il manifesto 23.12.18
I quarant’anni che sconvolsero il capitalismo
Cina.
Nel dicembre 1978 Deng Xiaoping lanciava l’epoca delle riforme e
aperture trasformando il paese nella seconda potenza mondiale. Negli
anni ’80 furono dismesse le aziende di stato, fulcro
dell’industrializzazione nel periodo maoista
di Simone Pieranni
Nel
dicembre 1978 Deng Xiaoping avviava le aperture e le riforme della
Cina, battezzando l’inizio di un periodo di trasformazioni storiche
colossali del paese, qualcosa che siamo sempre stati abituati a misurare
– per altri territori – nell’arco di secoli. Dobbiamo ricordare,
innanzitutto, cos’era la Cina nel 1978: un paese per lo più rurale e
povero, uscito dilaniato dagli eccessi della rivoluzione culturale. Allo
stesso modo, però, bisogna pure sottolineare le «basi» che il periodo
maoista aveva posto per una trasformazione così clamorosa del paese.
IN
OCCIDENTE SI TENDE spesso a far rientrare la Cina nella modernità
proprio grazie alle riforme denghiane, come se prima il paese fosse
ancora sprofondato nel medio evo. Insomma, si associa la modernità al
capitalismo. Su questo non pochi autori hanno tenuto a precisare alcuni
aspetti. Uno di loro è sicuramente Giovanni Arrighi. In Capitalismo e
(dis)ordine mondiale (a cura di Giorgio Cesarale e Mario Pianta,
Manifestolibri, 2010), Arrighi scriveva che le riforme denghiane si
sarebbero realizzate proprio grazie a due fattori: la «rivoluzione
industriosa» dell’Ottocento, termine preso in prestito da Kaoru
Sugihara, e la rivoluzione socialista.
La «rivoluzione
industriosa» consentì alle istituzioni di assorbire il lavoro delle
unità familiari, un tratto ancora molto comune in Cina (e nei cinesi
all’estero), all’interno di attività che contrariamente alla rivoluzione
industriale europea, premiavano la molteplicità dei ruoli, anziché la
specializzazione: le capacità manageriali, con un generale background di
abilità tecnica, erano attivamente sviluppate a livello familiare.
Fonte: World Bank, UN, Global Carbon Project, World Inequality Database. Elaborazione dati Afp
Il
secondo punto è la rivoluzione socialista che, secondo Arrighi, ha
permesso a questa eredità di non perdersi, ma anzi di essere
rivitalizzata e inserita nella narrazione rivoluzionaria: «se il
maggiore incremento nel reddito pro-capite della Cina è avvenuto a
partire dal 1980, il grosso del miglioramento dell’aspettativa di vita
degli adulti e, in misura minore, della loro alfabetizzazione, vale a
dire delle condizioni essenziali di benessere, è avvenuto prima del
1980».
E proprio le caratteristiche intrinseche della Cina,
premaoista, maoista e poi quella delle riforme, comportano, secondo
Arrighi, la possibilità che la nuova eventuale egemonia cinese possa
essere esercitata con modalità e caratteristiche diverse da quelle
passate. In questo caso siamo di fronte al dilemma dei dilemmi. Deng
coniò l’espressione «socialismo di mercato con caratteristiche cinesi»
per definire il modello che stava prendendo vita. Un modello sul quale
ancora oggi la letteratura si divide.
Secondo Arrighi, ad esempio,
una eventuale egemonia cinese si distinguerà dal passato per tre
fattori principali: in primo luogo riporterebbe a un equilibrio mondiale
il rapporto di potere tra gli Stati; si tratterebbe, poi, di uno
sviluppo pacifico e non militare; in terzo luogo potrebbe aprire –
sosteneva Arrighi – a nuovi modelli economici non necessariamente
«capitalistici».
RIMANE PERÒ UN DATO, all’interno del dibattito su
cosa sia oggi la Cina, dopo 40 anni di aperture: le riforme, oltre ad
aumentare considerevolmente le condizioni di vita medie dei cinesi e a
consentire l’iniziativa privata hanno creato nuove e potenti
diseguaglianze nonché problematiche legate all’ambiente. Le riforme,
infatti, si basarono sullo sfruttamento dei lavoratori, bassi salari e
alta intensità di lavoro, e furono un’operazione neoliberista, nel
momento in cui finirono per espellere dalle aziende di stato milioni di
lavoratori.
Lu Tu è una sociologa cinese; negli anni scorsi si è
finta operaia e ha raccolto le sue esperienze in un libro, Zhongguo
xingongren, mishi yu juechi, (I nuovi operai cinesi, un boom senza
identità, Pechino 2013). Lu Tu ha potuto osservare in presa diretta che
il processo di accumulazione capitalistico iniziato negli anni ’90, con
il colpo di grazia post 1989 – una vera e propria shock terapy nonché
«patto sociale» sancito con la forza dal Pcc di Deng, «arricchitevi» ma
al resto ci pensa il partito – ha dato vita a una nuova «sottoclasse
urbana», che ha inserito la Cina in un contesto capitalistico, seppure
protetto da un ruolo ancora primario dello Stato.
Un dato
inequivocabile – infatti – delle riforme, in relazione al lavoro, è
stata la campagna di privatizzazioni, iniziata da Deng e poi portata a
termine da Jiang Zemin, colui che ha sancito il cambiamento epocale
attraverso la teoria delle «tre rappresentanze» che giustificò
l’iscrizione in massa – già in corso – nel partito comunista, fino ad
allora composto in prevalenza da operai e contadini, di imprenditori
privati, di cui oggi Jack Ma, il fondatore di Alibaba, nata nel 1999 ed
esempio delle trasformazioni cinesi, è testimone.
Deng Xiaoping (LaPresse)
Le
aziende di stato erano state il fulcro dell’industrializzazione
maoista, pari a quasi quattro quinti della produzione non agricola. La
maggior parte di questi colossi erano situati nelle città, dove erano
impiegati circa 70 milioni di persone nel 1980. Il primo smantellamento è
cominciato nel 1988, dando luogo ai licenziamenti di massa alla fine
del 1990, quando, come scrivono Walker R. & Buck D. in The
Chinese road, Cities in the Transition to Capitalism (New Left Review,
agosto 2007) «il capitalismo cinese ha conosciuto la sua prima crisi di
sovrapproduzione, segnando una netta transizione dalla vecchia economia
della scarsità alla nuova economia del surplus». Il risultato fu
clamoroso: nei primi anni del 2000 l’occupazione nelle imprese statali
era stata dimezzata, 40 milioni di persone si ritrovarono senza la
tradizionale «ciotola di riso», simbolo e garanzia delle vecchie imprese
di stato.
PER QUESTO GRUPPO di individui, quasi sempre di mezza
età, si apriva la prospettiva di trasformarsi in quanto ha osservato Lu
Tu, ovvero una «sottoclasse urbana»: Dorothy Solinger in Social
Exclusion and Marginality in Chinese Societies (Hong Kong, 2013) spiega
che «invece dell’aumento dei livelli di istruzione e l’imborghesimento
di una larga parte della classe operaia come è successo in altri luoghi
in concomitanza con lo sviluppo economico, questa informalizzazione
dell’economia urbana ha rappresentato invece una regressione». E a
testimoniare un modello che ancora oggi prevede sfruttamento, ci sono le
proteste operaie, mai sopite e indomite, anche 40 anni dopo le riforme