Il Sole Domenica 2.12.18
«Straparole» di Cesare Zavattini
La vita? È fatta di tutto quello che si tace
di Stefano Crespi
Occasione
davvero significativa è la ristampa, nelle edizioni Giunti di Firenze,
di Straparole di Cesare Zavattini (libro uscito la prima volta da
Bompiani nel 1967). La personalità di Zavattini ha un universo creativo
impressionante tra immagine e scrittura, gesto e voce, autobiografia e
racconto: in una reciprocità che attraversa cinema, letteratura,
pittura.
Le pagine di Straparole si susseguono nell’urgenza, nella
materia diaristica, considerando che nello storicismo e nei generi
della cultura italiana il diario rimane in una rarità rispetto
all’opera.
A confermare l’originalità e la diversità diaristica di
Zavattini, valga qualche richiamo variamente esemplificativo. Carlo Bo
pubblica nel 1945 Diario aperto e chiuso. C’è in queste pagine un
alfabeto perdutamente interiore: il tempo esistenziale coincide con il
tempo della lettura, lo sfondo seducente dei libri, le intermittenze, il
tratto della nostalgia, lo scorrere del tempo.
Nell’orizzonte
della letteratura femminile, un verso poetico di Cristina Campo può
essere emblematico: «Ora tutta la vita è nel mio sguardo». Rispetto alla
spazialità dei linguaggi, lo sguardo è inconscio, memoria, attesa, ciò
che è stato amato, ciò che non è accaduto.
Ricordiamo infine l’ultima espressione de Il mestiere di vivere di Cesare Pavese: «Non parole. Un gesto. Non scriverò più».
Zavattini,
lungo le pagine, ha un solo modo di ribadire il suo connotato
diaristico: «un tritume di nomi di fatti di pensieri», «tanto cartame».
In un lascito profondo di umano, di cultura, di sorpresa, di stupore,
Zavattini scrive la temporalità, l'eventicità della vita che appare e
scompare: un fluire inesauribile nelle infinite pagine bianche, fuori da
schemi, da astrazioni intellettuali.
«Il niente non esiste»: fremono luoghi, presenze, volti, parole, ricordi.
C’è
una rinuncia al coordinamento della scrittura per una diretta
espressione nell’atto vivente del tempo. Nell'orizzonte delle
interpretazioni intellettuali, delle situazioni formalizzate, arriva
Zavattini a scrivere: «Dateci almeno un errore da difendere».
Nel
leggere Straparole, un po’ commuove ritrovare un’affinità con il titolo
di un libro di Thomas Bernhard La cantina (pubblicato da Adelphi nel
1984). La cantina è il centro segreto delle voci, dei rimandi, dei
tramandi perduti.
Certamente appaiono variamente nomi di
riferimenti culturali (De Sica, Germi, Soldati, Rossellini, Ungaretti,
Moravia…). Aspetti che hanno un riscontro, come nel cinema, in altre
pubblicazioni. Nel connotato diaristico, la pagina è presa
dall’intermittenza con il margine improvviso della ferialità. In un mese
di novembre, sotto i portici, Zavattini racconta di vedere l’arciprete
con la cotta bianca e la stola nera recarsi da una donna mancata. Si
leva il basco in segno di raccoglimento. Scrive: «l'arciprete si voltò
verso di me dal mezzo della strada e con la sua voce da salmo, gridò,
perché era piuttosto lontano, in dialetto: Cesar, si muore, ricordati
che si muore».
In un tratto di intima fugacità, Zavattini ferma il
momento improvviso, seducente, senza fine delle figure femminili. Nei
giorni uguali ai giorni, sono apparizioni.
Sotto un portone,
Zavattini vide cadere un fazzoletto dal balcone. Corse a raccoglierlo e a
riportarlo su per le scale. Incontra la fanciulla. Le scrisse una
lettera «che non ho mai più scritto». Dopo un anno era sua moglie.
Nelle
occasioni più diverse, osserva le ragazze che cominciano a uscire di
casa, incipriate e si mettono «in mostra sulla strada». A una finestra,
nota una ragazza che si ravviava i capelli. Scrive: «Nessuna curiosità
mi prendeva, solo il rimpianto di non essere giovane per scrivere a
quella fanciulla: ti amo».
Ciò che forse emerge in Straparole è un
connotato espressivo che tende al paradosso nel coniugare il visibile e
l’invisibile, le parole e il silenzio, la coscienza del reale e la sua
“inafferrabilità”.
Zavattini stesso parla della dismisura dei suoi
scritti («chino sul pozzo di un migliaio di pagine e più»). Dall’altra
parte cade una sua osservazione: «La vita è fatta di quello che si
tace». Oltre al dicibile, c’è l’area sconfinata del silenzio,
dell’indicibile.
Ricordiamo anche le poesie di Zavattini nel
dialetto di Luzzara, paese d’origine. Poesie ammirate da Pasolini. Si
riconferma quel tratto dialettico tra il transito della vita e una
percezione misteriosa. Quel funerale così povero «che non c’era neanche /
il morto nella cassa». Una notte Dio entrò nella sua camera. Gli disse:
«faccio sapere che non esisto».
Zavattini ha avuto una grande
apertura nell’incontro, nel dialogo, nella corrispondenza. Mi inviò due
lettere, battute a macchina. Cito uno stralcio che suggerisce
l’orizzonte letterario, l’intuizione dei suoi autori amati: «Intuivo che
Pirandello era uno dei pochi scrittori del Novecento partecipi della
grande cultura europea, accanto a Joyce (che non ho letto), a Proust
(che non letto questo anno) a Kafka ( di cui conosco solo la
meravigliosa Metamorfosi) a Musil (che è qui sul comodino e non oso
ancora cominciarlo). Ma non sono alibi questi, uno scrittore che si
rispetti sa sempre quello che i maggiori hanno fatto, lo vede non sulle
pagine ma nell’aria. Che cosa potrei leggere per sapere le idee di
Pirandello sul cinema?».
Straparole
Cesare Zavattini
Giunti Editore /Bompiani
Firenze – Milano, pagg. 410, € 12