il manifesto 1.12.18
Messico, inizia l’era Obrador detto «l’uovo del serpente»
Una
svolta storica. Così lo appello il Subcomandante Marcos. Si inaugura
oggi la nuova presidenza, guidata da Andres Manuel Lopez Obrador che
promette la “quarta trasformazione” del paese dopo l'indipendenza di
Hidalgo, la riforma
di Roberto Zanini
Il
1. dicembre finisce “el año de Hidalgo, chingue a su madre el que deje
algo”. E non c’entra il padre della patria Miguel Hidalgo, a cui era
dedicato quel brindisi che invitava a non dejar algo, non lasciare nulla
nel bicchiere. C’entra la peculiare tradizione messicana per cui ogni
politico al termine del mandato saccheggia tutto il saccheggiabile,
dall’ultimo grande appalto ai rubinetti del bagno, e poi chiude la porta
– se non ruba anche quella. Negli ultimi cinquant’anni l’año de Hidalgo
è diventata prassi politica consolidata, diritto consuetudinario, poco o
per nulla perseguito perché fino a poco tempo fa presidente uscente ed
entrante appartenevano allo stesso partito, il favoloso ossimoro
chiamato Partido revolucionario institucional. È andata così per 70
anni. Ora si cambia, dicono. È arrivato Andres Manuel Lopez Obrador.
La
biografia del nuovo presidente del Messico e quella del suo drammatico
paese raccontano bene l’evoluzione di una politica iniziata scrivendo
pagine di storia e finita nella cronaca nera, l’ammaloramento di una
rivoluzione. Quando Andres Manuel Lopez Obrador nasce nel ’54 a Tlalpan,
nello stato meridionale di Tabasco, il Messico a suo modo socialista
forgiato da Lazaro Cardenas ha una ventina d’anni, le multinazionali del
petrolio sono state cacciate e i pozzi nazionalizzati, la democrazia
autoritaria del partito-stato Pri è in pieno sviluppo. Quando il giovane
Obrador si laurea in scienze politiche esiste un solo partito, il Pri, e
il tabasqueño prova a farlo suo. Non ci riuscirà. Quando nel 1988 il
figlio di Lazaro Cardenas, Cuauhtemoc, abbandona il Pri ormai
inguardabile e fonda la speranza democratica, il Prd (Partito della
rivoluzione democratica), Obrador è tra quelli che lo seguono, non tutti
armati di oneste intenzioni.
Nel 1990 Cardenas junior sfida
l’establishment alle presidenziali, l’uomo del Pri è Carlos Salinas de
Gortari, forse il peggio che il vecchio Partito rivoluzionario abbia mai
espresso. Nella notte si contano i voti, Cuauhtemoc è in testa… e salta
la luce. Caida del sistema è l’eufemismo con cui il Pri battezza il suo
primo enorme broglio elettorale: quando torna la corrente Salinas è
primo e lo resterà. I riformatori ci riprovano nel 1994, mentre il
Messico è sconvolto dalla crisi economica, l’”effetto tequila”
terrorizza i mercati mondiali e il Pri è ormai diventato un mostro il
cui dibattito politico si svolge a rivoltellate: il candidato
riformatore Colosio viene freddato a colpi di 38 special durante un
comizio, pochi mesi dopo sparano e uccidono il presidente del partito
Ruiz Massieu, la paura riempie le urne del Pri e alla presidenza sale lo
sconosciuto Ernesto Zedillo, selezionato con la vecchia pratica del
dedazo ossia indicato a dito dal presidente Salinas, ormai in fuga verso
gli ospitali Stati uniti.
Nel Tabasco, a Obrador accade come a
Cardenas: è in testa in ogni sondaggio ma dalle urne esce il priista
Roberto Madrazo. Un altro broglio e non sarà l’ultimo, mentre sui monti
del Chiapas si affaccia un diverso tipo di speranza, porta passamontagna
e fucile ma spara poco e parla molto, il suo portavoce diventa un’icona
planetaria. Si fa chiamare Subcomandante Marcos.
Nel 2000
Cuauhtemoc ci riprova ma è una candidatura esausta, e il Prd ha
imbarcato tali e tanti riciclati da esserne geneticamente modificato.
