il manifesto 16.12.18
D’Alema: «Noi, la sinistra che ha smesso di criticare il capitalismo»
Democrack. D’Alema ai vent’anni di Italianieuropei. Lettera di Zingaretti: il nostro futuro si intreccerà
di Daniela Preziosi
«C’è stata una sconfitta culturale, noi, la sinistra, abbiamo cessato di essere diffidenti e critici nei confronti del capitalismo. Abbiamo perduto lo spirito critico che aveva animato a lungo la sinistra». Quella di Massimo D’Alema al convegno per i vent’anni della Fondazione e della rivista Italianieuropei è l’autocoscienza di una generazione politica che ha perso la battaglia «ingloriosamente, senza lottare»: ha visto nella globalizzazione il potenziale di crescita ma non si è attrezzata a combattere la parallela ed esponenziale crescita delle diseguaglianze.
«Abbiamo colpevolmente confuso liberalismo con liberismo» dice Mario Hubler, segretario della Fondazione. Goffredo Bettini più tardi parlerà di «cedimento morale» del fronte socialdemocratico, ricorderà il Blair della seconda guerra di Libia come emblema di «una desolante deriva». (Parentesi: dall’89 in avanti c’è stata un’altra sinistra critica con la svolta del Pci, con la globalizzazione, i cedimenti e le guerre. Qui non viene ricordata, forse essa stessa è dimentica di sé, ma questa sarebbe un’altra storia e chiudiamo la parentesi).
SOTTO LA LENTE DI D’ALEMA quegli anni novanta in cui al governo dell’Europa a 15 stati c’erano quasi solo socialisti. Oggi che «la crisi dell’Europa è crisi di progetto», «dove abbiamo sbagliato?». «Siamo stati profeti disarmati», si risponde. Le socialdemocrazie non hanno saputo dotare ai cittadini «il potere europeo», insomma un’Unione democraticamente scelta. Ed ora i sovranisti raccolgono questa giusta esigenza. Serve una «proposta di ’sovranismo europeo’, un radicale cambiamento. Se invece saremo solo il volto buono dell’establishment l’elettorato non avrà pietà di noi». Ma la scelta «burocratica» dei socialisti (e del Pd) di ricandidare alla presidenza della commissione europea l’ex vice di Junker non va in questo senso, ammette Andrea Orlando.
«UN NUOVO PATTO tra i cittadini e l’Europa» è il fuoco delle relazioni della mattina, quella della ricercatrice del Cnrs francese Anne-Laure Delatte, che affronta l’analisi del «manifesto per democratizzare l’Europa» proposto dall’economista Thomas Picketty; e quella della filosofa Donatella Di Cesare. Sala affollatissima per tutte le sei ore di interventi, parterre de roi, molti ex Pci, oggi variamente posizionati. Siamo al Rome Hotel Life, era la sede dei Ds, dopo la ritirata da Botteghe Oscure: «Tornare qui è un’emozione fortissima», dice Livia Turco.Va in scena il disgelo fra i dem impegnati nelle primarie Pd, tendenza Zingaretti – ci sono Andrea Orlando e Goffredo Bettini – e la «Ditta». Ma c’è anche Mario Tronti, il padre dell’operaismo italiano, Bersani, Vendola e Laura Boldrini, lei titolare di una proposta esplicita «di una lista comune alle europee». C’è unanimità sulla necessità di «ricostruire», leggasi tornare insieme. «Questa festa di compleanno sembra un congresso», scherza Gianni Cuperlo. «È perché abbiamo tutti voglia di fare un congresso insieme», replica a tono D’Alema. «Dopo il 4 marzo abbiamo perso un anno, tutti a sinistra, senza fare un congresso», sferza Antonio Bassolino sommerso dagli applausi: ce l’ha con i traccheggiamenti Pd ma anche quelli di Leu. «A me sembra una direzione dei Ds», chiosa Roberto Speranza. Che oggi a Roma terrà l’assemblea di superamento della sua Mdp. Titolo: «Ricostruzione». Appunto. «Bisogna ricostruire un campo politico o non conteremo più nulla in futuro», è la tesi di D’Alema. E di «campo unitario di tutte le sinistre» parla Bettini.
IL CANDIDATO ALLE PRIMARIE PD Zingaretti non c’è, forse per evitare una foto fra ex che rischia di virare in seppia. Ma il messaggio che invia all’ospite è chiaro: «Sono certo che ci saranno con te e con la Fondazione altre occasioni per confrontarci e intrecciare i nostri pensieri politici e le nostre proposte per il futuro».
C’È ANCHE L’EX CANDIDATO Minniti. Siede in prima fila, il suo intervento è nel programma. Ma si fa nero in volto quando la professoressa Di Cesare scandisce: «Come si può combattere la xenofobia e il criptorazzismo e poi abbandonare i migranti nei campi libici? Abbiamo inseguito le politiche delle destre, non siamo stati in grado di roversciarne la narrazione sui migranti». Applausi. Poco dopo Minniti se ne va. Ai cronisti che lo inseguono dice: «Ho il mal di schiena».
OLTRECHÉ SULL’EUROPA (tutti dicono no al fronte repubblicano di Calenda per dire no a quello di Renzi) gli interventi si intrecciano anche sulla strategia del dialogo con i 5 stelle per «disarticolare» il governo giallo-verde: «Nel Pd il congresso è fra chi non ci vuole fare il governo e chi non ci vuole parlare», ragiona D’Alema. Invece si deve: «È politica, è buonsenso. Non si può non parlare con chi, milioni di nostri ex elettori hanno scelto come propri rappresentanti. Come con la Lega nel ’94». Nel Pd basta la parola «M5S» per scatenare la polemica. Ma all’ineluttabilità di quel dialogo, prima o poi, credono anche Cuperlo, Orlando e Bettini.
Il Fatto 16.12.18
Come si fabbrica la cattiveria
di Furio Colombo
Che rapporto può esserci tra un’Italia che vuol dare subito un reddito ai più poveri e un’Italia, la stessa, che caccia con ruspe e truppe armate quelli ancora più poveri dai rifugi “di fortuna” che si erano trovati? Che legame si può trovare tra un’Italia che vuol essere creduta e rispettata e la frase umiliante “Prima gli italiani” che racconta di gente rozza e prepotente, che vuole comunque passare avanti non per merito ma per “razza”? Come non vedere che non si può volere il reddito di cittadinanza per evitare che qualcuno patisca la fame e poi decretare la fame quotidiana per i bambini non italiani delle scuole di Lodi?
Quando qualcuno protesta, sia pure il procuratore Capo di Torino, il ministro dell’Interno gli grida subito: “Prima si faccia eleggere”. È una frase dal significato misterioso perché, da un lato, ci sono diversi compiti e diritti che consentono di prendere la parola e, dall’altro, c’è la Costituzione che dà quel diritto a tutti, non solo alla casta. Ma a questa casta adesso appartiene, con evidenti brividi di ebbrezza, lo stesso ministro degli Interni che maltratta il procuratore e poi si guarda intorno soddisfatto. Visto che adesso posso?
In caso di obiezione sullo strano comportamento, l’esuberante leader della casta del cambiamento risponderebbe ancora una volta: “Fatti eleggere prima di parlare”. Giusto. Infatti Mimmo Lucano, di Riace, era stato regolarmente eletto dai suoi cittadini alla carica-simbolo di tutte le cariche elettorali: il sindaco. Ma eletto o non eletto, il sindaco non aveva detto la cosa giusta. Non in questa Italia del cambiamento. Il più eletto di tutti aveva una sua idea dei profughi e migranti (salvarli tutti, accoglierli tutti), che non coincideva con l’idea di lavorare insieme con i torturatori libici instaurata prima dal ministro Minniti, e poi, con energia raddoppiata, dal nuovo leader della casta, della Lega e del ministero dell’Interno. E allora il sindaco è stato arrestato. Dopo l’arresto, benché senza imputazioni, è stato allontanato dalla sua città, con l’obbligo di non ritornare, come si fa con i sindaci in odore di mafia.
Giunge notizia che varie facoltà italiane di Giurisprudenza, e in alcune scuole di Legge in Europa, abbiano dato vita a seminari (forse a “master”) sui fatti di Riace, per spiegare come si possa esiliare senza imputazione un sindaco eletto. Oppure come si riesca a lasciar trascorre mesi (tutto è cominciato il 2 ottobre) senza consentire a un cittadino eletto e incensurato di difendersi e – data l’assurdità della vicenda – tornare a governare, in base al voto ricevuto e tuttora in assenza di reato.
Negli stessi giorni l’ex capo di Gabinetto della sindaca di Roma Raggi dovrà prepararsi per i tre anni di reclusione a cui è stato condannato per reati compiuti mentre era accanto al sindaco e nel rapporto politico più stretto. Certo, si trattava di governare Roma con decenza e non di fermare in mare rifugiati e immigrati da consegnare subito ai campi di tortura libici. Per incorniciare gli eventi occorre ricordare che all’inizio di tutto questo massacro giuridico e costituzionale che ha travolto l’Italia c’è la legge Bossi-Fini, sulla quale ancora ora si misurano i “reati” degli “stranieri” e si riempiono le carceri italiane, già strapiene, di persone che non sanno neppure di che cosa sono imputate.
