domenica 2 dicembre 2018

il manifesto 2.12.18
Nella Rivoluzione americana, lo scontro di due Illuminismi
Storia. Nel suo saggio «Il grande incendio» (Einaudi), Jonathan Israel incoraggia una revisione in chiave non più ideologica e novecentesca della storia politica statunitense: una discussione
di Tiziano Bonazzi


Nel 1959 lo storico americano Rober R. Palmer pubblicò un libro divenuto un classico, L’era delle rivoluzioni democratiche, 1760-1800, con il quale voleva dimostrare l’esistenza di una serie di movimenti democratici comuni a Europa e Stati Uniti dei quali le rivoluzioni americana e francese sarebbero stati i capisaldi. Palmer intendeva, così, sottrarre la Rivoluzione americana all’isolamento in cui sia europei che americani l’avevano relegata. Nell’individuare una comune matrice democratica atlantica, il volume aveva risvolti legati alla Guerra fredda; ma l’interpretazione ortodossa della Rivoluzione americana durante la Guerra fredda venne fissata da Hannah Arendt nel suo saggio Sulla rivoluzione, del 1963, in cui Rivoluzione americana e francese venivano rigidamente contrapposte. La prima, definita come esclusivamente politica perché si era compiuta in una società già largamente egualitaria, costituiva il modello di libertà a cui tutto l’Occidente non poteva non rifarsi; la seconda era il prototipo dell’incapacità democratica degli europei, il preludio necessario al totalitarismo novecentesco.
La tesi di Hannah Arendt si fondava sulla storiografia americana degli anni Cinquanta, la cosiddetta «scuola del consenso», che vedeva la società americana da sempre costituita dalla classe media, dove i conflitti sociali europei non avevano mai avuto spazio. Nel suo saggio appena uscito da Einaudi, Il grande incendio Come la Rivoluzione americana conquistò il mondo, 1775-1848 (traduzione di Dario Ferrari e Sarah Malfatti, pp. 880, euro 38,00 ) Jonathan Israel, storico delle idee inglese molto noto, che vive ora negli Stati Uniti, riprende la tesi di Palmer e controbatte quella di Arendt riconducendo la Rivoluzione americana al contesto europeo e dimostrando l’importanza che ebbe sia per i radicali europei che per quelli latinoamericani, fino al 1848. Del tutto necessaria, l’opera di Israel incoraggia una revisione in chiave non più ideologica e novecentesca della storia politica statunitense.
L’esempio dei radicali
Le sue tesi sull’Illuminismo e sulla Rivoluzione francese sono state molto discusse, e in particolare lo è la sua teorizzazione del dualismo fra l’Illuminismo moderato e quello da lui difeso, l’Illuminismo radicale, che proclamava l’universalità dei diritti e la necessità di garantirli ai gruppi esclusi, neri, donne, ebrei, istituendo una netta separazione fra stato e chiesa e battendosi per un effettivo pluralismo.
Priestley, Price, Paine, Condorcet, Volney, Raynal, Jefferson, Franklin, Filangieri sono alcuni degli autori che Israel elenca fra i radicali, per contrapporli ai moderati che si rifacevano al governo misto inglese, a Locke, a Montesquieu e a una visione ristretta della rappresentanza. In America John Adams e Hamilton ne furono i principali rappresentanti. Per Israel, entrambi gli Illuminismi nutrirono la Rivoluzione americana e vi si scontrarono non solo idealmente, ma politicamente. Ci fu, quindi, una rivoluzione radicale che ebbe nella Dichiarazione di indipendenza il suo manifesto e che si realizzò, ad esempio, in alcune costituzioni statali, dalla Pennsylvania al Vermont.
La versione moderata, invece – che si impose negli stati dove le élite erano più forti, come nella Carolina del Sud dominata dai piantatori di tabacco, per poi trovar spazio nella Costituzione del 1787 – pur partendo dagli stessi principi li interpretò in senso restrittivo, per esempio nella difesa pragmatica o di principio della schiavitù. Tuttavia, la Rivoluzione americana, in quanto tale, ispirò ovunque gli oppositori dell’ancien régime anche se per Israel – che su questo punto non è del tutto chiaro – fu quella radicale a servire da esempio. Così avvenne per i Girondini e Condorcet in Francia, per i rivoluzionari dell’America Latina che esplicitamente vi trovarono il modello a cui rifarsi, nonché per gli oppositori della Restaurazione in Germania, in Francia e altrove in Europa, compresa l’Italia.
Il grande affresco tracciato da Israel consente, quindi, di riportare la storia politica della Rivoluzione e della prima fase di vita degli Stati Uniti a un comune contesto euroamericano, che si consumò nel 1848 quando la reazione antimmigrati e il nazionalismo espansionista presero il sopravvento oltreatlantico, trovando nella guerra di conquista contro il Messico del 1848-49 il momento culminante. In Europa, invece, non solo fallirono le rivoluzioni liberali che in molti casi avevano la Rivoluzione americana e l’Illuminismo radicale come esempi, ma nazionalismo e socialismo sostituirono il richiamo a entrambi.
Per quanto essenziale a una rinnovata analisi dei decenni fra Sette e Ottocento, la massiccia monografia di Israel non può costituire l’unico punto di riferimento. Come anche altri storici del pensiero politico, infatti, Israel ritiene che il pensiero politico sia un sistema di idee dotato di un’autonoma dinamica intellettuale, in gran parte slegata dai movimenti e dagli eventi sociali, che a suo avviso non riescono ad andare oltre il ribellismo e rimandano alle élite intellettuali il compito di dare loro forma e obiettivi. È vero che per Israel lo scontro di idee e la lotta politica e sociale si svolgono contemporaneamente; ma fra essi esiste una gerarchia indiscutibile.
Leggere anche Alan Taylor
Delicato e ampiamente discusso, questo problema non trova tuttavia una soluzione nella prospettiva proposta dallo storico inglese, dalla quale si deduce che tolleranza e secolarizzazione, eventi sociopolitici centrali durante la rivoluzione in New England, Pennsylvania e Virginia, sarebbero il prodotto della filosofia illuminista senza alcun concreto riferimento al contesto in cui si manifestarono. Anche la separazione tra Illuminismo radicale e moderato sembra proporre una battaglia di ideali difficile da capire se riferita a una società americana, in realtà culturalmente assai più complessa. Così come non si comprendono bene le conseguenze concrete di quel dualismo, dal momento che Israel non è interessato alla lotta politica né alle istituzioni, non dedica attenzione al processo costituzionale e non cerca di comprendere i problemi concreti che gli alfieri dei suoi due Illuminismi hanno affrontato, quando crearono dal nulla uno stato capace di difendere la propria sovranità in un mondo atlantico in cui infuriavano i conflitti fra gli imperi.
E, per ultimo, nel criticare la solo parziale separazione di stato e chiesa negli Stati Uniti, Isarel trascura di considerare come i principali Padri Fondatori, deisti, abbiano dovuto agire in un contesto in cui le forze popolari erano politicamente decisive e profondamente protestanti. Se, dunque, il saggio di Israel funziona come un ottimo punto di partenza per smettere di vedere negli Stati Uniti un elemento estraneo alla storia dell’Europa fino a quando, nel Novecento, gli europei vi arrivarono da dominatori, occorrebbe quanto meno bilanciarlo con lo studio di Alan Taylor, Rivoluzioni americane. Una storia continentale (anch’esso pubblicato da Einaudi), tutto centrato sullo scontro sociale che animò l’intera Rivoluzione americana.