Il Fatto 23.12.18
Congo, rinvio elezioni Cina e Usa si dividono un Paese troppo ricco
Alle
urne il 30 dicembre - Incendiati i seggi elettorali Ma i candidati sono
solo comparse di un gioco più grande in cui oltre a Pechino e
Washington c’è anche l’Eni
di Massimo A. Alberizzi
Spostate
di una settimana le elezioni presidenziali nella Repubblica Democratica
del Congo: erano previste per oggi, invece si voterà il 30 dicembre. Il
ritardo è dovuto a un incendio che ha distrutto 8 mila computer per il
voto elettronico in attesa di essere distribuiti ai seggi. La
Costituzione prevede un solo turno. In lizza 21 candidati, molti dei
quali sconosciuti: prenderanno soltanto i voti della loro tribù.
In
pole position il delfino del presidente uscente, Joseph Kabila,
Emmanuel Ramazani Shadary, cofondatore del Parti du Peuple pour la
Reconstruction et la Démocratie (Pprd). Dall’altra parte, Felix
Tshisekedi, figlio di Etienne Tshisekedi, leader storico dell’Union pour
la démocratie et le progrès social, rimasto all’opposizione prima del
dittatore Mobutu Sese Seko e poi di Laurent Kabila e del figlio Joseph, e
Martin Fayulu, un uomo d’affari molto conosciuto.
La commissione
elettorale indipendente (ovviamente, solo un modo di dire) ha escluso
dalla competizione i due candidati più temibili per l’establishment:
Jean Pierre Bemba, ex signore della guerra e vicepresidente del Paese, e
Moïse Katumbi, ex governatore del Katanga. Katumbi, il cui padre è
italiano, ha tentato di rientrare dall’esilio il 5 agosto scorso per
poter registrare la sua candidatura entro la scadenza dei termini, l’8
agosto. Fermato alla frontiera gli è stato proibito l’ingresso.
Ma
gli attori sul terreno sono solo comparse. I veri protagonisti, dietro
le quinte, sono stranieri che guardano con ingordigia alle enormi
ricchezze del Paese. In Congo c’è tutto: minerali pregiati,
tecnologicamente importanti, diamanti, oro, coltan, cobalto, zinco,
rame, uranio e petrolio, solo per citarne alcuni. Le ricchezze, sparse
su un territorio grande come l’Europa, potrebbero permettere alla
popolazione di vivere a un buon livello di benessere. Invece poche
famiglie razziano e saccheggiano tutto. I soldati, i poliziotti, gli
impiegati degli uffici pubblici, i maestri e i professori, insomma gli
statali in genere ricevono i salari a singhiozzo. Nelle baraccopoli i
politici si muovono in giganteschi macchinoni. L’ostentazione di tanta
ricchezza genera ammirazione tra la gente. Pochi si curano di sapere da
dove viene e come sono state create simili fortune.
Joseph Kabila,
il cui mandato è scaduto da un paio d’anni (ha represso nel sangue
manifestazioni di protesta) ha designato il suo successore, Emmanuel
Ramazani Shadary. Il loro maggiore sponsor è la Cina e i grossi gruppi
imprenditoriali capital-comunisti. Ma il giovane presidente intrattiene
ottimi rapporti anche con Israele e in particolare con l’imprenditore di
diamanti e materie prima in genere, Dan Gertler, suo testimone di nozze
qualche anno fa. La critica più feroce che viene addossata a Kabila dai
suoi detrattori è di aver venduto il Congo a Pechino.
Martin
Fayulu è stato designato da un imprecisato numero di gruppi di
opposizione e dai due leader esclusi, Jean Pierre Bemba e Moïse Katumbi
che, non potendo partecipare, lo hanno scelto per rappresentarli e
rappresentare, soprattutto, gli interessi dei loro sponsor, americani e
occidentali in genere.
Gli schieramenti non sono così precisi e
distinti. Gli americani giocano su tutti i tavoli dell’opposizione e per
esempio l’Eni che ha interessi petroliferi nel bacino del lago Alberto,
a cavallo del confine tra Congo e Uganda, tifa per Ramazani. I
sudafricani sperano che Kabila e il suo delfino scompaiano dalla scena
politica. Sul terreno la partita delle risorse coinvolge anche Russia e
India e in campo c’è anche Nursultan Nazerbayev, il dittatore del
Kazakistan. Nell’est del Congo, zona di guerra permanente, si aggirano
milizie e uomini armati che parlano inglese con accento russo e hanno
gli occhi a mandorla. Controllano i luoghi dove ci sono le miniere in
concessione ai magnati ex sovietici, tra cui, appunto, Nazarbayev.