il manifesto 8.12.18
Il «sovranismo psichico» di un’Italia povera e incattivita
Rapporto
Censis. I migranti il capro espiatorio degli italiani passati alla
«difesa delle trincee». Il reddito ristagna: tra il 2000 e il 2017, 400
euro in più all’anno contro i 6 mila in Francia
di Roberto Ciccarelli
Sovranismo
psichico, prima ancora che politico. È la definizione del Censis nel
52esimo rapporto presentato ieri al Cnel a Roma. Più che un’analisi sui
dati dell’economia, e della sua crisi, l’indagine trova un suo interesse
per il panorama che offre sulla crisi della soggettività nell’epoca del
risentimento e del «populismo» al potere.
L’espressione
ridondante di «sovranismo» non allude solo al conflitto tra
Stato-Nazione e tecnocrazia europea, ma al cittadino-consumatore che
«assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio». Si
esprime «in un egolatrico compiacimento nei consumi» mentre il suo
reddito ristagna – tra il 2000 e il 2017, solo 400 euro in più all’anno
contro i 6 mila in Francia dove sono insorti i gilet gialli – ed è
drammatica l’emergenza casa (solo 4 mila alloggi sociali costruiti) in
un paese di gente senza casa e di case senza gente.
LA CACCIA AL
CAPRO ESPIATORIO è auspicata, per motivi elettorali, dai populisti.
Dall’alto, sul balcone di Facebook c’è un ministro dell’Interno che
gestisce un’economia psichica che ieri aveva al centro il «rancore» e
oggi la «cattiveria» contro gli inermi. In basso, si registrano le
aggressioni, quella fascista di Macerata o quella a una ragazza rom
l’altroieri nella metro di Roma. L’alto e il basso si saldano nelle
norme del cosiddetto «Dl sicurezza»: galera contro «l’accattonaggio
molesto», oppure per i sindacati e movimenti che fanno blocchi stradali o
occupano. In entrambi i casi si prospetta l’uso penale del diritto
contro il dissenso e i poveri. «La conflittualità latente,
individualizzata, pulviscolare e disperata», rilevata dal Censis, non è
uno stato di natura, ma una condizione governata attraverso l’uso
mediatico di un’emergenza fittizia.
VIVIAMO IN UN’«ERA
biomediatica» dove si è rovesciato il rapporto tra l’io e il sistema dei
media. Il soggetto ne è diventato il protagonista centrale, anche
perché senza di lui Facebook o Twitter non esistono. Geniale invenzione:
piattaforme senza contenuti che realizzano i loro profitti con i
contenuti personali prodotti gratuitamente dai loro utenti.
Ciò
che legittima questa situazione è la «vetrinizzazione del sé», la vita
trasformata in un brand dell’Io. Le fashion blogger, gli «autori» o i
politici, ad esempio. Il Censis interpreta questa trasformazione nei
termini della «celebrità». Un terzo del suo campione ritiene che la
popolarità sui social network sia un ingrediente «fondamentale», a
dispetto dei titoli di studio (il 41,6% tra i 18-34enni). Ma, allo
stesso tempo, un quarto afferma che i «divi» non esistono più (il
24,6%). Nell’economia digitale, tuttavia, tutti sono sollecitati a
mettersi in mostra. La nostra esistenza coincide con la «visibilità» e,
talvolta, con la sua monetizzazione. Non è un’eccezione, è la regola. I
social media fanno parte della politica – non sono «pre-politica», né
sovrastruttura. È politico il lavoro di chi, nello stato e nel mercato,
forma il senso comune a partire dal sistema pulviscolare degli account
personali. Il «sovranismo psichico» unisce le élite al loro popolo
reinventato quotidianamente sulle piattaforme digitali. E lo chiama
«popolo».
SIAMO PASSATI DALL’ASSALTO al cielo alla «difesa delle
trincee», la formula del Censis è efficace. Segno che per questa
soggettività introflessa, vulnerabile e capace di affermare la sua
passione per le merci che non riesce più ad acquistare, la salvezza sta
nel difendere l’ultima proprietà che resta: la sovranità sull’identità.
L’intolleranza verso gli stranieri, sui confini esterni, ha un analogo
all’interno.
L’identità è sessuata, maschile, tradizionalista e
patriarcale. Il 43,2% del campione interpellato non vuole convivenze tra
persone non sposate, il 37,1% è paladino della tradizionale divisione
dei ruoli e il 22,7% è convinto che le faccende domestiche debbano
essere svolte dalle donne. Lo pensa anche il 19,7% delle interpellate. È
in questa torsione reazionaria che nascono le violenze maschili contro
le donne, quelle che il movimento femminista Non una di meno denuncia
instancabilmente da tre anni, non solo in Italia.
IL RISCHIO DELLE
INDAGINI che intrecciano crisi individuali e sociali è limitare la
clinica della paura alla dimensione psicologica e morale di un Io
desovranizzato. La salvezza non sta in una nuova accumulazione del
«capitale umano». Questa è una parte del problema, come emerge, ad
esempio, nel libro di Federica Giardini I nomi della crisi. Antropologia
e politica (Wolters Kluwer), una diagnosi chirurgica del nostro
presente. Concorrenza, prestazione, empowerment – i valori del «capitale
umano» – mescolano il tratto vitale delle passioni con una nuova
gerarchia tra chi è più o meno concorrenziale.
Il «sovranismo
psichico» è una reazione a questa situazione impossibile, prodotta dal
mercato e usata dal populismo. E va decostruito con una critica
dell’economia politica, e psichica, di quello che siamo diventati in
questa bolla dell’odio e dell’impotenza.
Le alternative esistono.
Ieri Giuseppe De Rita ha accennato al desiderio di un altro mondo, «un
senso diverso del futuro», di un «mondo come società possibile». In
Italia c’è una società viva che lo sta cercando. Lo dimostrano, a nostro
avviso, anche le manifestazioni antirazziste da Milano, a Catania, a
Roma. Ci vuole coraggio nel rendere queste testimonianze politicamente
attive.