Chiude la scena, e l’esistenza di una civiltà italiana, la Legge detta della Sicurezza, approvata in un giorno, che invece riguarda quasi solo l’immigrazione. Questo scambio malevolo basta per creare una cattiveria automatica che non potrà non orientare la burocrazia e i suoi funzionari, persino quelli inclini a comportarsi con umanità. E naturalmente servirà a orientare al peggio i cittadini. Tutto, in questa legge, ti fa capire che sarai apprezzato solo se neghi, perseguiti, insulti, maltratti e arrivi con la ruspa (simbolo della nuova Italia del cambiamento), dopo aver tagliato o abolito ogni aiuto o contributo alla sopravvivenza. Importante è non voler sapere, dove dare un tetto a chi viene cacciato in piena notte e nonostante la presenza di molti bambini. Sulla strada i rifugiati, diventando illegali, “disturbano” i cittadini. E i giornali, con uno spunto di fierezza annunciano la nuova “stretta” o il nuovo “pugno di ferro” sugli immigrati.
Il Censis ci ha avvertito che siamo diventati cattivi. È avvenuto seguendo l’esempio e le regole di chi ci governa. Una giovane studiosa americana che ha trascorso mesi in Italia (questa Italia cattiva descritta con costernazione dai ricercatori e da Amnesty International) racconta come è nata la tragedia del linciaggio in America, dopo che i neri non più utilizzabili per il lavoro (fine dello schiavismo) sono stati abbandonati, poveri e senza casa, per le strade d’America.
il manifesto 16.12.18
Libertà di stampa e pluralismo il governo torna all’attacco
Editoria. Una rappresaglia senza precedenti che premia gli oligopoli editoriali. A rischio 10 mila posti di lavoro
di Roberto Ciccarelli
I Cinque Stelle hanno ripresentato l’emendamento assassino della libertà di stampa e del pluralismo nell’editoria. Quello che porta in calce la firma del capogruppo Stefano Patuanelli è stato segnalato in commissione Bilancio al Senato e contiene un testo rimodulato, come già annunciato dal sottosegretario all’editoria Vito Crimi (M5S), rispetto a quello prima presentato, e poi ritirato alla Camera che prevedeva l’abolizione dei contributi pubblici all’editoria dal primo gennaio 2020. Ora il testo prevede nel 2019 un taglio dei contributi diretti ai quotidiani e periodici pari al 20% del fondo calcolato sulla base della differenza tra l’importo spettante e 500 mila euro. Nel 2020 il taglio salirà al 50%, nel 2021 sarà del 75%. L’azzeramento è previsto dal 2022. A partire dal 2020, è prevista inoltre l’abrogazione della legge 230 del 1990 sui contributi alle imprese radiofoniche private che svolgono attività di informazione di interesse generale. Questa norma penalizzerà gravemente Radio Radicale.
TRA I QUOTIDIANI nazionali coinvolti ci sono Libero, Avvenire, Italia Oggi, il manifesto, il Foglio. Tra quelli locali ci sono il Roma-Giornale di Napoli, il Corriere di Romagna, la Voce di Rovigo, Cronache Qui Torino, Latina Oggi, Ciociaria Oggi, Il Quotidiano del Sud. Contro il taglio è intervenuto sette volte il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, due la presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati. Il presidente della Camera Roberto Fico (M5S) resta in silenzio. Negli ultimi due mesi sono state molto dure le critiche dei sindacati Fnsi e Stampa Romana, dell’ordine dei giornalisti, della federazione della stampa cattolica (Fisc), della Federazione italiana liberi editori (File), dell’Alleanza delle cooperative.
La Lega aveva preso inizialmente le difese del pluralismo nell’informazione.
Ieri Salvini ha cambiato registro e ha attaccato «Avvenire»: «I suoi milioni di contributi potrebbero aiutare un disabile in difficoltà. Chi non vende perché scrive cose strane troverà altri lettori. Penso che la libertà di stampa debba corrispondere alla libertà del mercato e alla fiducia dei lettori».
Una provocazione perché le politiche per la disabilità sono finanziate attraverso il fondo per le politiche sociali, acui il governo destina solo 100 milioni all’anno per i prossimi tre che non recuperano i tagli. È una rappresaglia contro il quotidiano critico con le politiche sull’immigrazione di Salvini. Alla base c’è il pregiudizio liberista per cui l’interesse dei lettori coincida con quello del mercato.
E che se i giornali non vendono significa che i lettori scelgono altri più competitivi. È una falsità, considerato che la crisi delle vendite riguarda tutti, a cominciare dai grandi quotidiani. In questione è il grande, e irrisolto, problema della rete, almeno in Italia.
L’EMENDAMENTO taglierà 60 milioni di euro circa, mettendo in crisi il lavoro di almeno mille persone, tra giornalisti e poligrafici, senza contare gli indotti, calcolati in diecimila posti di lavoro circa. A questa potenziale crisi sociale si dovrà rimediare con gli enti di categoria e, soprattutto, con le finanze pubbliche. Questo risultato è, per ora, occultato nelle dichiarazioni pubbliche dello stesso ministro del lavoro e sviluppo Luigi Di Maio, il cui compito dovrebbe essere in teoria quello di tutelare il lavoro e, semmai, provare a crearlo.
Più importante dell’economia materiale è la propaganda ispirata a quella che George Orwell in 1984 chiamava «bispensiero»: la capacità di affermare un fatto e il suo contrario. In questo caso, in nome del pluralismo, si vuole annientare il pluralismo. Al di là di questi paradossi si creerà un nuovo esercito di precari, cassintegrati e disoccupati.
Il presidente della regione Molise Donato Toma ieri ha rinnovato la richiesta di un tavolo di confronto tra le regioni e il governo «per scongiurare il pericolo che molte testate finiscano sul lastrico e siano costrette a chiudere». Contro la chiusura di Radio Radicale è intervenuto Francesco Minisci, presidente dell’associazione nazionale magistrati (Anm): «Auspichiamo che possa proseguire la sua opera di servizio pubblico» ha detto. A dire di Di Maio questo esito sarebbe evitato «dando loro tempo di accelerare l’azione rivolta alla raccolta pubblicitaria». Non emerge, al momento, l’intenzione di riformare il mercato pubblicitario.
IL GOVERNO Lega-Cinque Stelle farebbe in questo modo l’interesse dei grandi editori. Come ha ricordato la File nessun grande giornale riceve i contributi. Anzi, a questi soggetti «sempre più in crisi di copie e di inserzionisti fa gola il bacino di pubblicità delle piccole testate». Se il tentativo di cancellare la residuale tutela contro un mercato dominato da oligopoli andrà in porto, il governo favorirà questi grandi gruppi. Si dice populismo, si legge capitalismo.
il manifesto 16.12.18
Pluralismo dell’informazione, appello a Giuseppe Conte
Illustrissimo Presidente
ci rivolgiamo a Lei per chiederLe di intervenire per un ripensamento urgente del Governo da Lei presieduto, rispetto ai tagli indiscriminati di risorse del Fondo per il Pluralismo e l’innovazione dell’informazione.
Tagli di risorse che il suo Esecutivo, stando a diverse dichiarazioni di suoi esponenti, si appresterebbe a formalizzare in uno specifico emendamento all’interno della Legge di Bilancio in discussione al Senato.
Autorevoli esponenti del suo Governo hanno annunciato pubblicamente tagli immediati, con effetto dal 2019, del finanziamento pubblico a valere sui giornali cooperativi e delle altre realtà no profit, e l’introduzione di tetti al disopra dei quali scatterebbe una diminuzione percentuale del contributo spettante alle imprese.
Se questo corrispondesse al vero si determinerebbe, Illustre Presidente, non solo un uso distorto della Legge 198 del 2016, visto che si andrebbero ad introdurre trattamenti diversi rispetto a quanto in essa contenuto, ma si affermerebbe una volontà unilaterale, tramite la quale, senza alcun confronto con le associazioni di categoria, si andrebbero a modificare o calpestare uno dei principi fondamentali della Costituzione Italiana.
Il Fondo per l’editoria è nato con l’intento di dare dimensione generale e programmatica, nei tre anni successivi alla sua costituzione, alle imprese cooperative e non profit del settore, consapevoli tutti che, nel delicato ambito dell’informazione, non possa essere, certamente, il mercato il solo regolatore della tenuta delle imprese.
È per questo, Presidente, che ci rivolgiamo a Lei affinché possa porre rimedio rispetto a misure che andrebbero immediatamente a colpire in modo diretto diverse testate locali e nazionali.
Di fronte a scelte che si rivelerebbero molto gravi e con conseguenze drammatiche sulla tenuta delle testate cooperative e non profit e sull’occupazione, diretta e indiretta, nel settore le nostre associazioni rivolgono a Lei, Illustrissimo Presidente, così come già fatto in un recente incontro con il Sottosegretario Crimi, l’appello per ritirare l’emendamento riferito ai tagli all’editoria, avviare con urgenza un Tavolo di confronto con tutte le categorie impegnate nella filiera editoriale dell’informazione per ricercare, a partire dalla Legislazione attuale, ogni possibile miglioramento sul terreno del rigore, della trasparenza e dell’’innovazione.
