il manifesto 23.12.18
Come mai Gesù fu deposto proprio in una mangiatoia?
Storia
sacra, strenne. La grotta, la stella, il bue e l’asino... Nel suo
nuovo, affettuoso saggio su Il presepio (Einaudi) Maurizio Bettini
dipana, da antropologo, una iconografia tradizionale
di Giuseppe Pucci
Alla
fatidica domanda di papà Cupiello «te piace o’ presepio?» Maurizio
Bettini avrebbe risposto con un netto sì. L’ultimo libro del noto
filologo, scrittore e giornalista non lascia dubbi: Il presepio
Antropologia e storia della cultura (Einaudi «Frontiere», pp. 192,
19,00) è un saggio rigoroso ma anche un atto d’amore nei confronti di
una tradizione fortemente radicata nel nostro costume. Anche un laico,
anche chi – come confessa l’autore – da decenni ha interrotto l’antico
rito familiare, non può non provare nostalgia per quella «finzione
fragile» e «incantevole». Scriverne, dice, «è stato un po’ come tornare a
farlo. Quasi un atto riparatore, dunque, e insieme il tentativo di
«manifestare fedeltà» al se stesso di prima: al «bambino che ancora
abita in me», avrebbe detto l’autore del Piccolo Principe.
Il
filologo sfodera gli acuminati ferri del mestiere. Dei testi evangelici è
messa a fuoco la non perfetta coincidenza sulle circostanze della
Natività. Della stella parla Matteo, ma non Luca, della mangiatoia Luca
ma non Matteo. Della grotta, e soprattutto del bue e dell’asinello,
nessuno dei due. Ecco allora che Bettini dipana per noi la complessa
questione della formazione dell’iconografia tradizionale. La grotta, ci
spiega, la troviamo citata dal Protovangelo di Giacomo (II secolo d.C.) e
anche dall’apologeta Giustino; e a Betlemme già dal II-III secolo si
era creata una topografia della natività a uso dei pellegrini, ai quali
veniva mostrata la ‘vera’ grotta, completa di ‘vera’ mangiatoia. Ma
perché una grotta? Solo perché le mangiatoie stanno nelle stalle e le
stalle sono spesso delle grotte? No, il filologo, che è anche un
antropologo, ci ricorda che la grotta è un luogo che in varie culture è
associato alla nascita e/o al culto di una divinità: tra gli altri,
Mitra, Adone, Dioniso, Ermes, lo stesso Zeus. Degli ultimi tre, poi, si
dice che furono deposti in un líknon, sorta di canestro che serviva a
vagliare il grano. L’analogia con la mangiatoia di Gesù è evidente. Del
resto, ceste o altri singolari contenitori figurano spesso nei racconti
leggendari relativi all’infanzia di personaggi eccezionali, come Mosé,
Romolo e Remo, Cipselo, e perfino papa Gregorio Magno. C’è di più: Zeus,
dopo la nascita in una grotta del monte Ida, fu accudito da una capra e
un’ape. Quindi anche la presenza di due animali accanto alla mangiatoia
del Salvatore è anticipata dal mito classico. Il racconto della nascita
di Gesù ha in verità molto in comune con tante altre storie di bambini
meravigliosi, deposti in strani recipienti e protetti da animali
caritatevoli.
Ma perché a Gesù toccarono un bue e un asino? Come mai a
un certo punto comparvero accanto a lui queste figure che né Luca né
Matteo nominano mai? Potrebbe trattarsi di un banale desiderio di
realismo, o della persistenza di un antico modello culturale. Ma queste
spiegazioni non bastano al nostro autore, che da filologo e antropologo
si fa anche un po’ teologo. O meglio, ci fa considerare la questione dal
punto di vista di un teologo dei primi secoli del cristianesimo,
Origene, che leggeva le Scritture in chiave allegorica. Non aveva detto
Isaia «il bue riconosce il suo proprietario e l’asino la mangiatoia del
suo padrone»? Per il principio della ‘risonanza’ scritturale era logico
mettere in relazione la mangiatoia di Betlemme con quella di Isaia. E
dato che Isaia affermava che a riconoscere la mangiatoia del padrone era
l’asino, non il bue, per Origene il senso era chiaro: il bue, animale
puro che simboleggia il popolo di Israele, non aveva riconosciuto il
Messia; l’asino, animale impuro che simboleggia i Gentili, sì. Il bue e
l’asino, insomma, non fanno concretamente parte della vicenda, stanno lì
per farci vedere nella mangiatoia il segno dal quale tutti dobbiamo
riconoscere il nostro Signore.