delicato, perenne: l’amore. Anche il basso si affianca alla sublimità di questi temi sconvolgenti, ma la sostanza di ogni componimento della musa catulliana «è centrale per l’esperienza della vita di ognuno». Sempre molto letto e persino popolare, oggi si ritrova in lui ciò per cui Fo usa persino una terminologia modernissima, tanto questo Libellus è innovativo: e cioè sesso, potere, dinamiche sociali; leggibile persino in chiave psicanalitica e pornografica, maschilista o femminista.
Certo si potrebbe anche obiettare che mancano nel panorama catulliano talune prospettive che rendono un poeta davvero universale e indispensabile. Ma è anche vero che ciò che gli ispira la tragedia dell’abbandono e del tradimento di una donna, della perdita di quell’ideale e dell’irrompere su di esso della realtà del mondo, gli ispira accenti imperituri nel cuore e nella mente di qualsiasi lettore. Per lei, Lesbia, egli si era inebriato perdutamente (carme 5, trad. Fo): «Su viviamo, noi due, mia Lesbia, e amiamo… | Mille baci tu dammi, e quindi cento, | poi altri mille, e poi un’altra volta cento, | quindi fino a altri mille, quindi cento. | E poi, molte migliaia…»; ora la vede e la rappresenta disperatamente ad un amico: «Celio, la nostra Lesbia, Lesbia, quella, | quella Lesbia, lei che Catullo sola | più di sé ha amato, … | ora in vicoli e nei crocicchi» rende i servizi più immondi ai Romani (carme 58).
Osserva Fo che il modo come il poeta ha vissuto questo dramma è del tutto straordinario ed eccezionale, per l’importanza che vi assume l’aspetto “non fisico” dell’esperienza amorosa e l’originalità dei sentimenti delicatissimi che egli vi introduce: «Ti ho avuto a cuore, a quel tempo, non come il volgo un’amica | ma come ha a cuore i suoi figli, ed anche i generi, un padre» (carme 72).
L’originalità e la pregnanza del sentimento amoroso nel nostro poeta ne fa il fondatore anche del linguaggio della poesia e del linguaggio amoroso occidentale. I diminutivi, che ci fanno sorridere in lui e in noi, ne sono una nota caratteristica: così puellula, brachiolum, ore floridulo, ocelli, pallidulus, languidulus somnus… E ancora, i suoni e le onomatopee e gli «intrecci acustici di parole» e le sinfonie verbali. Così, nell’epicedio per la morte del passero della sua fanciulla (carme 3) troviamo: Passer mortuus est meae puellae, | passer deliciae meae puellae| quem plus illa oculis suis amabat. | Nam mellitus erat suamque norat | ipsam tam bene quam puella matrem | … O miselle passer! | Tua nunc opera meae puellae | flendo turgiduli rubent ocelli («Morto è il passero della mia ragazza, | gioia, il passero, della mia ragazza, | che lei più dei suoi occhi stessi amava. | Tutto miele era infatti, e distingueva | la sua lei come bimba con la mamma,| né dal grembo di lei mai si muoveva. | … O tu, poverello passero! | Per quest’opera tua la mia ragazza | piange e rossi ha gli occhietti, e gonfi gonfi».
Il latino catulliano e l’italiano del traduttore trovano nelle monumentali note successive (pagine 392-1221) descrizioni e risposte ad ogni quesito. E si ha l’impressione che, oltre alla fatica immane, Fo a volte vi si sia divertito all’arguzia, e certo diverte i suoi lettori.
Carme 27: «Tu al vecchiotto Falerno addetto giovane, | versa a me coppe belle amare, legge | di Postumia – regina del convito –,| più di un acino tutto ebbro ebbra. | Ma voi dove vi va sparite, o linfe, | via, rovina del vino, voi, e migrate | dagli austeri: qui è re il Tioniano puro». Nelle sei pagine di note l’annotatore ci informa anzitutto che il carme è stato sottoposto da parte dei commentatori a molte elucubrazioni e sottigliezze, mentre la sua impressione è che siamo di fronte a una semplice, spontanea accensione occasionale, mirabile nella sua autenticità; con ogni probabilità, un’improvvisazione a simposio. Si è stabilito che si beva vino puro: e ben venga. [...] «Da trentatré parole in versi su una serata a bere fra amici, cosa pretendere di più?».
Viceversa al disperato carme 75 leggiamo: «Mi è giunta a tanto – per tua, mia Lesbia, colpa – la mente, | e a tale punto s’è persa per questa sua dedizione, | che ormai non può, pur se ti fai perfetta, volerti più bene, | né fare a meno di amarti». Fo lo inquadra e lo eleva così: «In questo epigramma l’accento finisce per cadere ai margini della follia in cui sbocca un simile smarrimento. Trattandosi di un’esperienza comune, non stupisce riscontrare un motivo analogo anche nella precedente tradizione [della poesia] erotica. […] Difficilmente, tuttavia, le variazioni di Catullo dipendono qui dai libri, e sembra impossibile negare che scaturiscano dal vivo di una sofferenza profondamente sperimentata».
Davanti a questi casi, così presentati, anche l’obiezione accennata più sopra delle deficienze e le scorie che restringono o impoveriscono la poesia catulliana, cade, e si riflette o si geme e inveisce con lui come sui grandi.
Gaio Valerio Catullo
A cura di Alessandro Fo. Testo latino a fronte, Nuova Universale Einaudi,