Un Tavolo aperto e di merito con le diverse Associazioni e Categorie economiche della filiera che affronti il tema di che cosa modificare, di come modificare e in quali tempi.
Risulta a noi necessario avviare subito questo confronto sulla attuale Legge sull’Editoria per aumentare la certezza, il rigore, la trasparenza e l’innovazione, ma anche per individuare gli strumenti per la promozione di nuove e giovani realtà informative che possono ridare voce indipendente a tanti territori del Paese che ne sono ormai privi di fronte ai fenomeni di concentrazione in atto nel mercato dell’informazione e dei media.
Se la normativa attuale viene giudicata dal suo Governo come “da cambiare” siamo certi che comprenderà come, però, testate cooperative e non profit, presenti da anni in tante aree del Paese, non possano ritrovarsi improvvisamente, già a partire dal 2019, a far fronte, in pochi giorni, a tagli drastici ed immediati che andrebbero a colpire la loro capacità di tenuta.
Se il tema sottolineato dal suo Governo si connette, poi, ad un rinnovato bisogno di modalità del contributo per garantire che esso sia erogato in modo sempre più rigoroso, trasparente e selettivo verso le imprese cooperative e non profit del settore, le scriventi associazioni sono le prime a voler contribuire a questa nuova fase.
La nostra è una volontà, certo, di tutelare e di fornire l’indispensabile supporto alle realtà esistenti, ma, nel contempo, quello di sostenere nuove realtà che intendano operare, su carta o online, in radio e tv locali, con competenze, qualità e passione, per affermare nelle esperienze quotidiane e nel rapporto con le comunità, la funzione sociale e di interesse pubblico del “pluralismo dell’informazione”.
In una situazione già particolarmente difficile per l’intera filiera editoriale e di fronte a fenomeni crescenti di concentrazione nazionale ed internazionale (in logica di più accentuata cross-medialità), risulta per le scriventi Associazioni sempre più evidente come siano necessarie politiche di sostegno, dirette ed indirette, da parte dello Stato, connesse al pluralismo e alle politiche industriali, che siano in grado di rivisitare gli attuali strumenti normativi per renderli in grado di corrispondere a queste nuovi scenari di cambiamento a tutela della tenuta della filiera editoriale, di una più ampia pluralità di voci al suo interno e della sua qualità, ma anche a sostegno e tutela delle migliaia di lavoratori che in questa filiera sono quotidianamente impegnati.
Meno giornali, meno liberi: ogni testata che scompare è un danno ed un’offesa per la nostra democrazia!
È solo, quindi, con la necessaria gradualità e misura che si può procedere verso cambiamenti normativi che consentano, però, come più volte per altro ribadito dal sottosegretario Crimi, di non penalizzare e compromettere la continuità delle cooperative e delle altre realtà non profit.
Per questo confidiamo sul Suo impegno a rinviare i tempi di applicazione di ipotesi di tagli dei Fondi al 2020 per creare le condizioni rapide per un confronto serrato sul merito dei cambiamenti da proporre alla attuale Legge che potrebbe, crediamo, vederci tutti, parte pubblica, cooperative, altre realtà no profit, privati, impegnati per costruire nel 2019 soluzioni adeguate ed innovative di sostegno all’intera filiera editoriale.
Alleanza delle Cooperative Comunicazione, File, Fic, Uspi auspicano, infine, che possa essere da Lei accolta la richiesta di un incontro urgente e costruttivo con le scriventi nel merito dei temi sollevati e delle conseguenze gravi per la tutela del pluralismo, la tenuta delle imprese e dell’occupazione nel settore che potrebbero determinarsi se il Governo intendesse procedere nella direzione annunciata.
Firme
Alleanza delle Cooperative Italiane Comunicazione
Federazione Italiana Liberi Editori
Federazione Italiana Settimanali Cattolici
Unione Stampa Periodica Italiana
Corriere 16.12.18
l’incubo banlieue da noi
«Il tradimento delle periferie»
di Goffredo Buccini
L’allarme di Causin, (FI), presidente dell’ex commissione che nella scorsa legislatura ha indagato sulle periferie e sul loro degrado: «Il governo ha tolto 1,6 miliardi di euro attribuiti a queste aree».
Se fosse una soap?
«Potremmo chiamarla: il tradimento delle periferie».
Non le sembra eccessivo?
«No, no, rende bene. Tutto va nella direzione di promesse mancate che non solo il governo ma anche una certa cultura populista avevano assunto verso chi vive in determinate realtà».
Andrea Causin sorride amaro. Veneto di Mogliano, 46 anni, imprenditore, questo senatore di Forza Italia è stato nella scorsa legislatura presidente della commissione parlamentare che sulle periferie e sul loro degrado ha indagato per dodici mesi, con centinaia di audizioni, decine di missioni e una relazione finale di 600 pagine sottoscritta da tutte le forze politiche, senza divisioni di fazione né polemiche.
Cosa è rimasto di tutto questo?
«È rimasto un documento che ha disvelato per la prima volta alle istituzioni e al Parlamento la condizione di quindici milioni di persone toccando l’economia, la sicurezza, l’ambiente, le infrastrutture, i servizi: in una parola, una straordinaria fotografia dell’Italia che rischia però di rimanere in un cassetto».
In quel documento voi raccomandavate un programma di interventi di dieci anni da un miliardo l’anno, gestito da un’agenzia nazionale ad hoc e con una tassazione specifica. Qualcuno dell’attuale esecutivo vi ha chiesto lumi?
«Assolutamente no. E siccome la commissione ha svolto il suo lavoro nel consenso unanime, mi sono meravigliato che queste valutazioni non siano state poi trasmesse ai tecnici e ai leader per valutare misure conseguenti».
Vicepresidente della sua commissione era la pentastellata Laura Castelli, che adesso è sottosegretario all’Economia. Nemmeno lei ha dato seguito al vostro lavoro?
«La mia stima verso di lei era e resta enorme. Le sono estremamente grato perché senza il suo impegno appassionato non avremmo raggiunto quei risultati. Le ho riparlato un paio di volte e credo che la sua sensibilità rimanga intatta. Posso stupirmi che tutto ciò non abbia prodotto nulla nell’esecutivo, ma resto un suo fan».
C’erano proposte di legge per ricostituire la commissione...
«Non sono neppure state calendarizzate».
Com’è andata la storia del miliardo e 600 milioni attribuiti alle periferie e svaniti in questa legislatura?
«Erano assegnati dal governo Renzi alle città che avessero partecipato al Bando periferie. Il Milleproroghe li ha differiti sine die , di fatto cancellandoli, per metterli in un calderone».
Differiti, non cancellati...
«Differire di tre anni un finanziamento dove esiste già un rapporto firmato nella pubblica amministrazione vuol dire togliere i soldi. La politica è fatta di atti: questo governo li ha tolti. E c’erano interventi molto significativi, tra i quali Scampia a Napoli e Corviale a Roma».
I Cinquestelle dicono ci fosse un problema di costituzionalità, le Regioni non erano state coinvolte.
«La Costituzione per i governi in carica è poco più che una gomma americana che si allunga, giustificando ciò che si fa o non si fa. È un modo pilatesco di celare una volontà politica».
E tuttavia le nostre periferie non sono le banlieue francesi, terra di coltura del terrorismo islamista.
«Abbiamo ancora una decina d’anni di margine sulle banlieue, anche perché la struttura della nostra immigrazione è diversa da quella francese o belga. Ma stiamo sprecando questo vantaggio. Serve subito un piano di riqualificazione che renda più semplice muoversi nell’economia legale piuttosto che nell’illegale. Oggi la regola è l’assenza di regole».
C’è davvero margine di recupero?
«Sono un ottimista, le periferie sono anche luoghi straordinari, piene di giovani. Penso che la maggior parte degli italiani sia gente perbene. Ma se a questa gente togli lo Stato, allora monta la rabbia, attecchisce il messaggio populista. Questa è stata la constituency di Lega e Cinquestelle».
Moda passeggera?
«Taxi elettorale, diciamo. Molti hanno pescato brani interi della nostra relazione e li hanno messi nel programma prima del 4 marzo. Poi è finito tutto. Ma se lei va a farsi due passi in periferia si accorge che non è cambiato nulla, anzi le cose vanno peggio di prima».
I populisti non rischiano di pagare caro un abbandono delle periferie?
«Non nel breve. Chi si è insediato da poco dice sempre che la colpa è dei predecessori. E questo in parte è anche vero. La difficoltà delle forze politiche tradizionali nel rispondere a temi come l’immigrazione, l’insicurezza e la qualità dei servizi ha avuto un prezzo elettorale enorme. Però, se vinci le elezioni su questi temi, puoi essere credibile per sei mesi o un anno, poi è finita. Se Lega e Cinquestelle continueranno a non dare risposte, pagheranno un dazio enorme. E la nostra democrazia con loro. Da cittadino non me lo auguro».
