il manifesto 23.12.18
La scienza non può sembrare un atto di magia
Intervista.
Un incontro con il fisico teorico Giorgio Parisi, nuovo presidente
dell'Accademia dei Lincei. «Aveva ragione Marcello Cini: la cosa più
interessante che abbiamo visto sulla Luna è stata la Terra»
di Andrea Capocci
Giorgio
Parisi, professore ordinario alla Sapienza, è uno degli scienziati
italiani più riconosciuti al mondo. Ha dato contributi originali e
fondamentali in diversi campi della fisica teorica, dalle particelle
alla meccanica statistica. I suoi studi sui sistemi magnetici
disordinati detti «vetri di spin» (in questi particolari materiali,
l’interazione fra atomi vicini è casuale e disordinata; sono stati usati
per spiegare i comportamenti del cervello, dei mercati finanziari,
delle proteine, ndr) hanno aperto un nuovo campo di ricerca con ricadute
in campi lontanissimi. Lo incontriamo nella sontuosa sede trasteverina
dell’Accademia a Palazzo Corsini quando ormai è sera e molti impiegati
sono già andati a casa.
Potrebbe sembrare una carica onorifica,
invece lei si sta impegnando molto nel nuovo incarico. Che indirizzo
vorrebbe dare all’Accademia dei Lincei?
L’Accademia ha già diversi
compiti istituzionali. Deve fornire pareri scientifici al Presidente
della Repubblica e diffondere l’alta cultura. A me piacerebbe rafforzare
questo compito, anche usando altri canali: il canale Youtube, per
esempio, può allargare la platea delle nostre conferenze. Mi piacerebbe
fornire dati accurati su tematiche che interessino anche il grande
pubblico. Penso a temi come le droghe leggere, su cui sarebbe utile
avere un quadro chiaro delle evidenze scientifiche sui danni a breve e a
lungo termine e sui risultati delle sperimentazioni legislative
adottate nei vari Paesi.
Nel discorso di inaugurazione ha affermato: «la scienza non deve presentarsi come una magia». Cosa intendeva dire?
Quando
la fata di Cenerentola trasforma una zucca in carrozza, parliamo di
magia perché non vediamo un nesso razionale tra la bacchetta e la
trasformazione della zucca. Ebbene, se nel presentare la scienza si
omettono i passaggi intermedi che trasformano un’idea in una verità
scientifica, il risultato potrebbe essere simile. Si tratta di rendere
chiaro il processo con cui si costruisce il consenso scientifico.
Altrimenti si diffonde il complottismo.
Per i suoi settant’anni,
l’università ha organizzato una conferenza dedicata ai suoi risultati
scientifici, a cui hanno partecipato scienziati di mezzo mondo. Qual è
quello più importante, secondo lei?
Innanzitutto, una serie di lavori
in fisica delle alte energie fatti con Guido Altarelli negli anni ’70
intorno alla natura dell’interazione forte dei quark (una delle quattro
forze fondamentali, ndr). Poi, negli anni ’80, sempre per i calcoli
sulla fisica delle particelle, realizzammo a Roma il primo
super-computer della serie «Ape».
Fu decisiva l’esperienza di Nicola
Cabibbo e la collaborazione con alcuni ottimi laureandi. Per un paio di
mesi Ape fu forse il computer più veloce al mondo. Ma i risultati più
rilevanti li ho ottenuti nel campo dei sistemi magnetici detti «vetri di
spin». Non lo capii subito, ma poi quelle scoperte hanno avuto
applicazioni in moltissimi campi, dalle reti neurali allo studio degli
algoritmi, dai sistemi granulari fino al «deep learning» che oggi si usa
nel settore dell’intelligenza artificiale. È il tema su cui lavoro
tuttora.
Esiste un argomento di cui avrebbe voluto occuparsi ma per il quale non ha ancora avuto l’occasione?
L’immunologia:
oltre alla curiosità per l’argomento, mi sembra un campo in cui poter
usare la «cassetta degli attrezzi» che mi sono costruito nel corso degli
anni. Me ne sono occupato per un breve periodo, ma non ho più avuto il
tempo di approfondire.