Il Sole Domenica 23.12.18
prima traduzione
Meccanica statistica: un inedito di Eistein


Una raccolta di “Scritti di meccanica statistica” di Albert Einstein è stata pubblicata da Book Time (pagg. 168, € 18). Il libro, curato da Massimiliano Badino e con la traduzione dei testi di Luca Peliti, offre una preziosità, o meglio un inedito: contiene la prima traduzione di un manoscritto non datato del grande fisico, vergato in preparazione di una conferenza intitolata “Sulla fondazione della determinazione della costante dell'entropia da parte di Tetrode e Sackut”, presentata alla riunione del 12 gennaio 1916 della Deutsche Physikalische Gesellschaft. Lo scritto ricordato, alle pagine 115-126 di questa raccolta, è accanto ai diversi saggi di Einstein dedicati alla teoria generale molecolare del calore o alla teoria quantistica della radiazione o sui fondamenti della termodinamica. È il caso di ricordare che il geniale Albert considerava la meccanica statistica, ossia lo studio di sistemi meccanici costituiti da un numero altissimo di particelle, come i gas, la teoria da cui partire per una comprensione del mondo microscopico e di quello macroscopico. In questa collana sono usciti, tra gli altri, il libro di Alfred North Whitehead “Il principio della relatività”, un’antologia del “General trattato di numeri” del matematico cinquecentesco Niccolò Fontana (noto come Tartaglia) e un saggio di Massimiliano Badino intitolato “Il professore e il suo demone”, in cui è narrata la lunga lotta di Max Planck contro la statistica. Per la precisione: “demone della statistica” .

Il Sole Domenica 23.12.18
Riflessi nel grande schermo
L’amore sulla cortina di ferro
di Roberto Escobar


Si chiamavano Wiktor e Zula, i genitori di Pawel Pawlikowski, come i protagonisti di Cold War (Zimna wojna, Polonia, Francia e Gran Bretagna, 2018, 85’). A loro, morti nel 1989, poco prima della caduta del Muro, il regista polacco racconta d’aver pensato scrivendo il film. Sono i personaggi più interessanti che abbia mai incontrato, aggiunge, forti e meravigliosi come persone, «come coppia un disastro totale».
Forti per se stessi e disastrosi nel loro rapporto d’amore sono anche il Wiktor (Tomasz Kot) e la Zula (Joanna Kulig) la cui vita seguiamo dal 1949 al 1964. Pawlikowski e i cosceneggiatori Janusz Glowacki e Piotr Borkowski li raccontano nella Polonia stalinista, poi a Berlino Est, a Parigi, nella Iugoslavia di Tito, di nuovo a Parigi e in Polonia. Si cercano, si trovano, si lasciano, tornano insieme… Fino alla conclusione della loro storia, ma non del loro amore, tra le mura di una vecchia chiesa cadente, dove quindici anni prima la storia e l’amore sono iniziati.
Ripreso in un formato oggi inusuale, l’ “antico” 4:3, Cold War è girato in bianco e nero, come è accaduto nel 2013 per Ida. La Polonia del Dopoguerra, spiega Pawlikowski, aveva un colore indefinito, «una specie di grigio/marrone/verde». Era stata distrutta, le sue città erano in macerie, in campagna non c’era elettricità, i vestiti erano scuri. Non la potevo raccontare a colori, d’altra parte, continua, volevo che il film avesse toni brillanti. Il bianco e nero è stata la soluzione.
Così sono Wiktor e Zula, “brillanti” non solo in un contesto storico ma anche in una condizione esistenziale grigia/marrone/verde. Quando si incontrano, lui è un musicista di grandi aspettative, costretto a dirigere un gruppo folcloristico che il regime intende usare a scopo di propaganda. Lei è solo una giovane donna piena di energia, disposta a qualunque cosa le consenta di uscire dalla mediocrità. È intelligente, forte, decisa. Ma è certa di non essere all’altezza di lui. E continua a esserlo quando – nel 1954, ormai stella benvoluta dal regime – lo raggiunge a Parigi, dove due anni prima è fuggito da Berlino Est.
La loro vita insieme potrebbe non avere più ostacoli. Lei si è sposata con un italiano, ma solo per avere un passaporto che le consenta di lasciare la Polonia. Eppure, qualcosa la trattiene e la angoscia. Lo stesso accade a lui che, immerso nell’ambiente intellettuale e artistico parigino, non ci sta che da esule, non più polacco, non ancora francese. L’aver passato più volte la frontiera tra Occidente e Oriente, uno fuggendo, l’altra con una cittadinanza di comodo, non li ha affrancati dalla guerra fredda in corso tra due mondi contrapposti né da quella fra di loro, lui con la sua voglia di libertà e con la sua pena di sradicato, lei con il suo desiderio di successo e la sua convinzione di non essere (anche per questo) all’altezza di lui.
È una storia d’amore, Cold War, di un amore fatto di desiderio, capace di superare lontananze di luoghi e di moralità esistenziali, ma anche di un amore che non trova un luogo in cui vivere, né una scelta che gli consenta di trovarlo. Solo nel 1964, tra i muri di una chiesa diroccata, i Wiktor e Zula cinematografici scelgono e trovano, iniziando un cammino che li porterà in un luogo senza frontiere, finalmente insieme. Con loro va la memoria di Pawlikowski, indietro fino ai suoi propri Wiktor e Zula, in una Polonia che brilla, ma solo in bianco e nero.


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