il manifesto 23.12.18
Nella nuova era di Xi Jinping più stato che mercato
Cina.
Il discorso del "presidente eterno". «Efficienza» è il tema chiave
della prolusione di Xi nell’anniversario delle riforme di Deng Xiaoping.
Nel testo la parola «partito» ricorre 128 volte, «riforme» 87,
apertura» 67 e «mercato» 5
di Alessandra Colarizi
Un
paio di anni fa, in un incontro all’Università di Roma La Sapienza,
l’ex ambasciatore italiano in Cina Alberto Bradanini sintetizzava il
significato delle riforme cinesi in una sola parola: «efficienza». Non
necessariamente libero mercato né tanto meno un sistema politico più
democratico. Semplicemente di quel che meglio si adatta al paese.
Il
concetto di «efficienza» torna tra le righe del lungo discorso tenuto
dal presidente cinese Xi Jinping martedì scorso per commemorare il
40esimo anniversario delle riforme lanciate da Deng Xiaoping
all’indomani della rivoluzione culturale, quando la Repubblica popolare
era «sull’orlo del collasso economico». Definendo la rapida ascesa
cinese «un miracolo senza precedenti», il leader ha assicurato che il
gigante asiatico sosterrà le riforme economiche, ma non cambierà il
proprio sistema politico né permetterà ad altri paesi di dettare la
propria agenda interna.
Piuttosto, continuerà ad aggiornare il
proprio modello di sviluppo con quella stessa adattabilità/efficienza
che quest’anno ha permesso al regime cinese di superare per longevità
l’Unione Sovietica. Lo farà «rafforzando le aziende statali» e
«sviluppando l’economia privata», ma senza soddisfare nell’immediato le
richieste della comunità internazionale per nuove e più concrete
agevolazioni sui capitali esteri e l’imprenditoria privata che oggi –
pur contando per oltre il 60% del Pil e l’80% dei posti di lavoro – è la
vera vittima del connubio deleveraging – rallentamento economico.
Il presidente cinese Xi Jinping alla conferenza per il 40esimo anniversario della nuova politica di Deng (Foto: Ap)
D’ALTRONDE,
se la buona riuscita delle riforme si misura in «efficienza», finora il
«socialismo con caratteristiche cinesi» ha svolto al meglio la sua
funzione. Ma continuerà a essere così? Sono passati cinque anni da
quando il terzo plenum ha promesso più mercato e una ristrutturazione
dei monopoli statali. Sei da quando, appena nominato segretario generale
del Pcc, Xi visitò Shenzhen, la megalopoli del Sud scelta da Deng
Xiaoping come laboratorio per i primi esperimenti capitalistici.
Al
tempo, il viaggio parve suggerire una possibile attitudine liberale
della nuova amministrazione. Complici i precedenti paterni del nuovo
Timoniere. Come mette in rilievo l’agenzia Xinhua in un articolo dal
titolo Xi Jinping: The man who leads China’s reform into a new era,
negli anni ‘80 il padre Xi Zhongxun svolse un ruolo chiave
nell’istituzione della prima zona economica speciale come segretario
provinciale: «Il coraggio e il senso della missione del padre hanno
lasciato un’impressione profonda sul figlio».
Da allora tuttavia
alcune delle riforme strutturali avviate da Deng sono state
completamente smantellate: il limite dei due mandati presidenziali, la
leadership collegiale, la separazione tra partito e governo, e la
strategia del basso profilo in politica estera hanno lasciato il posto,
in casa, a un accentramento dei poteri nelle mani di un unico lider
maximo e a un maggiore controllo politico sull’economia privata.
All’estero, a un’assertività minacciosa, talvolta arrogante. L’immagine
di Deng è andata sbiadendo, relegata nelle retrovie dei complessi
museali dove oggi primeggiano con toni futuristici i successi della
Nuova Era firmata Xi Jinping.
QUANDO LO SCORSO ottobre Xi è
tornato a Shenzhen per battezzare una nuova megaregione economica nel
delta del fiume delle Perle, la portata simbolica della visita risultava
compromessa in partenza dall’appoggio al «ruolo insostituibile» dei
colossi statali rinnovato dal presidente durante una precedente
trasferta nell’ex Manciuria, la patria dell’industria pesante e
petrolifera cinese. Quella meno incline a rinunciare alle lusinghe
economiche del capitalismo di stato, dopo aver contribuito ad
ammortizzato la crisi finanziaria mondiale investendo e producendo
nell’interesse nazionale senza curarsi delle logiche di mercato.
Le
resistenze infatti non mancano. Se per Xi, il futuro riserva alla Cina
«pericoli inimmaginabili», secondo la stampa ufficiale «concetti
ideologici mal concepiti e meccanismi istituzionali stanno diventando un
ostacolo per le riforme e l’apertura». Mentre lo scenario
internazionale si via via fa più ostile, sfide anche più cruciali
provengono dalla scarsa popolarità riscossa in alcuni ambienti dalle
politiche muscolari e ultra-stataliste del «presidente eterno».
Lo
dimostra la rimozione dall’agenda 2018 del consueto plenum autunnale,
che per la liturgia del partito avrebbe dovuto fare da sfondo a grandi
annunci di natura economica. Negli ultimi mesi, le critiche sono
arrivate nientemeno che dai figli di Deng Xiaoping e Zhu Rongji,
l’artefice della ristrutturazione delle aziende di stato anni ‘90.
Auspicando
una maggiore unità, nel suo discorso Xi ha chiesto sostegno «alla guida
autorevole e centralizzata del Comitato Centrale del Pcc» affinché la
leadership del partito venga attuata in materia di riforma, sviluppo,
stabilità, affari interni ed esteri, difesa nazionale, partito, stato,
esercito e altri settori. Ben 128 sono le volte in cui è ricorsa la
parola «partito», più di «riforme» (87), «apertura» (67) e «mercato»
(5). Al contempo, la riabilitazione dei predecessori Jiang Zemin e Hu
Jintao – fin’oggi sacrificati in nome di una simbolica discendenza
diretta da Deng e Mao – parrebbe smascherare il bisogno di maggiore
coesione al vertice. E non solo.
«RIFORMA, sviluppo e perseveranza
non sono rari al mondo. Ciò che sorprende è il modo in cui la Cina ha
bilanciato perfettamente riforma, sviluppo e stabilità», spiega il
tabloid in lingua inglese Global Times, «ma mentre gli interessi interni
del paese si stanno rapidamente dividendo, diventa più difficile per il
popolo cinese raggiungere un consenso. In passato, quando le persone
erano relativamente povere, la priorità per la maggioranza era
migliorare gli standard di vita e accumulare ricchezza. Ma la
disuguaglianza economica porta alla divisione dei pensieri, rendendo più
difficile unire la società su questioni significative».