il manifesto 1.12.18
Nel paese innamorato di Salvador Allende
Cinema. «Santiago, Italia», il nuovo film di Nanni Moretti, racconta il golpe nel Cile del ’73 ma si rivolge all’Italia di oggi
di Silvana Silvestri
C’è
ancora chi ti domanda se in Cile ci siano problemi con la dittatura. In
quel paese lontano geograficamente, nel tempo e nell’immaginario è
tornato Nanni Moretti, ci chiedevamo perché proprio adesso che sembra
così inattuale, non fosse per la sua consolidata democrazia, per avere
avuto la prima donna presidente del latinoamerica, per essere oggi «la
pantera» economica del continente. Nanni Moretti fa del suo viaggio un
attualissimo intervento politico, specchio dei nostri tempi, rivolto a
raccontare attraverso la storia qualcosa che non deve ripetersi. Ne fa
una materia pulsante di vita e, senza quasi dare indicazioni, mostra
come sia fragile la democrazia se non la si difende. Ci fa vedere in
prospettiva come eravamo rispetto a come siamo diventati, come indica la
dicotomia del titolo (Santiago,Italia). Oltre che l’amicizia tra i
popoli indica anche un’allerta.
Se del documentario il film
utilizza tutti i materiali come le interviste, gli spezzoni delle
cineteche, delle televisioni e degli archivi, perfino talvolta la voce
fuori campo, del cinema possiede la capacità di creare un’aspettativa
crescente, di rendere emblematici i suoi personaggi, espanderne le
parole nell’immaginazione, avanzare a colpi di scena, fare intravedere i
fantasmi della Storia.
EPPURE quegli eventi si conoscono, tanti
sono stati i film, molti li hanno vissuti: evidentemente non abbastanza
se l’occidente intero flirta oggi con la destra, che non cambia mai. Non
cambia soprattutto neanche in Cile, dove non solo i militari sotto
processo si professano innocenti esecutori di ordini, ma strati della
popolazione si dichiarano ancora di parte senza alcun dubbio.
Con
un perfetto bilanciamento di materiali, anzi di etica cinematografica,
la parola è data ai tanti militanti che vissero la stagione della
dittatura, ben inquadrati e illuminati come veri protagonisti della
storia, testimoni di episodi cruciali a cominciare dall’euforia del
periodo di presidenza di Allende («era un paese innamorato») che
Patricio Guzmán riprende nel suo film El Primer Año. Chi sono quegli
imprenditori, operai, avvocate, giornaliste, educatrici, diplomatici che
di fronte alla cinepresa raccontano in italiano i loro ricordi dell’11
settembre del ’73? Ognuno di loro ha una storia interessante, alcuni si
riconoscono, altri la sveleranno nel momento chiave del racconto.
INIZIALMENTE,
come prologo di una tragedia ecco le conquiste del primo paese
socialista al mondo democraticamente eletto, con le politiche di
alfabetizzazione, scuola gratuita e latte per i bambini,
nazionalizzazione del rame e la brusca reazione della destra che riesce a
bloccare il paese, dal commercio con il mercato nero, al
fiancheggiamento della stampa fino alla potente macchina da guerra della
Cia.
Nel film l’ultimo discorso del presidente assume un valore
di testamento: «Non ho la vocazione del martire, voglio compiere una
funzione sociale e non farò un passo indietro». Che sia stato
assassinato non lo ha sostenuto solo Miguel Littin, quello di Allende è
stato il più spettacolare assassinio in diretta della storia.
Mentre
si susseguono le testimonianze, si sente per la prima volta
l’intervento del regista con una sua domanda che fa ammutolire di
commozione l’intervistato, un imprenditore a cui chiede «come guardi i
tuoi anni di militanza?», e il silenzio che indica un grande conflitto
interiore è rotto dalla considerazione inaspettata: «Non mi sono mai
posto questa domanda» e sarà il primo indizio di una chiamata a
raccolta.
POI ARRIVANO i racconti della rapidità del golpe, dello
stadio dove sono ammucchiati i prigionieri politici (tra cui Guzmán e
Paolo Hutter di Lotta Continua, Antonio Arevalo allora giovanissimo poi
diventato l’addetto culturale del Cile), di Villa Grimaldi. La voce di
Nanni Moretti prima appena accennata nelle interviste, si torna a
sentire nell’incontro con un militare convinto di aver salvato il paese
(«il paese era sull’orlo della guerra civile e del resto Allende era
stato eletto solo con il 36% dei voti»). E comparirà sullo schermo
inaspettatamente in una dura scena girata in carcere a sovrastare un
altro militare condannato che si proclama innocente e minimizza («in
Argentina sono morti in 30mila, in Cile solo in 3mila»).
L’AMBASCIATA
italiana a Santiago diventa il momento chiave del film, là dove molti
dei personaggi intervistati trovarono rifugio scavalcando il muro di
cinta (su questo eroico episodio Daniela Preziosi, Tommaso D’Elia, Ugo
Adilardi realizzarono nel 2006 il documentario Calle Miguel Claro 1359),
con racconti che nel passare del tempo ha assunto anche toni divertiti a
dispetto dell’azzardo, del pericolo: l’Italia che non ha mai
riconosciuto la giunta, aveva in sede i diplomatici De Masi e Toscano
che decisero di accogliere a centinaia giovani, donne, intere famiglie
di militanti, (e i bambini giocavano nel giardino a «el esiliado y el
policia»), poi forniti di salvacondotto per l’Italia dove sono stati
accolti con solidarietà per anni, la valigia sempre pronta per tornare.
Immagine di un’Italia sparita.