il manifesto 5.12.18
Regeni, nei cinque indagati sta tutto il sistema-al Sisi
Egitto.
Non «lupi solitari» ma alti funzionari dell’Nsa, i potenti servizi
segreti: la Procura dà nomi e ruoli agli aguzzini. Centrali le bugie del
ministero degli interni, cuore del regime: 1,5 milioni di «impiegati»
tra agenti e informatori
di Chiara Cruciati
Ieri,
come annunciato, la Procura di Roma ha iscritto nel registro degli
indagati cinque cittadini egiziani, ufficiali della Nsa (National
Security Agency) e della polizia investigativa del Cairo accusati del
sequestro, il 25 gennaio 2016 nella capitale egiziana, di Giulio Regeni.
L’iscrizione
è giunta dopo quasi tre anni di indagini di Ros, Sco e del team del
procuratore Pignatone e del sostituto Colaiocco che hanno individuato
nei cinque funzionari gli esecutori materiali del rapimento del
ricercatore. Hanno un nome e un volto gli aguzzini di Giulio. Non nomi
qualsiasi, non «lupi solitari», ma figure centrali della macchina
statale di controllo e repressione: il generale Sabir Tareq, i
colonnelli Usham Helmy e Ather Kamal, il maggiore Magdi Sharif e
l’agente Mahmoud Najem.
Chi dava gli ordini e chi eseguiva. Najem
seguiva Giulio, prese contatti con il portiere del palazzo di Dokki dove
viveva e con il suo inquilino, Mohamed el Sayad, per impossessarsi dei
suoi documenti e procedere a perquisizioni segrete. Kamal ha gestito i
rapporti con Mohammed Abdallah, capo del sindacato degli ambulanti, già
informatore dei servizi e arruolato per spiare Giulio; fu Kamal a
condurre Abdallah nell’ufficio della Nsa.
Qui, Helmy lo ha
«assunto», gli ha dato l’ordine di fornire informazioni su Giulio,
mentre Sharif coordinava l’intera operazione sotto l’ala del generale
Tareq. Sono stati loro a catturare Regeni nella rete, a mettere addosso
ad Abdallah una telecamera in dotazione della polizia e a ordinare il
sequestro del giovane, la sera del quinto anniversario della rivoluzione
di piazza Tahrir, in una capitale spettrale.
Abdallah non era
nuovo a collaborazioni con il mukhabarat, i servizi segreti. Il suo
ultimo incontro con Giulio, il 6 gennaio 2016, è il punto di svolta: il
colonnello Sharif, secondo un’inchiesta del Nyt, gli promise una
ricompensa quando il «caso Regeni» fosse stato chiuso.
Ingranaggi
fondamentali del sistema di controllo totale del regime di al-Sisi,
ereditato dal predecessore Mubarak e amplificato a dismisura. La Nsa non
è un ente qualsiasi: «chiuso» dopo la rivoluzione del 2011 (si chiamava
Ssis), è riapparso poco dopo con un nuovo nome, ma sempre sotto il
diretto controllo del ministero degli Interni e del potente e feroce
ministro Magdy Abdel Ghaffar, un dicastero che da solo impiega 1,5
milioni di persone tra poliziotti, agenti dei servizi e informatori.
Tra
loro anche dei condannati per torture su detenuti e ancora al loro
posto, come il generale maggiore Khaled Shalaby: nel 2003 la Corte di
Cassazione egiziana lo condannò per aver torturato a morte Shawqy Abdel
Aal e aver poi falsificato i verbali, ma nel 2015 è stato promosso a
capo del dipartimento investigativo di Giza. Fu Shalaby che dopo il
ritrovamento del corpo martoriato di Giulio disse che si era trattato di
«un’incidente stradale». Smentito da Ahmed Nagy, il procuratore del
Cairo che in quegli stessi giorni parlò di «torture» e «morte lenta».
E
fu invece proprio Ghaffar – braccio destro di al-Sisi, 31 anni
trascorsi nel Ssis – a presentarsi in tv per dire che mai i servizi
egiziani avevano avuto a che fare con Regeni: «Questo è la mia ultima
parola sulla questione: non è successo». Bugie, smentite palesemente
dalle indagini e che con un filo rosso conducono al cuore del regime.
Già
nell’aprile 2016 la Reuters, citando sei tra poliziotti e funzionari
dei servizi egiziani, diceva di poter ricostruire il sequestro di
Giulio, portato dopo il rapimento nella sede della Nsa al Cairo dopo
essere transitato per la stazione di polizia «fortezza» di Izbakiya. In
risposta a quell’articolo, il portavoce della Nsa, Mohammed Ibrahim,
affermò la non esistenza di connessioni «tra Regeni e la polizia o il
ministero degli interni o la sicurezza nazionale»: «L’unica volta che è
entrato in contatto con la polizia è stato quando dei funzionari hanno
timbrato il suo passaporto all’arrivo in Egitto».
Altra bugia:
Giulio è stato pedinato mentre svolgeva il suo lavoro, sicuramente a
dicembre 2015 all’assemblea dei sindacati indipendenti, e poi tramite
Abdallah. La sua casa è stata perquisita e gli è stata tolta la vita.