Quale può essere nelle periferie l’effetto della legge Salvini sull’immigrazione?
«Rischia che 600 mila invisibili diventino un milione. Un bel boomerang. Servono più forze dell’ordine ed emersione dall’illegalità».
Ma se va così male il connubio con Di Maio, perché voi di Forza Italia non avete mai prospettato a Salvini l’arma «fine di mondo», cioè la rottura nelle giunte local?
«Nella politica d’un tempo sarebbe stato l’A-B-C. Ora non so se ci si arriverà. Ogni giorno Salvini è meno leale con noi. Oggi è prematuro porre la questione delle giunte, ma alle amministrative del 2020 penso occorra discuterne a tutti i livelli. La mia però è un’opinione personale, io sono piccola cosa. Dovrà chiederlo al presidente Berlusconi».
Il Fatto 16.10.18
Il movimento giallo in politica vale il 41%
Intenzioni di voto - Se presentassero una lista alle europee toglierebbero voti alla Le Pen e Mélenchon
di Salvatore Cannavò
Il 41% dei francesi sarebbe disposto a votare per una lista dei Gilet gialli. Lo conferma un sondaggio Ifop realizzato su un campione rappresentativo della popolazione ed effettuato tra il 5 e il 6 dicembre subito dopo le manifestazioni più violente che hanno scosso la Francia. Si tratta ovviamente di una stima e di un sondaggio e il 41% rappresenta la somma tra coloro che “certamente” voterebbero una tale lista, il 13% e coloro che la voterebbero “probabilmente”, il 28%. Ma sembra sufficiente a far capire la portata del movimento che ha costretto il presidente della Repubblica, Emmanuel Macron, a rimangiarsi una misura, la tassa sul carburante, e a promettere nuovi interventi a favore dei redditi più bassi, per quanto insufficienti a ribaltare la situazione.
La traduzione politica aiuta a capire che movimenti di grande rabbia sociale, come quella che si è espressa in tutta la Francia ormai per cinque settimane consecutive, costituiscono una rottura dell’ordine costituito, quello in chiave liberale e dominato dall’austerità. E da questo punto di vista indicazioni utili vengono dalla composizione sociale del movimento. A rispondere senza esitare alla domanda “ti identifichi con i Gilet gialli”, è il 17% di tutti i francesi, mentre il 51% dichiara di sostenerlo. Il 68% dei francesi, dunque, è dalla parte dei manifestanti.
Tra coloro che si identificano immediatamente sono i disoccupati e gli operai a rispondere con più trasporto: la quota di queste due figure sociali infatti sale al 31% e supera quella dei lavoratori indipendenti, 29%, o quella di coloro che vivono nei comuni rurali, 25%. E se tra gli immedesimati, la percentuale tra uomini e donne è sostanzialmente la stessa, 18% uomini e 17% donne, quando si passa a coloro che fanno il tifo, quindi ai sostenitori esterni, sono le donne a superare gli uomini con il 54% contro il 47. Disoccupati, operai, donne e della Francia rurale, a Parigi solo l’8% si immedesima con il movimento dei Gilet gialli.
Il movimento si esprime chiaramente contro il centro politico. Se il totale di coloro che voterebbe per una lista dei Gilet è del 41%, la percentuale sale al 65% tra i sostenitori di Marine Le Pen ed è comunque alta, 56%, tra quelli che stanno con Jean Luc Mélenchon che non a caso hanno sostenuto la protesta, ma che potrebbero essere i primi a pagarne una traduzione in chiave elettorale.
Una Francia che, come sottolinea David Graeber, professore alla London School of Economics, e ritenuto uno degli ideologi di Occupy Wall Street, contesta “il centro politico” cioè la fusione “atroce” tra la burocrazia e il mercato e il suo universalismo razionale che, non a caso, esclude i lavoratori e i ceti marginali. Graeber interviene in un forum pubblicato dal quotidiano Le Monde che ospita anche le considerazioni dello storico Pierre Rosanvallon, il quale parla della rivolta come espressione della “società dei piccoli disprezzati” in cerca non solo di una risposta economica, ma della “dignità”. Per questo Rosanvallon utilizza l’espressione “rivolta dei sentimenti senza portavoce”, la rabbia rappresenta la chiara percezione di essere considerati ai margini del sistema politico e sociale e questo esprime una rivolta della “folla” polverizzata in cui il portavoce è il singolo o la singola che non possiede partiti, stampa o istituzioni. Un popolo che resta fuori dai confini dell’architettura istituzionale e politica codificata all’interno delle linee guida europee e di cui Macron rappresenta l’immagine intoccabile.
il manifesto 16.12.18
Ungheria, «la legge schiavitù ci riporta agli anni ’60»
Intervista. Károly György, responsabile delle politiche europee della Maszsz, la Confederazione dei Sindacati Ungheresi, mette in guardia: «I lavoratori dipendenti saranno messi in uno stato di subordinazione definitiva al datore di lavoro»
di Massimo Congiu
BUDAPEST Sono giorni che sindacati e lavoratori ungheresi manifestano contro la legge sugli straordinari che innalza il tetto a 400 ore annue. Una misura che comporterebbe una settimana lavorativa di sei giorni o oltre dieci ore giornaliere per cinque giorni. Gli straordinari sarebbero facoltativi ma è difficile che i lavoratori si oppongano a richieste di lavoro extra, per paura di essere licenziati. Le recenti dimostrazioni di piazza, cui hanno partecipato anche gli studenti universitari, sono state caratterizzate da frequenti momenti di tensione e colluttazioni che hanno provocato il ferimento di numerose persone. Per mettere a fuoco la situazione abbiamo incontrato Károly György, responsabile delle politiche europee della Maszsz, Confederazione dei Sindacati Ungheresi.
È stata definita “schiavista” o “legge schiavitù” dai sindacati e dai lavoratori che prevedono un peggioramento della già difficile situazione, ma quali sono gli aspetti più deteriori di questa legge?
L’aspetto peggiore di questa legge è che crea un ulteriore squilibrio nel rapporto tra datore di lavoro e lavoratore dipendente, a favore del primo. È inoltre altrettanto evidente che questa legge finisce con l’asservire i lavoratori dipendenti rendendoli schiavi del lavoro, mettendoli in uno stato di subordinazione definitiva al datore di lavoro. Quando il dipendente riceve la richiesta di fare del lavoro extra è difficile che si opponga, perché ha paura di perdere il lavoro e perché sente di essere in una situazione ricattatoria. Questa legge ci riporta indietro agli anni Sessanta, quando si lavorava anche il sabato. Ricordo che, da bambino, l’unico giorno in cui la famiglia si riuniva veramente era la domenica.
Quale è la situazione del mondo del lavoro in Ungheria?
Da una parte c’è un relativo basso livello di disoccupazione, che attualmente risulta essere di circa 3,7%, ma in questo computo il governo tiene conto anche dei lavoratori precari e degli ungheresi che lavorano all’estero. Dall’altra c’è scarsità di manodopera: 500mila-600mila lavoratori ungheresi sono andati all’estero. Nelle regioni orientali del paese non ci sono posti di lavoro, nel settore industriale e in quello commerciale non c’è abbastanza forza lavoro. Per rendere più completa la descrizione del mercato del lavoro ungherese si deve anche parlare di mancanza di manodopera qualificata e soprattutto di salari non adeguati al costo della vita. Il salario medio netto, secondo le statistiche più recenti è di 240mila fiorini ossia 750-760 euro, il salario minimo netto è di 285 euro. Il livello minimo di sussistenza è di 283-284 euro.
Questo governo non si distingue quindi per sensibilità nei confronti dei lavoratori…
Il governo dice di voler creare una società basata sul lavoro, questo è quanto il primo ministro sostiene. Si tratta di una cosa nota agli italiani e alla loro storia, mi riferisco all’Italia dei primi anni Trenta, quella governata da Benito Mussolini. Nello stesso tempo le disposizioni vigenti in Ungheria nel mondo del lavoro, quelle contenute nel Codice del Lavoro entrato in vigore nel 2012, non sono certo favorevoli ai lavoratori dipendenti e quello che succede oggi non fa che confermare questa tendenza.
Come ha reagito, finora, il sindacato a tutto questo e cosa intende fare per opporsi alla politica adottata dal governo Orbán nel mondo del lavoro?
Manifestiamo giorno dopo giorno, lo scorso 8 dicembre c’è stata una prima manifestazione di protesta organizzata dal mondo sindacale. Domani (oggi, ndr) ci sarà una nuova dimostrazione. Inoltre nei giorni scorsi ci sono state iniziative in tutto il paese per bloccare il traffico e rendere ancora più visibile la nostra protesta. Tutte queste iniziative vanno avanti sostenute anche dagli studenti che sono i lavoratori di domani. Ieri (15/12) László Kordás si è recato alla residenza del capo dello Stato per consegnargli una lettera contenente la richiesta di rinviare al Parlamento la legge, ma non è stato ricevuto. Intendiamo poi rivolgerci alla Commissione europea per denunciare il carattere di questa legge che lede le direttive sull’orario di lavoro. Tra le diverse organizzazioni sindacali si è istituito un coordinamento che valuterà le iniziative da realizzare nel mese di gennaio, in quanto la legge dovrà entrare in vigore il primo del mese prossimo. Ma se il capo dello Stato dovesse rinviare la legge al Parlamento la sua entrata in vigore slitterebbe.
