Corriere La Lettura 2.12.18
Bukowski fa paura alla paura
di Simone Savogin
Dopo
l’esaltazione tipica che segue il momento in cui prendi in mano il
nuovo libro di un autore che si ammira e di cui non si può mai avere
abbastanza, la prima domanda che mi è sorta spontanea è stata: «Se
questo è il meglio, quanto diavolo ha scritto quell’uomo?!».
Scherzi
a parte, mi sono chiesto: «Potrà ancora stupire, potrà ancora essere
necessario leggere Bukowski nel 2018?», non perché Bukowski sia antico o
anacronistico ma — oltre al fatto che, purtroppo, è quasi diventato
anacronistico leggere un libro — è che rispetto a certi classici che
possiamo definire figli di certe epoche e società, lui è l’emblema della
rottura, dell’eccesso, dell’essere fuori da quel meccanismo regolare
che chiamiamo la normalità. Questi suoi eccessi e questa sua unicità
prestano il fianco al mutamento della società: una volta che si è visto
che cosa possa esserci oltre ciò che si conosce, si tende a far
rientrare anch’esso nella cosiddetta normalità. Quindi Bukowski è
soggetto di altri al rischio di diventare «normale», se così vogliamo
dire. E se la forza della sua scrittura stava anche, e fortemente, nel
suo essere fuori dagli schemi, può riuscire a esser forte anche una
volta che è «normalizzata»? Come nei più bei sogni, la realtà è spesso
capace di stupirci anche nelle cose più semplici: leggere Bukowski nel
2018 è ancora fonte di stupore, di piacere, pace, sorriso, amore e
rabbia. Riesce ancora a suonare irriverente nel suo schiacciare la
normalità nel tritacarne dei versi.
La sua penna si distingue
dalle migliaia di imitazioni, la sua immaginazione porta alla luce
fotografie ficcanti e ancora fresche e inattese, i suoi elenchi sono
colpi ben assestati sul flipper della poesia, che ti lanciano come una
biglia in giri emozionali ed emozionanti, che sembrano interminabili. La
capacità di sintetizzare in poche pennellate un intero mondo di sensi
(nel senso del senso delle parole) e sensi (nel senso dei 5, e più,
sensi), è incredibile e incredibilmente attuale, mai banale e a tratti
con una lingua più aulica di quella di chi si erge a purista (e
puritano) o pretende di essere lineare. Lui lineare non lo è mai stato,
neanche nella vita: era una curva unica e le amava tutte, le curve. E
così è anche questo libro, un continuo curvare tra quella sua sana
schiettezza e la sua annoiata profondità, tra sesso vissuto quasi come
un peso, ma cercato come l’oro, e un incolmabile vuoto interiore.
È
straordinario come a volte ci si ritrovi a sentire il profumo (o il
puzzo) di ciò che sta descrivendo, straordinario quanto ci si immedesimi
nei più forti e sinceri sconforti che sa scandagliare in parole,
straordinario come si respiri buono quando ci sbatte delle verità
innegabili tra una bevuta, una natica e un assoluto.
Ma di tutte
le sfaccettature di una scrittura sghemba e forte, la più sana dote di
quel gran bastardo è la schietta sincerità, il coraggio di saper essere
ancor più che onesto: sincero. Quando si insegna che alcuni autori sono
guidati da un’urgenza comunicativa che li porta a scrivere, si dovrebbe
usare lui come esempio, si dovrebbero prendere interi brani e
bisognerebbe provare a raggiungere quel livello di abbandono alle
parole, senza freni, senza limiti, senza paura. Ecco, Bukowski nel 2018
riesce ancora a essere potente perché, senza alcuna paura, ha saputo
tuffarsi e descrivere la Paura stessa. Benché la sua possa risultare una
figura forte, dedita agli eccessi, noncurante o malinconica, quella
grande Paura che lo morde e che lo fagocita, traspare lampante in quasi
tutte le poesie; forse anche solo perché è pienamente condivisa da chi
legge.
Nonostante siano centinaia gli spunti di riflessione (come
la sua fortissima consapevolezza in e adesso? o altre altrettanto
«terminali», oppure la già citata sincerità della più famosa, nonché
primissima, in questo libro: consiglio amichevole a molti giovani e
anche a molti vecchi) e le immagini NECESSARIE contenute in questo
libro, c’è una grande verità che spicca tra tutte: (...) «ma come Dio ha
detto,/ accavallando le gambe,/ vedo che ho creato fin troppi poeti/ ma
non abbastanza poesia».
Questo è uno dei motivi per cui leggere
Bukowski nel 2018 è ancora importante e illuminante, perché in quei
(come avrebbe detto lui) fottuti versi, lui ci sputava tutta l’anima e
la poesia di cui era capace. Nonostante, quindi, la voracità con cui
spero in molti leggeranno questa splendida raccolta e che mi ha guidato
per tutto il tempo, ho un po’ storto il naso per delle scelte poco
felici d’impaginazione.
Nel gran sorriso che mi ha suscitato il
trovare la versione originale in inglese di ogni testo, non ho potuto
che sentire come gabbia o come affronto il relegarla a piè di pagina.
Non ho pienamente compreso questa scelta che appiattisce l’andamento,
che non concede di ritrovare naturalmente i fiati che lo scrittore ha
inserito, sostituendoli con delle barre. E la presenza di un asterisco a
ogni singolo titolo, mi è sembrata un’inutile forzatura, un orpello
superfluo, evitabile. Ma queste sono fissazioni di un amante
dell’oggetto libro, oltre che della scrittura, voi non date retta ai
brontoloni e godetevi lo stupendo contenuto.