il manifesto 27.12.18
Le maglie strette del rancore
Scaffale.
«Nel labirinto delle paure», un saggio di Aldo Bonomi e Pierfrancesco
Majorino per Bollati Boringhieri. Tra politica, precarietà e
immigrazione: quando la solidarietà diventa reato e la crudeltà virtù
civica
di Marco Revelli
«Quanto più la paura non
trova luoghi sociali di decantazione e di elaborazione emotiva, tanto
più tende a trasformarsi in rancore e odio verso l’altro da sé». Nel
labirinto delle paure. Politica, precarietà, immigrazione (Bollati
Boringhieri, pp. 159, euro 15) ruota intorno a questo focus ed è il
volume – bello e terribile – di Aldo Bonomi e Pierfrancesco Majorino. Un
viaggio «di lavoro» dentro il «labirinto del sociale muto» alla ricerca
del punto germinale di questa inedita cattiveria che tutti oggi ci
colpisce: noi, osservatori che attoniti ci chiediamo cosa mai sia
successo; loro, gli oggetti, le vittime di quanto in Europa, nel XXI
secolo, non si aspettavano di subire. E forse anche gli altri, gli
attori dell’odio, quelli che dopo un lungo ciclo di «italiani brava
gente» oggi si ritrovano tra gli haters, irriconoscibili a se stessi nei
luoghi che non riescono più a riconoscere, a ostentare come uno
straccio di bandiera i propri peggiori sentimenti.
UN SOCIOLOGO di
territorio e un amministratore metropolitano, entrambi col gusto delle
interrogazioni radicali, s’immergono nel magma sociale che ha sostituito
la vecchia società di classe alla ricerca del punto di caduta in cui
«il percorso della paura si è fatto rancore e razzismo». E dal
«rovesciamento antropologico» che nell’ultimo ventennio del ’900 ha
trasformato l’Italia da Paese di emigranti in meta di immigrati si è
passati all’«inversione morale» di questi tempi ultimi, quando la
solidarietà diventa reato e la crudeltà (non più solo l’indifferenza, la
crudeltà ostentata) virtù civica, proclamata dai palazzi del governo.
LO
CERCANO, quel punto cieco, testardamente. Con un accanimento che non è
solo culturale e scientifico, ma anche etico e politico, sapendo che i
vecchi strumenti giacciono a terra inutilizzabili: il «termometro del
lavoro», ormai incapace di dirci la temperatura sociale dopo che il suo
oggetto è stato travolto dalla «lotta di classe dall’alto» che ne ha
annientato la soggettività e la capacità di far racconto di sé; l’antico
«sistema ordinatorio delle classi« dopo che il salto di paradigma del
Capitale le ha triturate in un pulviscolo indecifrabile; lo stesso
conflitto – il grande «nominatore» dei processi sociali nell’età
industriale -, ora diventato opaco, persino torbido, fattosi
orizzontale, competizione intraspecifica, non più basso verso alto,
lavoro versus capitale, poveri contro ricchi, ma forma raggrumata del
rancore e dell’invidia sociale indirizzata verso il vicino o, come
antidoto, l’inferiore, il più povero, il più marginale, il più «nudo». E
alla fine lo trovano quel punctum dolens, grazie alla consapevolezza
che per uscire dal labirinto – o quantomeno per sapersi orientare nei
suoi meandri – «occorre avere il coraggio di inoltrarsi nel salto
d’epoca». Esso si chiama «apocalisse culturale» – nel senso usato da
Ernesto De Martino, di fine di un mondo, crisi della presenza – ed è il
lato oscuro della globalizzazione, quello non raccontato dalle
narrazioni apologetiche da fine della storia ma sperimentato da milioni
di atomi sociali, fatta di declassamento, dequalificazione dei lavori
tradizionali e loro messa fuori corso, erosione del reddito,
precarizzazione mascherata da flessibilità, logoramento dei luoghi sotto
la spinta sradicante dei flussi, incertezza che si fa paura e, nella
solitudine degli individui, psicosi individuale e collettiva.