Qual è stata finora la reazione dei lavoratori e dell’opinione pubblica, in generale, a questa legge?
Dall’indagine che abbiamo realizzato risulta che l’86% dei lavoratori è contro questa disposizione. Secondo un altro sondaggio effettuato questa settimana emerge che l’81% della popolazione è dello stesso parere. Del resto questa legge è stata approvata senza una vera consultazione preliminare con le parti interessate. Questo emendamento, presentato come mozione individuale, ha dato luogo a un uso distorto delle procedure parlamentari in quanto, come ho già precisato, non ha presupposto una consultazione vera e propria. Si tratta di una prassi che Orbán ha seguito ampiamente in questi ultimi anni.
Repubblica 16.12.18
La manifestazione a Vienna
"Basta razzismo" c’è un’Austria che va in piazza contro Kurz
«Il razzismo non è un’opinione».
«Vogliamo un’altra Austria» Sfidando le temperature glaciali di Vienna, ieri diverse migliaia di persone sono scese in piazza nella capitale austriaca per protestare contro le politiche sull’immigrazione del governo di destra guidato da Sebastian Kurz. La marcia, convocata da diverse organizzazioni di sinistra, e alla quale - secondo gli organizzatori hanno partecipato più di 50mila persone, ha segnato il primo anniversario dall’arrivo al potere, un anno fa, della coalizione formata dai conservatori del giovane cancelliere e dalla formazione di estrema destra, il partito della Libertà, che ha messo in atto una politica molto repressiva nei confronti dei migranti e ha approvato una legge - molto contestata - che porta a 60 ore l’orario lavorativo settimanale. In piazza c’era anche Andreas Schieder, che guiderà i socialdemocratici austriaci alle prossime elezioni europee.
il manifesto 16.12.18
Yehoshua e l’identità sgretolata
Romanzi israeliani. La demenza senile che ha colpito il protagonista dell’ultimo libro di Abraham B. Yehoshua ha un suo correlativo oggettivo nel conflitto medio-orientale: «Il tunnel», da Einaudi
di Massimiliano De Villa
Zvi Luria è un ingegnere stradale di settantadue anni, in pensione da cinque. Direttore di divisione presso il Dipartimento israeliano dei lavori pubblici che gestisce l’intera rete viaria, per quarant’anni ha progettato, nel nord del paese, strade, autostrade, svincoli, incroci. Competente e stimato dai colleghi per esperienza e professionalità, una volta lontano dal lavoro, Zvi Luria entrerà senza troppa fatica in una quotidianità scandita da liturgie consuete, nel perimetro della casa di Tel Aviv e nei cerchi concentrici fuori dalle mura. La sua vita scorre lungo vie canoniche, senza ostacoli, nella ripetizione di gesti abituali e inconsunti: tutto bene fin qui, tutto rodato e conosciuto. Ma un giorno il tranquillo binario della quotidianità scarta leggermente: Zvi Luria esce dall’asilo con un bambino che non è suo nipote, senza accorgersene. Un incidente lieve, che subito rientra, allineandosi tuttavia ad altri fatti analoghi, accaduti di recente: piccole distrazioni, atti compiuti per eccesso o per difetto, tentativi di richiamare parole i cui contorni sfumano nell’indistinzione, codici numerici che saltano, nomi che all’improvviso spariscono dalla mente. Basta questo per portare Zvi Luria nello studio di un neurologo, che gli diagnostica i primi accenni di demenza senile.
Invito a forzare il ricordo
Il tunnel, ultimo romanzo di Abraham B. Yehoshua, ora da Einaudi nella traduzione elegante e accurata di Alessandra Shomroni («Supercoralli», pp. 344, € 20,00), si apre sui negativi della risonanza magnetica di Zvi, con il neurologo che prima scandisce le sillabe, asettiche e inesorabili, della diagnosi, poi indica con forza modalità di resistenza per rallentarne il corso. Un invito, forte e convinto, a non fuggire la vita, a procedere controsenso rispetto al crepuscolo della mente, a forzare il ricordo, a trattenere i nomi che dileguano. Soprattutto, a riannodare il filo con la propria professione, svolgendo consulenze o lavori a tempo ridotto. Su questo abbrivio, complice la festa di pensionamento di un collega e la tenace insistenza della moglie, nasce la collaborazione con il giovane Assael Maimoni, che ha preso il suo posto ai lavori pubblici, impegnato nel progetto di una strada segreta per l’esercito, nel deserto del Negev, a sud di Israele. Del giovane ingegnere, Zvi Luria diventa consulente senza compenso e assistente volontario, nel tentativo di risalire la china della mente offuscata o perlomeno di mantenerne desta la sintassi logica e operativa.
Il tentativo di fortificazione della memoria e di blindatura dei suoi contenuti – operazione tanto strenua, quanto commovente e in fondo tragica – non è certo in grado di arrestarne l’allagamento, inarginabile per natura, e la confusione emotiva che ne deriva. Mentre traccia la curva discendente nella coscienza di Zvi Luria, Yehoshua mostra un’incredibile abilità nel comunicarne il ritmo progressivo e il susseguirsi delle stazioni. Con un’empatia che spesso non ammette filtri e che partecipa del tentativo di contenere la frana memoriale, il lettore vive le diverse situazioni che coinvolgono il protagonista, quasi a respiro trattenuto, nell’attesa, forse persino nella speranza che quel certo nome non gli sfugga, che quella determinata combinazione di numeri gli riaffiori alla mente, che quel percorso in auto lo porti alla giusta destinazione.
Una famiglia tra le rovine nabatee
Il lento ma irreversibile disallineamento mentale – segnato da una catena di puntuali, sempre più ravvicinati, congedi dalla grammatica della ragione – non impedisce a Zvi Luria di sostenere e difendere con convinzione, e con moto inverso rispetto al rarefarsi dei ricordi, la dispendiosa perforazione di un tunnel all’interno di una collina, dove vive una famiglia di rifugiati palestinesi apolidi, nascosti tra le antiche rovine di un insediamento nabateo. Spianare l’altura per facilitare il tracciato della strada militare ne metterebbe a rischio l’incolumità. Il mistero di questa gente senza identità, non più palestinese e non ancora israeliana, porta il fuoco della narrazione sul conflitto medio-orientale, diventando così il correlativo oggettivo, quasi la formula che iconicamente racchiude lo sgretolamento identitario del protagonista. E lo sgranarsi delle sue immagini mentali diventa metafora di un quadro geopolitico che sembra consegnato a un inarrestabile ottundimento. Conferma di questa dimensione del romanzo è il medaglione narrativo, forse un po’ troppo sbalzato e perciò tendente al didascalico, con la sosta dei due ingegneri presso la tomba di Ben Gurion.
Il tunnel è però anche altro. Sotto la maglia dei motivi ricorrenti nella narrativa di Yehoshua – l’identità, i sentimenti, la malattia, l’ambivalenza della memoria, la componente politica – e dietro l’andamento riconoscibilissimo della sua prosa, si distende una trama sotterranea che attraversa il romanzo, agganciandosi a un nucleo fra i più antichi e fondamentali della tradizione ebraica. Lo sfarinarsi dei nomi, il loro disperdersi come polvere nella mente del protagonista è, nella sua insistita iterazione, forse il tema conduttore dell’intero libro. Difficile non intravvedere – dietro la sequela di nomi dimenticati, deformati e dunque profanati, a stento trattenuti nel ricordo, poi di nuovo polverizzati, nomi che il protagonista inanella lungo tutto il corso della storia – quel retroterra ebraico che accomuna la nominatio rerum adamitica, il metodo midrashico e il pensiero cabbalistico, ponendo, alla base del linguaggio, una fondamentale consustanzialità tra nomi e cose. Lungi dall’essere involucro convenzionale, il nome – nella sua origine divina, nella sua terribilità che lo rende, nei casi più estremi, irrivelabile e impronunciabile – cattura l’essenza della cosa, discopre la sostanza ultima di chi lo porta. Come non sentire per esempio, dietro il capitolo «Restituiscimi il mio nome e io ti lascerò in pace» – costruito intorno all’incapacità di Zvi Luria di richiamare il nome di un’antica seduttrice e all’irritazione di lei – il suono familiare di antichissime tradizioni, su tutte la lotta di Giacobbe con l’essere misterioso, che il patriarca tiene avvinghiato tutta la notte per strapparne una benedizione e una rinominazione («Lasciami andare perché è spuntata l’aurora» – «Non ti lascerò se non mi avrai benedetto» – «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele») e che però mai rivelerà il suo nome («Giacobbe allora gli chiese: «Dimmi il tuo nome». Gli rispose: «Perché mi chiedi il nome?». E qui lo benedisse). Sempre in questo senso, il deserto del Negev è teatro di buona parte dell’azione: uno scenario primordiale e materico, legato a eventi d’inizio e di fondazione, richiamati, forse un po’ troppo scopertamente, dal nome dello hotel «Beresheet», a mimare l’ebraico bereshit, «in principio», che designa il Libro della Genesi. È infine difficile non riconoscere, in filigrana, un rivolo cabbalistico, quando la narrazione accosta il segreto dei nomi e del loro fondo oscuro e impronunciabile, quando si toccano le loro infinite possibilità combinatorie e le loro, anche impacciate, sovrapposizioni confusive. Forse è addirittura l’ironica e laica ripresa di questa tradizione a emergere, a tratti, in piena luce: il nome del protagonista Zvi Luria – con il suo rimando fonetico al celebre cabbalista di Safed, Isaac Luria – potrebbe mostrare questa direzione.
