il manifesto 2.12.18
Camus il solitario ma il solidale
Novecento
francese. Fra le tre recenti ri-traduzioni, spicca «Il diritto e il
rovescio», raccolta di racconti 1937: Albert Camus vi anticipa le opere
maggiori, «tutta l’assurda semplicità del mondo»
di Pasquale Di Palmo
«Vede,
Jean, ho avuto delle critiche sui giornali; non mi posso lamentare;
l’accoglienza che hanno riservato a queste pagine è stata insperatamente
calorosa. Ma io leggevo in queste critiche le stesse frasi che
ritornavano: amarezza, pessimismo ecc. Non hanno capito – e a volte mi
dico che non mi sono fatto capire bene. Se non sono riuscito a
comunicare tutto il mio gusto per la vita, tutta la voglia che ho di
addentarla avidamente, se non sono riuscito a dire che la morte stessa e
il dolore non facevano che esasperare in me questa ambizione di vivere,
allora non ho detto nulla».
Così scriveva Albert Camus all’amico
Jean de Maisonseul quando uscì nel 1937 in 385 esemplari il suo libro
d’esordio, L’Envers et l’Endroit, grazie ad Edmond Charlot, giovane
editore algerino. Divenuto introvabile, il testo venne ristampato nel
1958 da Gallimard, arricchito da una prefazione dell’autore. È ora
riproposto da Bompiani nella nuova, intensa traduzione di Yasmina
Melaouah con il titolo anastrofico Il diritto e il rovescio (pp. 80, €
9,00) che affianca le recenti versioni di L’esilio e il regno, a cura
della medesima traduttrice (pp. 176, € 10,00) e del dramma Caligola (pp.
160, € 10,00), uno dei capisaldi della produzione teatrale reso in
italiano da Camilla Diez. Il tutto concepito nel progetto di
rivisitazione dell’opera di Camus inaugurato qualche tempo fa da
Bompiani con l’allestimento di versioni meno datate dei suoi romanzi più
conosciuti, cui va ad aggiungersi l’odierna ristampa di altri titoli
basilari come La morte felice, Tutto il teatro e Riflessioni sulla pena
di morte. Le traduzioni attuali, improntate ad un linguaggio più consono
ai nostri tempi, esibiscono una maggior aderenza al testo, correggendo
alcune imprecisioni che figuravano nelle lezioni precedenti, come
nell’incipit dell’«Ironia», testo inaugurale del Diritto e il rovescio,
dove la vecchia protagonista ha il «lato destro paralizzato», invece del
«fianco sinistro» della versione di Sergio Morando datata 1959.
All’insegna
del racconto la stagione creativa di Camus idealmente si apre e si
chiude: L’esilio e il regno, pubblicato da Gallimard nel 1958,
rappresenta l’ultimo titolo che l’autore licenziò prima di morire nel
1960 e, come tale, costituisce una sorta di contraltare alla raccolta Il
diritto e il rovescio. Tra i due versanti si inscrive una tra le
vicende intellettuali più significative del Novecento, di una dirittura
morale e un rigore ammirevoli. Le nozioni di assurdo e di rivolta
sembrano caratterizzare l’opera stessa di Camus, lungo un itinerario
creativo felice e versatile che annovera autentici capolavori: da Lo
straniero a Il mito di Sisifo, da La peste a L’uomo in rivolta, da La
caduta ai titoli apparsi postumi. Libri scritti in uno stile sobrio,
asciutto, misurato, che nulla concede sul piano virtuosistico e che si
misura indifferentemente con prosa narrativa e saggio di argomento
speculativo, testi critici e teatrali, articoli di taglio politico e
annotazioni diaristiche (vedi rispettivamente le corrispondenze per
«Combat» intitolate Questa lotta vi riguarda e i Taccuini, entrambi ora
ristampati da Bompiani).
Nei cinque brevi racconti confluiti in Il
diritto e il rovescio, scritti tra il 1935 e il 1936, è già presente in
filigrana il timbro inconfondibile che contrassegnerà tutta la
produzione di Camus, a cominciare dal succitato «L’ironia», in cui
vengono messe in relazione, con l’esemplare semplicità di un trittico
belliniano, tre vicende umane che hanno a che vedere con un mondo che ha
il sapore agrodolce di un’arancia, «a metà strada fra la miseria e il
sole», tipico della giovinezza algerina dell’autore. «Quanto a me, so
che la mia fonte di ispirazione è nel Diritto e il rovescio, in quel
mondo di povertà e di luce in cui ho vissuto a lungo e il cui ricordo
tutt’ora mi preserva dai due pericoli contrapposti che minacciano ogni
artista, il risentimento e la soddisfazione», avverte Camus nella
prefazione.