Partiamo dai suoi studi universitari: lei proviene da una famiglia di scienziati?
Mio
padre voleva studiare ingegneria. Ma si era diplomato da ragioniere.
Non superò l’esame di stato e quindi finì per laurearsi in Economia e
commercio. Fisica fu un’idea tutta mia.
Sui primi anni da studente, una volta ha scritto una frase divertente: «Nel 1968 arrivò il Sessantotto». Fu importante?
Quasi
nessuno se lo aspettava. È stato rilevante perché ha politicizzato
molte persone. Mi colpiva l’atteggiamento violento della polizia, le
cariche immotivate. Era una polizia abituata a controllare le
manifestazioni degli operai. Ma non sono sicuro che fosse più violenta
di quella di oggi.
Il suo impegno politico non si è fermato al 1968. Ha partecipato alla vicenda di Sinistra Ecologia Libertà…
Mi
sono impegnato molto tra il 2007 e il 2013. Non avevo una base
elettorale, ma mi sono speso finché ho fatto parte dell’assemblea
nazionale di Sel. Poi la sinistra italiana ha fatto un errore clamoroso.
Dopo la batosta del 2008, si parlò di un nuovo modo di fare politica,
di un’apertura alla società civile. C’era la possibilità di occupare lo
spazio che poi fu preso dai grillini. Ci si sarebbe dovuti presentare
come un partito diverso dagli altri, come poi è riuscito a fare il
Movimento 5 Stelle. La sinistra non ha colto un malumore popolare
enorme, chiamandolo con disprezzo «antipolitica». In realtà era una
richiesta di un nuovo modo di fare politica, ma quella finestra di
opportunità è stata persa. Poi ci sono state divisioni e
contro-divisioni rancorose poco appassionanti.
Giorgio Parisi
La politica ha influenzato il suo modo di essere scienziato?
Credo
che lo spirito del tempo condizioni ciò che pensano le persone. E che
la storia delle idee nella fisica non possa essere separata dal resto. È
innegabile che le avanguardie moderniste degli anni ’20 e ’30 siano
state influenzate dalla rivoluzione della meccanica quantistica, nel
loro voler gettarsi alle spalle la tradizione. Ma queste cose è più
facile vederle negli altri. Alla complessità ci sono arrivato un po’ per
caso. C’era un calcolo che non tornava, e cercai di risolverlo. Per
capirne il significato fisico e il legame con i sistemi complessi ci
sono voluti molti anni. Fu un tipico caso di «serendipità».
Dopo il
1968, i fisici della Sapienza hanno messo in discussione il ruolo
sociale della scienza: basti guardare al gruppo di Marcello Cini e del
libro «L’ape e l’architetto», che allora fece scandalo. C’è qualcosa di
quel dibattito che si può recuperare oggi?
Nel mio discorso di
insediamento ho citato quasi alla lettera una frase de L’ape e
l’architetto, ma nessuno se n’è accorto: oggi molte di quelle tesi sono
diventate patrimonio comune. Il rapporto tra la scienza, la società e la
tecnologia, ad esempio. Che gli scienziati siano immersi nel tessuto
produttivo è ormai scontato. Così come l’idea che lo spirito del tempo
influenzi anche il pensiero scientifico. O che la scienza vada avanti se
la società la sostiene, e non è detto che ciò avvenga.
Nel 1969 Cini
fu critico sullo sbarco sulla Luna, mentre tutti lo celebravano. Lei
all’epoca non era d’accordo con Cini, ma recentemente ha scritto che
aveva ragione…
Dopo il programma Apollo abbiamo smesso di andare
sulla Luna. Sembrava che saremmo andati sulla Luna a costruire una base,
come in un film di fantascienza. Invece, abbiamo raccolto reperti,
abbiamo collocato uno specchio per misurare la distanza con il laser e
poco più. Certo, abbiamo fatto delle bellissime foto al nostro pianeta. E
sono state molto importanti, perché ci hanno dato un’idea della reale
dimensione e della vulnerabilità del nostro pianeta. Per questo aveva
ragione Cini: la cosa più interessante che abbiamo visto sulla Luna è
stata la Terra.