Corriere 2.12.13
13 dicembre 1978
La Cina entra nel XXI secolo
di Maurizio Scarpari
Il
13 dicembre 1978, in occasione dei lavori preparatori del terzo plenum
dell’XI Congresso del Partito comunista cinese, Deng Xiaoping tenne un
memorabile discorso che sovvertì dogmi ritenuti fino ad allora
indiscutibili, sancendo la rottura con le fallimentari politiche
economiche dell’era maoista. Il principio del «ricercare la verità nei
fatti», che si contrapponeva alla retorica della Rivoluzione culturale,
veniva espresso nell’appello rivolto all’élite del partito affinché
trovasse il coraggio, ora che Mao era morto e i componenti della Banda
dei Quattro erano stati arrestati, di superare i vincoli e i
condizionamenti ideologici che avevano paralizzato la classe dirigente e
il Paese per anni.
Deng invitava gli alti dirigenti a «emancipare
le menti» e a creare un progetto di sviluppo innovativo in grado di
liberare la nazione dalla povertà e dall’arretratezza in cui era
sprofondata, superando l’equazione «socialismo = povertà» e l’assunto
che i modelli socialista e capitalista fossero tra loro incompatibili.
«Naturalmente non vogliamo il capitalismo — dichiarò nel 1979 — ma
nemmeno essere poveri sotto il socialismo». Inaugurò una visione
pragmatica e lungimirante che puntava alla concretezza, basandosi sul
principio «a ciascuno secondo il proprio lavoro», sul riconoscimento di
talento e competenza e su un sistema economico che incentivava la
produttività integrando ideali comunisti e pratiche del libero mercato.
Deng chiamò il nuovo modello di sviluppo «socialismo con caratteristiche
cinesi», inaugurando un esperimento ambizioso che rompeva con i dogmi
del marxismo; lo seppe guidare con prudenza e gradualità, testando ogni
innovazione a livello locale e applicandola sul piano nazionale solo
dopo averne verificato l’efficacia. Il metodo, rivelatosi vincente,
trasformò radicalmente la società e rilegittimò, non più su base
ideologica, il ruolo centrale del Pcc, che avrebbe favorito il processo
di cambiamento garantendo stabilità al Paese.
In pochi anni la
Cina riuscì ad avviare lo sviluppo e in qualche decennio divenne la
potenza che oggi conosciamo. Numerosi sono i problemi ancora da
risolvere e le disuguaglianze da ridurre (lo stesso Deng considerava
inevitabile che alcuni si sarebbero arricchiti prima di altri) ma
intanto oltre 700 milioni di cinesi sono usciti dalla povertà assoluta
ed è emersa una classe media di circa 400 milioni di persone. Alla fine
degli anni Settanta la Cina era un Paese stremato, ancorato a modelli di
sviluppo rivelatisi per molti aspetti catastrofici. Le decine di
milioni di morti d’inedia causate dalle velleitarie politiche del Grande
balzo in avanti (1958-62) e le violenze della Rivoluzione culturale
(1966-76) possono far intuire quanto sia stato devastante per un intero
popolo il tentativo di recidere in modo netto le proprie radici
culturali, rinnegando lo stile di vita e le tradizioni.
Dopo la
morte di Mao la lotta per il potere s’inasprì e all’ortodossia
conservatrice di Hua Guofeng, l’uomo dei «due qualsiasi» (sostenere
qualsiasi politica e seguire qualsiasi istruzione indicate dal
presidente Mao), si contrappose la linea riformista che ebbe in Deng il
suo leader indiscusso. Si scontravano due concezioni economiche
antitetiche, la prima che s’ispirava al modello sovietico di
pianificazione centralizzata, la seconda che vedeva nelle riforme di
stampo liberale e nell’apertura ai capitali stranieri le chiavi della
ricostruzione di un sistema produttivo ormai al collasso. La
popolazione, esausta, voleva cambiamenti radicali: nel 1978 erano già in
atto in alcune regioni forme clandestine di gestione familiare
dell’agricoltura contrapposte al fallimentare sistema delle comuni.
Erano i prodomi della decollettivizzazione, che in breve si sarebbe
estesa all’intera nazione e al settore industriale, portando al sorgere
di un fitto sistema di piccole imprese private e alla costituzione delle
zone economiche speciali.
Il miracolo cinese partì da queste
premesse, e il merito fu soprattutto di Deng, che si mosse con grande
abilità, assecondando e trasformando in soluzioni vincenti le spinte
provenienti dal basso e riuscendo a mantenere il potere senza ricoprire
mai posizioni di primo piano, che delegò ad altri, quali Zhao Ziyang e
Hu Yaobang, riservando per sé, per cautelarsi, la presidenza della
Commissione militare centrale. Il giudizio storico su di lui è
controverso, venendogli comunque addebitate gravi responsabilità per il
ruolo che in precedenza avrebbe avuto nell’attuazione delle rovinose
politiche economiche maoiste e, soprattutto, per la dura repressione
della protesta della Tienanmen (1989). In anni recenti è spettato a Xi
Jinping, paladino a livello mondiale del libero mercato, il compito di
dare una nuova scossa al sistema e traghettare l’ormai logoro modello
denghiano verso una nuova èra, coniugando principi maoisti, forme
parziali e controllate di liberismo economico e valori etici confuciani
sotto la vigile guida del Pcc, che ha così ritrovato, una volta ancora,
piena legittimazione.