Il Fatto 16.12.18
“Quale MeToo? Le donne restano condannate a ‘casa, letto e chiesa’”
In scena - Valentina Lodovini interpreta la pièce di Rame e Fo del ’77: “Un manifesto sulla condizione femminile purtroppo ancora attuale”
di Camilla Tagliabue
Tutto cambia, niente cambia: la donna – ahilei, ahinoi – è ancora Tutta casa, letto e chiesa, come l’aveva sardonicamente immortalata Franca Rame nell’omonima pièce. “Purtroppo la situazione è più o meno invariata. Non trovo niente di anacronistico nel testo”, racconta Valentina Lodovini, in questi mesi protagonista dello spettacolo diretto da Sandro Mabellini e in tour fino a febbraio (stasera ultima recita alla Sala Umberto di Roma).
“Le donne che porto in scena esistono tuttora. Ovvio che qualcosa è accaduto, ma riguarda una minoranza; per il resto c’è quasi un’involuzione. Ciò detto, è un momento complicato ma fertile. Voglio vederlo con occhi positivi”.
Tutta casa, letto e chiesa è una raccolta di monologhi sulla condizione femminile e la schiavitù sessuale in primis: debuttò nel 1977 a Milano, alla Palazzina Liberty, solidarizzando con le lotte del movimento femminista; dopodiché fu replicato oltre tremila volte in più di 30 Paesi del mondo.
Il canovaccio – il primo scritto a quattro mani da Rame insieme col marito Dario Fo – è in verità un’antologia di monologhi, quasi una decina per altrettanti, eccentrici personaggi in gonnella: come molti lavori della compagnia, è stato riadattato e arricchito negli anni, fino al 1985, mentre ora Mabellini ha scelto di portare in scena solo quattro voci. In breve, per non spoilerare: “Una donna sola ha per protagonista una casalinga; Abbiamo tutte la stessa storia parla di una signora che, allora come oggi, viene considerata ‘contro natura’; Il risveglio racconta di un’operaia, una lavoratrice che è anche madre e moglie; Alice nel paese senza meraviglie è il racconto di formazione di una ragazza manipolata”.
Possibile che la condizione femminile sia la stessa di 40 anni fa? “Quando c’è lo sguardo di due artisti così importanti – uno sguardo intelligente, ironico, sofferente e puro – non escono solo i personaggi, ma soprattutto il contesto culturale di un’epoca. Queste opere sono testimonianze: non invecchiano mai perché rispecchiano la condizione umana”. Quello di Fo e Rame sembra quasi un proto-manifesto del #MeToo… “Sicuramente è un testo manifesto: la commedia è una delle forme narrative più crudeli e feroci nei confronti della realtà, di cui si prende gioco; il fondo, però, resta amaro. Quanto ai movimenti contemporanei, denunciare è importantissimo perché l’omertà è l’arma più preziosa che hanno le persone scorrette e viscide. Se gliela togliamo il sistema si sgretola”.
Il tema è ancora caldo e il pubblico apprezza: “Lo spettacolo è diverso ogni sera proprio perché gli spettatori sono protagonisti. Ci si può vedere tutto in questo testo: un inno alla vita o alla lotta o alla rassegnazione. Il dibattito è sempre acceso, e da attrice per me è magnifico: non essendoci mai la stessa reazione alle battute, non mi posso adagiare, devo essere sempre viva, vigile, non posso permettermi di gigioneggiare. Tuttavia, sarebbe scorretto dire che tutte le donne reagiscono in un modo e tutti gli uomini in un altro: la reazione è molto individuale. Non ci sono i buoni e i cattivi”.
Finalmente sdoganati e sottratti all’etichetta di artisti politici, se non politicizzati, “è bello scoprire che Dario Fo e Franca Rame sono di tutti: il nostro Paese, da Nord a Sud, va fiero e orgoglioso di loro. A Milano, ad esempio, avevo qualche timore: chissà se avranno pregiudizi, o gelosia, nei confronti di due artisti simbolo della città. Non è stato così: ovunque vado, trovo solo amore per loro”.
Eppure il testo è politico, scritto in anni di grande movimentismo, attivismo e finanche violenza: “È politico perché va all’essenza della vita. Io credo che si possa essere apartitici ma non apolitici”.
E lei? Si considera femminista? “Dipende cosa intende: come donna sono privilegiata, sono sempre stata rispettata. Ho ricevuto un’educazione che tra i valori principali ha la libertà di espressione. Mi ritengo fortunata, indipendente, priva di pregiudizi, generosa. Non mi sono mai dovuta difendere; perciò, di fronte all’ingiustizia e alla mancanza di parità, reagisco. Anche in maniera forte”.
Corriere La Lettura 16.12.18
L’altruismo conviene, rafforza solidarietà e conoscenze
di Termo Pievani
Sacrificarsi per i propri figli è facilmente spiegabile sul piano evolutivo: sono i continuatori della nostra linea genetica. Meno intuitiva è la strategia di partorire cuccioli immaturi come i nostri, il cui cervello si sviluppa per due terzi dopo la nascita. Accudirli per anni durante l’infanzia e l’adolescenza prolungate è un adattamento assai costoso per i genitori e per il gruppo. Gli erbivori nella savana fanno il contrario, accelerano la crescita per non finire predati: i cuccioli appena nati devono alzarsi in piedi in tutta fretta e correr dietro alla madre e al gruppo. Nella fragilità degli infanti umani si nasconde però un vantaggio per il quale val la pena rischiare: i piccoli, ancorché vulnerabili, avranno più tempo per giocare, per imitare gli adulti, per imparare, per sperimentare.
Ora estendiamo il ragionamento. Nel mio gruppo è probabile che vivano molti miei parenti, cioè i possessori di una certa percentuale dei miei stessi geni. Quindi mi conviene essere altruista con i compagni, fino al limite di rischiare la vita, perché in questo modo contribuisco comunque, seppure indirettamente, alla mia discendenza genetica. Questa selezione di parentela ci insegna, un po’ cinicamente, che spesso in natura l’empatia e la cooperazione sono forme sofisticate di egoismo genetico.
Noi umani tuttavia ci prendiamo cura anche di amici che non sono necessariamente nostri parenti stretti. Lo facciamo perché ci aspettiamo una reciprocità: io ti faccio un favore perché so che tu o gli altri del gruppo farete lo stesso con me quando ne avrò bisogno. Se poi il mio gruppo così pieno di compagni empatici diventa più compatto e sconfigge gruppi dove l’altruismo va meno di moda, allora la cooperazione e le cure reciproche si diffondono come una potente strategia di sopravvivenza. Si noti l’ambivalenza della storia: siamo solidali con chi appartiene alla nostra comunità, al nostro «noi», ma perché almeno inizialmente eravamo in conflitto con altri gruppi, cioè con gli «altri da noi».
Le fredde spiegazioni evoluzionistiche si stemperano un po’ quando vediamo la mandibola sdentata di cui parla Guido Tonelli nell’articolo qui accanto e pensiamo a quanta amorevole sollecitudine fu dedicata a un individuo debole e malato che aveva perso la sua autonomia. Possiamo farlo per pura compassione, ma il compassionevole non è autolesionista. Se anziché abbandonarlo al suo destino io curo un mio simile che si è ferito durante una battuta di caccia, lui in cambio potrebbe raccontarmi che cosa è successo e io imparerei a evitare di trovarmi nella stessa situazione. Si chiama apprendimento sociale per via linguistica, cioè ascoltare storie, il segreto della nostra evoluzione culturale. Prendersi cura di un vecchio, nei rigori delle ere glaciali in Europa e in Georgia, significava far tesoro non dei suoi geni, ma delle sue conoscenze.
Corriere La Lettura 16.12.18
E l’uomo cominciò a prendersi cura dell’uomo
di Guido Tonelli
Quando nasce la cura che gli umani dedicano ai propri simili? La questione mi ha intrigato da sempre. La spinta a nutrire e proteggere i nostri piccoli ha origine evidentemente da un dato biologico, un comportamento necessario per la riproduzione. Apparteniamo alla classe dei mammiferi e questa geniale invenzione dell’evoluzione per cui le femmine della nostra specie sono in grado di nutrire per anni i piccoli, che altrimenti sarebbero incapaci di sopravvivere, ha costituito un enorme vantaggio. Qualcuno attribuisce a questa caratteristica, che si è sviluppata, nelle forme primordiali, intorno a 200 milioni di anni fa, il successo planetario dei mammiferi, che hanno occupato rapidamente tutte le nicchie ecologiche rimaste vuote dopo la scomparsa dei grandi rettili.