Ed è curioso che, in questo scritto introduttivo
composto vent’anni dopo, Camus definisca tali testi «saggi» anziché
racconti. A prescindere dal difficile inquadramento in un determinato
genere, si tratta di composizioni che si muovono fra narrazione e
annotazione frammentaria, carichi di un retaggio scopertamente
autobiografico: si pensi alla morte della nonna, alla figura della madre
silenziosa in «Fra il sì e il no» o alla contrapposizione tra
«l’angoscia di Praga» e la pace del paesaggio idillico vicentino
descritti in «La morte nell’anima». Roger Grenier giustamente rileva
come in questi spunti sia rintracciabile «la nozione di assurdo» a
cominciare da «tutta l’assurda semplicità del mondo», espressa in «Fra
il sì e il no», che sembra prefigurare alcune asserzioni di Meursault
nello Straniero.
Ancora Roger Grenier, a proposito dell’Esilio e
il regno, asserisce: «Il fatto che il titolo scelto non sia, come invece
accade frequentemente, quello di uno dei racconti, mostra la volontà
dell’autore di sottolineare la loro coerenza, la loro unità di
ispirazione. In tutte queste storie, infatti, l’esilio – morale o
geografico – svolge un ruolo importante. Se Camus ha aggiunto «e il
regno», è stato forse per riprodurre l’effetto di simmetria e di
antitesi del suo primo libro, Il diritto e il rovescio. In una certa
misura, del resto, L’esilio e il regno è un ritorno alle origini. Un
testo come «I muti» è un’evocazione del «quartiere povero» che ha
fornito l’ispirazione del Diritto e il rovescio. Uno dei racconti più
risolti di Camus, La caduta, doveva originariamente essere incluso in
questa raccolta.
E, al di là delle indubbie corrispondenze (e
divergenze) di ordine stilistico, l’ultimo libro di Camus costituisce un
motivo di fedeltà alle tematiche della povertà, del pensiero meridiano,
della vita assolata nelle terre d’Algeria contrapposta a quella,
inautentica, della metropoli parigina. Spiccano, in un disegno musivo
omogeneo e articolato che risente di certo engagement, «I muti», in cui
il profondo dissidio instauratosi tra operai e padrone si stempera
quando la figlia di quest’ultimo viene ricoverata a causa di un malore
improvviso, e «L’ospite» dove la solidarietà si esplica attraverso gli
scrupoli di coscienza di un maestro a cui viene affidato in custodia un
arabo accusato di omicidio. Il finale di «Giona o l’artista al lavoro»
evidenzia come il pittore, protagonista del racconto, dopo varie
vicissitudini, scriva sulla «tela, completamente bianca una parola che
si riusciva più o meno a decifrare, ma che non si capiva se andasse
letta come solitario o solidale». Aggettivi che potrebbero definire lo
stesso Camus, la sua tormentata vicenda espressiva, nonché la sua
profonda avversione per le verità di comodo.
Il fatto che lo
scrittore, nonostante certe analogie riguardanti soprattutto
l’accanimento con il quale affrontava la questione dell’insensatezza di
vivere e dell’assurdo, venisse tacciato di essere un esistenzialista non
è che una delle tante generalizzazioni aventi a che fare con la sua
opera. La concezione libertaria insita nei suoi testi non poteva che
indirizzarlo verso posizioni etico-politiche quanto mai distanti
rispetto a quelle di Sartre o Merleau-Ponty. Lui stesso precisò in
un’intervista: «Non sono esistenzialista. Sartre e io siamo sempre
stupiti nel vedere associati i nostri due nomi. Pensiamo persino di
pubblicare un giorno o l’altro un annuncio sul giornale in cui
affermeremo di non avere niente in comune e ci rifiuteremo di rispondere
dei debiti che avremmo reciprocamente contratto. Perché, insomma, è uno
scherzo. Sartre e io abbiamo pubblicato tutti i nostri libri, senza
alcuna eccezione, prima di conoscerci. Quando ci siamo conosciuti, è
stato per appurare che eravamo differenti. Sartre è esistenzialista, e
il solo libro di idee che ho pubblicato, Il mito di Sisifo, era diretto
proprio contro i filosofi chiamati esistenzialisti». A buon intenditor…