Non servono neanche i brogli, contro un Pri a sua volta esausto la
spunta l’uomo della destra liberista, il dirigente della Coca Cola
Vicente Fox, e il suo Pan (Partido de accion nazional). Dopo
settant’anni il Pri cede la presidenza e sembra chiudersi una storia
iniziata con Pancho Villa e Emiliano Zapata. Ma Fox non è politicamente
così diverso dai predecessori.
Obrador intanto si è candidato a
governatore del Distrito federal, il territorio della capitale Città del
Messico. Dall’enorme metropoli viene un quarto del pil del paese, vi
risiedono 9 milioni di messicani e altri milioni nella cintura urbana.
Obrador vince, e bene. Ormai lo chiamano Amlo oppure el peje, dal
curioso e bruttissimo animale che popola le acque salmastre del Tabasco,
il peje lagarto, qualcosa tra ittico e rettile dall’aspetto
paleolitico. È una consacrazione, ma di quelle difficili. Al lavoro alle
6 del mattino, ogni mattina. Abolita l’auto blu, si sposta su una
vecchia Nissan. Si riduce lo stipendio. Vara piani di welfare per gli
anziani e di scolarizzazione per i giovani, traccia autostrade in
quell’incubo urbano che è il traffico di Città del Messico – è proprio
in quegli anni che dalla Volkswagen di Puebla esce l’ultimo escarabajo,
l’immortale Maggiolino i cui fumi non catalizzati avvelenano la capitale
a decine di migliaia – e progetti di restauro del magnifico e
disastrato centro storico, in collaborazione con il re delle
telecomunicazioni Carlos Slim, uno che da solo vale il pil di uno stato
minore del G20.
Nel 2005 si dimette per affrontare le
presidenziali. Di fronte ha di nuovo Roberto Madrazo, come sedici anni
prima nel Tabasco, e lo spento panista Felipe Calderon. Ed è subito
broglio: con una progressione aritmetica perfetta i 10 punti di
vantaggio del primo rilevamento diventano cinque, tre, uno… Nella notte
Calderon chiude davanti di mezzo punto. È una truffa e lo sanno tutti,
ma ormai è pratica diffusa e sdoganata: poco più a nord, qualche anno
prima, a Al Gore era accaduta la stessa cosa.
Lopez Obrador ci
riprova nel 2012, più moderato, tanto che il Subcomandante Marcos in uno
dei suoi lunghissimi articoli lo definisce “l’uovo del serpente”, un
neoliberista travestito – ma non è più il Marcos che portava un milione
di militanti nell’enorme zocalo capitalino, la piazza centrale di Città
del Messico. Amlo riperde contro i soliti noti, e non serve a niente
portare in tribunale le carte di credito prepagate Monex con cui il Pri
ha comprato un bel po’ di voti per il suo uomo, Enrique Peña Nieto: la
sentenza (colpevoli) arriverà solo nel 2017. Ma Obrador non l’ha attesa.
Dopo
l’ennesima sconfitta fraudolenta dice addio al Prd, arma un vero grande
movimento di protesta, organizza un governo parallelo, trasforma
l’associazione civica Morena (Movimento di rigenerazione nazionale) in
un partito vero e proprio e ingaggia una battaglia contro la corruzione,
il potere sopraffattore della politica, l’ingombrante presidente degli
Stati Uniti. Mentre i narcos messicani instaurano un sanguinoso
feudalesimo che liquida l’esercito schierato dal presidente Peña Nieto –
oltre 30mila morti lo scorso anno, mai così tanti, tanti quanti i morti
dell’intera dittatura militare in Argentina – el peje batte il paese
volando in classe turistica, spostandosi in camper e autobus, senza
altra scorta che l’autista di turno.
Questa volta è una marcia
trionfale, mai nessuno aveva vinto con tanto margine, non c’è broglio
che tenga, in parlamento Morena ha la maggioranza e Lopez Obrador
promette la “quarta trasformazione del Messico” dopo l’indipendenza di
Hidalgo, la riforma di Benito Juarez, la rivoluzione di Villa e Zapata.
Tutte rivolte armate.