È avvenuto così anche per le scimmie antropomorfe da cui discendiamo. Quello scambio primigenio di cibo fra madre e figlio, quell’incrociarsi di sguardi in un colloquio muto di protezione e di riconoscenza è forse alla base di tutti i legami sociali e di linguaggio che saranno sviluppati nei milioni di anni a venire. Lo stupore nel vedere sgorgare dalle mammelle turgide delle madri nutrimento per tutti — sì, anche per gli adulti del clan quando la carenza di cibo metteva a rischio la sopravvivenza del gruppo — si ritrova nelle prime testimonianze artistiche: le decine di veneri preistoriche risalenti a decine di migliaia di anni fa, tutte rappresentazioni dell’archetipo dell’abbondanza, dee-madri dai seni rigonfi e dalle natiche imponenti.
Ma l’attitudine a prendersi cura dei membri più fragili del clan, a curare malati o feriti che pure possono essere di peso a piccole comunità in lotta quotidiana per la sopravvivenza, da dove nasce? In questo caso si deve trattare di qualcosa di più sofisticato, meno immediatamente riconducibile a un istinto biologico.
Le indagini relative ai primi gruppi di sapiens che hanno popolato l’Europa hanno documentato pratiche compassionevoli di assistenza a feriti o malati risalenti a oltre 30 mila anni fa. Individui che riescono a sopravvivere a ferite gravissime, ossa malamente fratturate che sono state in qualche modo ricomposte, segni di patologie invalidanti che non impediscono di raggiungere età molto avanzate, evidentemente grazie al sostegno della comunità. Più recentemente sono state raccolte evidenze inequivocabili che comportamenti simili erano già diffusi presso i Neanderthal, specie che ha colonizzato l’Europa duecentomila anni prima di noi. Nonostante si tratti di una scala dei tempi piuttosto ragguardevole, mi è sempre restata l’impressione di un’acquisizione relativamente recente, se paragonata alle epoche che hanno visto lo sviluppo dei primi ominidi, che si misurano in milioni di anni.
Ho mantenuto questo pregiudizio, evidentemente legato alla mia scarsa informazione, fino a un paio di anni fa. Nel maggio 2016 sono stato invitato a fare una breve visita in Georgia e, in quell’occasione, ho trovato una risposta inequivocabile ai miei dubbi.
Il governo della giovane repubblica, a pochi anni da una stagione di conflitti e turbolenze, cercando di guardare al futuro aveva deciso di investire in ricerca. Ero stato invitato a Tbilisi, assieme a un gruppo di scienziati di vari Paesi, per tenere a battesimo l’Istituto tecnologico della Georgia, una bella struttura che verrà costruita nei pressi della capitale; l’edificio ospiterà varie attività di ricerca, ma l’infrastruttura principale sarà un acceleratore destinato all’adroterapia, il trattamento di alcuni tipi di tumore con fasci di protoni e ioni carbonio. Assieme a colleghi georgiani di grande prestigio internazionale, come Gia Dvali, uno dei padri della teoria delle extra-dimensioni spaziali, nel comitato scientifico internazionale che dovrà valutare l’avanzamento del progetto avevo ritrovato vecchi amici come François Englert, Sergio Bertolucci e Lars Brink, per anni presidente del comitato Nobel per la fisica.
La cerimonia del primo colpo di piccone era prevista per il lunedì con la presenza del primo ministro e ambasciatori di tutti i Paesi. Noi eravamo arrivati nel weekend e la domenica i colleghi georgiani avevano organizzato in nostro onore un incontro con decine di studenti entusiasti che ci avevano bersagliato di domande sul Cern, la fisica, l’origine dell’Universo. Alla fine della giornata era prevista la visita al Museo nazionale della Georgia, diretto da David Lordkipanidze, un paleoantropologo di fama internazionale.
Come tutti i georgiani il suo nome è quasi impronunciabile, ma, fin da quando ci aveva accolto con un grande sorriso, il direttore ci era sembrato un tipo aperto e simpatico. Il museo era stato aperto solo per noi e lui ci faceva da guida. Al piano sotterraneo c’era un’esposizione che da sola valeva la visita: centinaia di manufatti d’oro e d’argento, collane, monili, vasi, figure animali splendide; testimonianze di una grande tradizione di lavorazione dei metalli preziosi, che data dall’inizio del secondo millennio avanti Cristo. Il tesoro esposto era impressionante e mentre ero lì a meravigliarmi di questa bellezza, ecco che qualche neurone laterale faceva scattare la sinapsi giusta: la Colchide. Ma come non pensarci prima! Eravamo nella regione in cui si è avventurato Teseo, con la sua ciurma di Argonauti. Cercavano il vello d’oro, il mitico trofeo, emblema fantastico delle pelli di pecora con cui i cercatori ostacolavano il corso dei piccoli torrenti per fare in modo che le pagliuzze d’oro vi restassero impigliate. Di colpo anche il mito greco diventava chiaro e plausibile: valeva la pena intraprendere un viaggio tanto pericoloso se la posta in gioco era un Paese così ricco di metalli preziosi. Ma le sorprese non erano finite.
Tutti in realtà non vedevamo l’ora di ammirare il vero tesoro del museo, molto più prezioso delle grandi quantità d’oro che brillavano nella sala dei gioielli. Erano i resti fossilizzati dei cinque ominidi che Lordkipanidze aveva scoperto nei suoi scavi a Dmanisi. Tutto era iniziato in una piccola località, 93 chilometri a sud-ovest della capitale. La città medievale di Dmanisi sorgeva su una piccola altura rocciosa alla confluenza fra due fiumi, e godeva di una certa prosperità, perché si trovava sulla via della seta che univa Bisanzio con la Persia, passando per l’Armenia. Era luogo di sosta e di scambi commerciali fra mercanti di tutte le nazionalità ed era difesa da un castello e una cinta fortificata, che non servirono a molto, tuttavia, quando i Turcomanni alle fine del Quattrocento le diedero l’assalto. La città fu rasa al suolo, gli abitanti uccisi o dispersi e, da allora, divenne un piccolo villaggio semiabbandonato.
Gli archeologi che iniziarono gli scavi fra le rovine del castello vi rinvennero molte testimonianze importanti degli antichi splendori, ma le vere sorprese cominciarono quando si scavò, in corrispondenza di un pozzo, al di sotto dello strato medioevale. Prima comparvero denti di una specie di rinoceronte estinta da milioni di anni, poi utensili in pietra molto primitivi. La cosa attirò l’attenzione dei paleontologi; ne nacque una campagna di scavi che disseppellì fossili di elefanti, gazzelle, rinoceronti e altra fauna del Pleistocene, un periodo compreso fra 1,5 e 2 milioni di anni fa.
Nel 1991 partecipava agli scavi anche il giovane professore di paleoantropologia Lordkipanidze che collaborava con università tedesche. Come succede nei film, proprio all’ultimo giorno di una campagna di scavi che era iniziata mesi prima, Antje Justus, un suo laureando, stava liberando dai sedimenti lo scheletro parziale di una tigre dai denti a sciabola; ed ecco che sotto i resti del felino estinto appare la mandibola fossilizzata di un ominide, perfetta, con tutta la dentatura completa. Da quel momento la terrazza vulcanica di forma triangolare, su cui poggiava l’antica città di Dmanisi, divenne una delle località più conosciute al mondo. Alla fine degli scavi si conteranno migliaia di artefatti, soprattutto pietre scheggiate, moltissimi fossili e cinque crani, pressoché completi, di Homo erectus, risalenti a 1,8 milioni di anni fa. Erano i primi abitanti dell’Europa, gli ominidi più antichi che si sono avventurati fuori dall’Africa, gli antenati di innumerevoli generazioni di esploratori.
Ed eccoci al momento clou della visita, quello che aspettavamo con impazienza, da quando ci era stato annunciato come fuori programma. Andiamo nel suo studio, dove sono conservati i reperti originali degli ominidi di Dmanisi, perché avremo il privilegio di vederli da vicino.
Quando, dopo aver indossati guanti adatti, tocco il piccolo cranio che Lordkipanidze ha estratto da una scatola speciale, l’emozione è fortissima. Tengo fra le mani un reperto di importanza straordinaria, ma la cosa più incredibile è che le mandibole sono lisce, non ha neanche un dente. Il direttore spiega che quando l’ha visto per la prima volta non ha potuto trattenere le lacrime.
L’individuo, rispetto alla vita media dell’epoca, era molto vecchio, si stima avesse superato i quarant’anni, e aveva perso tutti i denti; la cosa più sorprendente era che fosse sopravvissuto così a lungo, perché nella mandibola non c’era segno delle cavità occupate dai denti: dovevano essere passati alcuni anni prima che l’osso riuscisse a riempirle.
Tenevo fra le mani la prima testimonianza di una comunità che, per anni, aveva cercato e masticato cibo per far sopravvivere un membro più debole; avevo di fronte a me la prova che la compassione, la spinta a farsi carico dei più fragili fra gli esseri umani, affonda le sue radici nella notte dei tempi.
