il manifesto 23.12.18
La sfida illiberale all’ordinamento
Governo
sovranista. C’è un problema democratico in Italia, con un parlamento
afono costretto ad approvare la legge più importante in materia
economico-sociale senza avere neppure il testo scritto dei provvedimenti
varati. Dalle punte più sensibili della cultura liberale si è dipanata
la più seria dichiarazione critica sulle condizioni della repubblica e
sul degrado della dignità della rappresentanza. C’è invece un vuoto e un
silenzio nel sindacato e nella sinistra
di Michele Prospero
Al
popolo la chiusura dei porti, al potere lo scalpo del parlamento:
questo è il contratto proposto in queste ore dal cosiddetto governo del
cambiamento. C’è una subalternità politica, sociale e culturale che
impedisce però la comparsa di una vera opposizione allo scempio
democratico.
In tanti si attardano nell’esercizio di appurare
quale dei due partner dell’esecutivo sia meno pericoloso. Quanto sta
accadendo nel simulacro del parlamento scioglie ogni dubbio
interpretativo.
Le due forze al potere convivono agevolmente con
le loro apparenti differenze perché entrambe le sigle incarnano una
lettura illiberale della democrazia. Essa prevede forzature a principi
essenziali, così preziosi che meriterebbero in loro difesa una risposta
di massa, paragonabile a quella che in altri tempi il Partito comunista
italiano ha saputo organizzare dinanzi alle aggressioni ai cardini
dell’ordinamento costituzionale.
C’è un problema democratico in
Italia, con un parlamento afono costretto ad approvare la legge più
importante in materia economico-sociale senza avere neppure il testo
scritto dei provvedimenti varati. Al senato le parole più limpide, sul
ruolo ormai solo decorativo lasciato alle Camere, sono venute da Emma
Bonino. Dalle punte più sensibili della cultura liberale si è dipanata
la più seria dichiarazione critica sulle condizioni della repubblica e
sul degrado della dignità della rappresentanza. E dalle corde più
avanzate del cattolicesimo sociale promana la denuncia del continuo
strappo costituzionale, in merito ai diritti fondamentali della persona,
operato dal governo in nome della sicurezza e del sovranismo.
Liberali
e cattolici fanno sentire la loro presenza. C’è invece un vuoto e un
silenzio nel sindacato e nella sinistra, dove il sentimento
dell’impotenza pratica dopo la sconfitta diventa anche smarrimento del
pensiero e quindi annuncio di una perdita di funzione storica. Eppure la
situazione è trasparente nella sua gravità.
Già a Piazza del
Popolo, con i gesti, con l’atteggiamento, con i toni, con le metafore
Salvini ha lanciato una sfida totale all’ordinamento. Con il rito che
recuperava grotteschi scenari da anni Trenta, ha chiesto alla piazza
l’autorizzazione a trattare con le perfide burocrazie di Bruxelles, in
nome di 60 milioni di italiani.
Scambiare la propria folla
obbediente, per l’intero corpo della nazione omogenea e univoca, che
concede una procura senza limiti al «capitano» quale unica incarnazione
della volontà generale, è una provocazione esplicita, lanciata verso la
civiltà liberale, che non ha trovato efficace risposta.
Il leader
del partito che ha più volte sfidato l’azione penale delle toghe per i
titoli di reato previsti contro chi minaccia l’integrità territoriale
della repubblica, ha osato anche avvicinarsi alla folla con addosso le
uniformi della polizia di Stato. Il leader del partito dalla ancora
fresca memoria secessionista (che permane nella rivendicazione di una
autonomia differenziata delle regioni ricche del nord), e dalle velleità
di edificare parlamenti padani, ha scambiato la polizia democratica per
un surrogato della milizia verde.
Il capo di un partito dalla
finanza allegra, che deve restituire alle casse del fisco 49 milioni, ha
indossato nei suoi spostamenti anche i panni delle fiamme gialle. Il
«capitano» cerca l’acclamazione della folla passiva, si propone al
pubblico come la volontà unica di un popolo intero che gli ha conferito
un potere sostitutivo, si fa scudo con la divisa della polizia e la
getta come segno di una aspettativa di conformistica fedeltà alla
volontà di potenza personale di un interprete dell’umore della gente. La
manovra del popolo, scritta dal governo della felicità, è in realtà uno
schiaffo contro il popolo reale, alle sue istituzioni di
rappresentanza, ai valori del costituzionalismo.
All’ombra del
premier esecutore, l’esperienza di governo tra Lega e M5S non si
configura affatto come un incidente occasionale. Nel bicolore esiste una
convergenza profonda di culture politiche, di linguaggi, di stili, di
mentalità, di referenti. Tra il «capo politico» di Maio, che esprime il
lato dannunziano-fiumano del non-partito di piazza e di balcone, e il
«capitano» Salvini, che nella mistica dell’ordine sovranista si esibisce
con la divisa della polizia di Stato, se «ne frega» dell’Europa, e
appende sul petto come «medaglie» al valore le inchieste della
magistratura, le sfumature non sono tali da rigettare la condivisione
strategica di un percorso dal volto illiberale.
Non sorprende che
ben presto il clima patriottico della nazione (sotto)proletaria in
guerra contro i perfidi rappresentanti della straniera potenza
teutonica, si sia trasformato nella resa più completa agli imperativi
dei «tecnocrati di Bruxelles».
Alla ritirata senza gloria, fa
seguito una accelerazione che suggerisce l’oltraggio alle istituzioni
della repubblica parlamentare. Cos’altro occorre ancora vedere per non
riconoscere nel populismo di sistema la caricatura e il cattivo odore
delle più ridicole storie di ieri?