SAREBBE
STATA necessaria una rete a maglie strette di ammortizzatori sociali,
un welfare rimodulato sulla prossimità e la resilienza del legame
sociale (un welfare di comunità), una narrativa risarcitoria nei
confronti delle vittime di quel terremoto (i loser dimenticati nel
racconto dei winner). In sostanza una ridefinizione in chiave
post-industriale del vecchio patto socialdemocratico, per tenere insieme
«il senso della convivenza e l’utile degli interessi». Invece niente.
Anzi, il contrario, con l’affermarsi del modello feroce dell’austerità,
del calcolo micranioso del dare e avere all’insegna dei Guai ai vinti!
La narrativa dei vincitori (pochi, al vertice della piramide, sempre più
in alto) fattasi norma, anzi grundnorm, costituzione materiale del
nuovo mondo «nell’epoca dell’individualismo compiuto e dell’egologia».
E
AL POLO OPPOSTO, in basso e in mezzo, il rancore che cresceva, e si
faceva odio sociale indifferenziato, riflesso cannibalico di una società
lasciata sola. Liquida, come scrive Bauman, di una «liquidità al
mercurio» come dice Bonomi, tossica, avvelenata e avvelenante, passata
senza quasi accorgersene, senza riflessione politica né allarme sociale,
dall’originario istinto all’accoglienza quando ancora all’inizio degli
anni ’90 si profilarono i primi migranti (e Bonomi lo registrò in uno
studio pionieristico), alla successiva prevalenza dell’intolleranza e
poi alla «xenofobia, al razzismo, alla guerra civile molecolare, alla
guerra di civiltà» finché ti ritrovi nel labirinto delle paure. Stretti
tra «l’adattivismo senza visione politica» del sociale e il narcisismo
predatorio delle élites (quello che in Francia è entrato nel mirino dei
gilet jaunes), con in mezzo niente. O quasi. Soltanto un immenso
sommerso che non è solo quello del lavoro nero e dell’evasione o
elusione fiscale ma è soprattutto il rendersi invisibile di un
gigantesco reticolo sociale: «invisibili ai poteri, alle tasse, ai
mercati, così confluendo, come detriti, nel fiume dei tanti precipitati
nel sommerso della povertà, della società dello scarto e dei dannati
della terra, il cui fiume è diventato il cimitero Mediterraneo».
SONO
QUELLI che si era ancora riusciti a tracciare nei successivi cicli di
discontinuità, «dal fordismo alla città fabbrica» fino al «postfordismo
dei distretti e delle piattaforme produttive» quando ancora si
sviluppavano saperi, competenze, conflitti, forme di rappresentanze
sociali, economiche, politiche, adeguate ai tempi delle dissonanze, ma
di cui poi si sono perse le tracce nel labirinto del «lavoro e dei
lavori nell’industria 4.0, del lavoro autonomo di prima generazione che
si fa maker, di quello di seconda generazione che si fa partita iva
terziaria e di quello di terza generazione uberizzato e messo al lavoro
nella dittatura dell’algoritmo». Caduti gli uni, quelli posizionati sul
fronte avanzato del tempo – quelli che dovrebbero «mangiare futuro» –
nella crisi della presenza di chi brancola «nel dilagare delle
opportunità inafferrabili»; gli altri, quelli che non si riconoscono più
in quello che gli era abituale, in un’elaborazione del lutto che «non
produce nostalgia consapevole ma depressione disperante».
SONO
LORO le componenti di una moltitudine che non produce soggettività ma
che, anzi, della crisi della soggettività è il prodotto (o il sintomo).
In qualche modo la forma. I conflitti cui darà origine, se ci saranno,
saranno conflitti ambigui – «sporchi», nel senso di non limpidi – in
qualche misura molto destabilizzanti e poco costituenti. Che tuttavia
come segni di vita dovranno essere colti, da chi non si arrende alla
dittatura dell’esistente. A noi, che ci chiediamo ogni giorno Che fare,
il libro indica la strada del mettersi in mezzo, lavorare a forme di
comunità di cura che siano anche operose, innestate nel tessuto della
società liquida diventata tossica, per tentare la via della
ricostruzione di brandelli almeno di legame ed evitare che tra
l’avvelenamento del sociale e il narcisismo del politico resti il vuoto.