Corriere La Lettura 16.12.18
Julian Snhabel
Ho camminato nella testa di van Gogh
di Valerio Cappelli
Una volta il grande produttore di cinema Samuel Goldwyn chiese lumi ai suoi collaboratori sui progetti in corso. «Ne abbiamo uno su van Gogh, dovrebbe interpretarlo Kirk Douglas». «Chi è van Gogh?», domandò Goldwyn. Un pittore, risposero. «Conosciuto?». Sì, è molto popolare. «Ok, facciamolo, intanto siamo sicuri che chi possiede un van Gogh andrà a vederlo».
Hanno girato oltre trenta film su van Gogh, prima del suo. Ma quest’ultimo che sta per uscire offre una prospettiva nuova. È come entrare, attraverso l’atto della creazione, nei pensieri di un genio che arrivò troppo presto per la sua epoca (in vita riuscì a vendere un solo quadro). In Van Gogh. Sulla soglia dell’eternità (esce il 3 gennaio per Lucky Red), un pittore racconta un altro pittore: Julian Schnabel e Vincent van Gogh. Ma Schnabel è anche regista. Qui diventa pittore di immagini in movimento, ridisegna van Gogh con i suoi «colori»: «Non potrei fare un film più personale di questo».
Nato a Brooklyn da una famiglia ebrea, Schnabel dipinge solo quadri enormi: dice che gli piace passeggiare all’interno di una tela. Si divide fra arte e cinema, dove approdò negli anni Novanta. Nel ventennio precedente, l’arte era dominata dalla scultura concettuale; Schnabel riportò l’attenzione sulla pittura «fisica», performativa: «Quello che mi succede si riflette sul mio lavoro». L’eccentrico Schnabel è uomo di eccessi. A New York doveva ristrutturare il suo appartamento: costruì Palazzo Chupi (soprannome della seconda moglie), undici piani «nello stile architettonico del Nord Italia». Si giustificò: «Volevo più spazio». Dipinge con la musica di sottofondo (come nell’episodio di Scorsese in New York Stories, il film collettivo del 1989 da lui girato in condominio con Woody Allen e Coppola). E lo fa in maniera del tutto personale, su enormi cerate, quelle per coprire i camion, oppure usando le vele delle barche. A Bologna volevano donargli le chiavi della città: «Chiesi i tendoni del Municipio bruciati dal sole, mi tornarono utili per una mostra in Brasile». Veste solo in pigiama, anche quando deve calpestare il tappeto rosso, com’è successo tre mesi fa alla Mostra di Venezia, dove il suo protagonista, Willem Dafoe, ha vinto come migliore interprete per il film dedicato all’ultimo van Gogh (straordinaria somiglianza fra i due). Lo spettatore ha l’impressione di usare il joystick di un videogame; come se camminasse in un campo di grano giallo al fianco del pittore, accecato dal sole della Provenza, un dettaglio, le foglie degli alberi, poi un altro, e una scena prende forma. «Mi piaceva dare la sensazione di camminare con le scarpe di van Gogh».
Il suo film sembra un viaggio nella mente di van Gogh.
«È questo che ha reso il mio approccio diverso. Questo film è la cosa più vicina alla mia vita. Ho indagato su che cosa significhi essere artista. Molti pensano di sapere tutto su di lui, sulla sua vita e la sua pittura, in realtà si sa che era un po’ fuori di testa e che si era tagliato un orecchio».
Le scene sembrano tele in successione, sotto colpi di pennello veloci, nervosi.
«Per van Gogh il gesto deve essere netto. Quanto alla trama... Non c’è una cronologia esatta, volevo creare l’equivalente del senso di accumulazione che abbiamo quando usciamo da una mostra».
Willem Dafoe?
«Ci conosciamo da più di trent’anni. Gli ho detto di leggere il libro di Steven Naifeh e Gregory White Smith,Van Gogh: The Life. Willem ha imparato come toccare una tela, come accostarsi al colore e come affrontarlo. Ha capito che la pittura è una combinazione di ispirazione, impulso, tecnica, esercizio e poi abbandono dell’esercizio. Quando è morto, van Gogh aveva 37 anni, Willem ne ha 63. Ma Vincent era malridotto e Willem è in grande forma. La sua energia ha cancellato la differenza di età».
I fiori appassiscono e muoiono: quelli di van Gogh, no.
«In uno dei suoi autoritratti, Vincent, teso alla ricerca di ciò che si nasconde dietro la realtà, ha usato tre tipi di blu: il blu di Prussia, il ceruleo e il blu marina. In questo film i miei colori sono gli attori».
Dove avete girato?
«Siamo andati nei luoghi in cui van Gogh ha lavorato e ha vissuto negli ultimi due anni della sua vita. Arles, l’istituto psichiatrico di Saint-Rémy... Il film è narrato per gran parte in prima persona e questo dovrebbe dare allo spettatore la possibilità di conoscere la dimensione interiore di quest’uomo. Passeggiando, si vedono le cose in modo diverso. Vincent trascorreva molto tempo nella foresta camminando per lunghi tratti, volevamo arrivare a scorgere quello che vedeva lui».
La natura...
«In una battuta del film, Vincent dice: è tutto già presente nella natura, io devo solo liberarlo. È quello che accade quando dipingo o giro film. Vincent sentì di aver trovato il suo rapporto con Dio attraverso la natura. Dice: Dio è natura e la natura è bellezza. Andò nel Sud della Francia in cerca del sole come nessuno l’aveva dipinto. Si immerge nella natura e riflette sulla bellezza e sull’arte».
Qui lo raggiunge Gauguin...
«A un certo punto dice a van Gogh che sono incompatibili. Ma, ecco, non mi interessava indagare sulla loro tormentata amicizia; mi sono concentrato piuttosto sulle conversazioni attorno alla tecnica pittorica, o alla filosofia. Il rifiuto di ogni accademismo porterà Gauguin verso luoghi remoti».
La morte di van Gogh: lei smentisce la tesi del suicidio.
«Ascolti, non c’erano testimoni e lui non era depresso, risulta difficile credere al suicidio e non trovare l’arma. Ma non è questo il punto centrale del film. Volevamo smentire l’immagine dell’artista cupo e depresso. Ci interessava che van Gogh negli ultimi anni della sua vita fosse del tutto consapevole di aver acquisito una nuova visione del mondo. Non dipingeva più come gli altri pittori, offriva un nuovo modo di guardare le cose, e questo modo di vedere le cose è quello che volevamo mostrare nel film. È una storia sull’atto del dipingere».
Com’è nato il progetto?
«Non volevamo raccontare una biografia, Jean-Claude Carrière ed io. Abbiamo immaginato scene che plausibilmente dovrebbero avere avuto luogo, situazioni in cui van Gogh avrebbe potuto trovarsi, cose che avrebbe potuto dire. Il progetto è nato in un museo. Avevo portato Jean-Claude al d’Orsay alla mostra Van Gogh/Artaud: il suicidato della società. È ispirata all’omonimo libro di quel poeta visionario che è stato Artaud. Fu lì che cominciai a intuire la struttura del film. Quando sei davanti a singole opere, ciascuna ti dice qualcosa di diverso. Ma dopo aver visto trenta quadri, l’esperienza diventa qualcosa di più. È la somma di tutte quelle sensazioni messe insieme. Ed è l’effetto che volevo ottenere con il film, rendere la struttura tale che ogni evento che vediamo accadere a Vincent potesse sommarsi ai precedenti, come se lo spettatore potesse vivere tutta la sua vita in un momento».
Lei quando ha capito che voleva diventare artista?
«Presto, da giovane, all’epoca in cui avevo una enorme massa di capelli ricci e biondi. Anche se non sapevo di preciso che cosa fosse l’arte. Ero atletico, facevo surf, il contatto con il mare è una parte centrale della mia formazione. Ho usato l’acqua come soggetto e come materiale. I miei genitori mi volevano commercialista o medico e non avevano la più pallida idea di cosa stessi facendo: dipingere quadri. Ostentavo una sicurezza che non so da dove mi venisse».
Il cinema e l’arte «sono» movimento: lei ha girato un film...
«...Lo scafandro e la farfalla. Con quell’opera ho vinto un premio al festival di Cannes: è la storia di un uomo immobilizzato, in grado di muovere soltanto una palpebra. Tutto si svolge nell’animo del protagonista, il suo sguardo fisso nella macchina da presa. Ripensai a mio padre, che fu colpito da un ictus e l’infermiera gli diede il libro da cui è tratto proprio quel film. Conoscevo a memoria i dialoghi di Spartacus e de Il Padrino. Credevo di essere arrivato al cinema troppo tardi, era qualcosa che facevano gli altri. Il mio primo film è sul mondo dell’arte, si intitola Basquiat. Ho girato un corto con mia figlia Lola, che fu proiettato alle spalle dei concerti di Lou Reed: per me è stato come un fratello, con lui discutevamo di amori, del senso di perdita. I dipinti sono più ermetici dei film, dipingo solo ciò che mi sorprende o che non ho ancora visto. Fare arte significa allontanarsi dalla realtà. Ha un potere salvifico».
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