il manifesto 1.12.18
Una libertà per tutti gli ex luoghi manicomiali
di Franco Rotelli
In
un bellissimo libro fotografico dal titolo rievocativo Asylum, qualche
anno fa Cristopher Payne ha pubblicato più di duecento immagini, di
sorprendente potenza, riprendendo facciate ed interni di grandi (a volte
immensi) ospedali psichiatrici americani, dismessi e abbandonati verso
la fine del secolo scorso.
Negli anni Cinquanta erano quasi
seicentomila gli internati negli ospedali pubblici degli Stati Uniti.
Qualcuno capace di cinquemila posti letto.
Le immagini potenti di
luoghi vuoti, a volte di grande bellezza architettonica, si alternano
alle foto di infinite suppellettili, indumenti, oggetti d’uso della
quotidianità abbandonati come all’improvviso, come in un macabro
racconto di Stephen King. In effetti il vento formidabile del liberismo
non fu certo meno potente di una devastante generale epidemia.
Nessun
nobile intento nella politica di deospedalizzazione selvaggia
dell’epoca laggiù, ma l’incontro tra una versione dissennata
dell’antipsichiatria e l’abbandono di qualsiasi forma (anche perversa)
di protezione sociale dei più deboli. Ancora oggi strade della
California, Los Angeles, S. Francisco, ospitano quel folto popolo
disperso, espulso dai falansteri giudicati alla fine solo inutilmente
costosi.
Italia 1978: la legge 180 decide del destino a termine
degli ospedali psichiatrici. Per tutt’altri motivi, dentro un nuovo
paradigma, rovesciando il passato remoto e prossimo. Erano settanta e ci
vollero vent’anni e un nuovo ministro, Rosy Bindi, per vuotarli davvero
in un lento percorso tra pratiche nobili e ignavie colpevoli.
Qualcuno
ha voluto chiedersi che ne è di quei luoghi. A Trieste, Giancarlo
Carena ha curato un convegno con tante voci, un incrocio di architetti,
storici, sociologi, psichiatri, giornalisti, paesaggisti, cittadini.
Con
nobili intenti e ammirevole attenzione vent’anni fa la Fondazione
Benetton aveva esteso a tutto il Paese una ricerca, producendo una
cartografia dei settanta compendi che doveva stimolare l’attenzione al
loro destino da parte dei pubblici poteri. Comprensori spesso di grande
pregio architettonico, collocati sovente in aree pregiate delle città,
potenzialmente dedicabili come beni comuni a usi ben più apprezzabili di
quello prodotto dalla nefasta (grandiosa) utopia dei costruttori dei
manicomi.
In molte città quei luoghi hanno ancora un nome potente
non dissolto. S. Maria della Pietà, Paolo Pini, San Salvi, S. Giovanni,
il Romcati, il Sant’Orsola San Servolo e San Clemente il Frullone il
Bianchi, Collegno San Lazzaro, Monbello, Colorno, Nocera Volterra,
Aversa, Girifalco, Castiglione, nomi di intere cittadine o di siti
entrati nel linguaggio comune come stereotipi evocativi tuttora di
quell’identità (e dei relativi fantasmi). Pochi casi di rigenerazione
totale: Treviso, S.Clemente e poco d’altro, parziale recupero a S. Maria
della Pietà e pochi altri. In molti casi o per gran parte dei singoli
compendi, su di loro è davvero sceso una sorta di inverno perenne. Da
Genova Quarto a Colorno, al Pini, da Pesaro a Napoli incuria abbandono:
«non si sa bene di chi è», «non si sa bene che farne», si mescolano ad
una qualche epochè di chiara matrice. Per vari anni le Amministrazioni
locali avevano qua e là anche immaginato che «a da passà a nuttata» e
che questa follia italiana avrebbe dovuto tornare ben presto sui suoi
passi e quei luoghi avrebbero, per forza di cose, e di ragione, dovuto
tornare al loro destino.
Poi è prosperata, condita dalla cattiva
fama dei siti, l’ignavia ormai paradigmatica italiana delle opere che
non si fanno mai, al massimo si progettano, non vanno mai a gara, se
vanno a gara si ricorre, e alla fine non ci sono più né interesse né
quattrini per fare..
La struggente bellezza e potenza degli
edifici storici di Quarto, gli infiniti spazi del San Salvi a Firenze,
il parco del Pini a Milano restano popolati di ombre del passato e di
qualche struttura di second’ordine delle aziende sanitarie.
Ma non
è neanche breve la lista delle azioni di resilienza e delle pratiche
buone che si giocano li.. Come non citare lo straordinario lavoro
politico del teatro di Claudio Ascoli e di collettivi giovanili nel San
Salvi di Firenze, il dinamismo imprenditorial culturale di Olinda e di
Thomas Emmenegger al Pini di Milano, il lavoro teatrale di Claudio
Misculin a Trieste, il Quarto Pianeta a Genova… Ma poi, a Trieste il
Parco culturale di S. Giovanni: il Museo dei bambini, Il Posto delle
Fragole, la cooperativa Lister, le sedi eleganti dell’Azienda sanitaria,
dell’Università e del Comune, Teatro, bar, laboratori culturali e le
seimila rose parlano davvero d’altro, mantenendo vivo un luogo normale e
anomalo, bello e ancora potente, rinnovato pur ancora con sue forti
ferite.
In Italia musei e archivi un po’ ovunque, forse troppi e
dispersi; disperse le pratiche anche se il filo rosso di un pensiero
divergente, unisce tanti posti diversi.
Potrebbero essere molti di
più. Per una più ricca ed aperta “normalità” per dei luoghi che qui
qualcuno ha definito antropoietici, produttori di umanità.
Il
Convegno è stato un ricco e riuscito invito a architetti, urbanisti,
giovani artisti, associazioni, cooperative, amministratori pubblici a
occupare questi straordinari spazi, farli uscire dalla penombra,
onorarne la memoria con usi rovesciati. Parchi culturali che facciano di
maggior libertà la propria bandiera, perché questi luoghi,
testimoniando in concreto la restituzione alla società di tutto quello
che veniva negato chiudendolo dentro, ci ricordino sempre che, come sta
scritto da quarant’anni sul muri di uno di essi «La libertà è
terapeutica».
Per realizzare un segnale forte di tutto questo
Domenico Luciani, padre nobile di una grande idea di recupero, invita
tutti a ritrovare memoria di pertinenti leggi sugli usi civici e i beni
comuni. Evocando la comunità responsabile che potrebbe, come prevede
quella legislazione, assumere il governo di questi straordinari
patrimoni di storia, cultura e urbana ricchezza.