il manifesto 15.12.18
Intervista a Zerocalcare, tra Maxxi e il Forte
di Giansandro Merli
ROMA
«Scavare fossati-nutrire coccodrilli» ripercorre la ricca produzione
del fumettista, combinando locandine, poster, tavole, disegni,
animazioni, copertine di dischi e video-interviste. Ne abbiamo parlato
con il protagonista.
La mostra è aperta da una tua biografia
divisa per anni. Dentro, però, le vicende individuali sono poche. Hanno
più spazio Sole e Baleno, Öcalan, il G8 di Genova, indymedia,
Aldrovandi, Kobane, la Valsusa. Perché?
I miei lavori un po’ più
individuali, tipo il blog o i libri, hanno un pubblico vastissimo e sono
facilmente reperibili. Quando mi hanno proposto di fare una mostra più
ampia mi è sembrato interessante riprendere dall’armadio materiali meno
conosciuti. Sono quelli più collettivi e raccontano una storia che non è
solo mia, ma di una comunità e di un pezzo di paese. Quasi tutte le
cose fatte fino al 2011 si può dire siano collettive. Quando ho potuto
l’ho segnalato, anche se non sempre è stato possibile. Per alcuni
manifesti, ad esempio, non si può risalire a tutte le persone che ci
hanno messo qualcosa. Magari sono usciti da assemblee intere in cui
ognuno diceva la sua. Rimane solo il nome mio, ma voglio si capisca che
appartengono a tanti.
Nella cultura occidentale la figura
dell’autore è plasmata intorno all’idea del singolo individuo creatore
di un’opera. Nella mostra, invece, racconti processi creativi
collettivi, assembleari. Che tipo di autore ti senti?
Mi sono
sempre sentito un anello di una catena in cui tante persone condividono
idee. Sono la parte finale di quel ragionamento e metto su carta ciò che
viene immaginato collettivamente. La personalizzazione dell’autore come
figura insindacabile, che fa cose che non si possono discutere o
mettere a verifica, è una roba che mi ha sempre disturbato. Devo dire
che la comunità che ho intorno non mi ha mai trattato così. Tutti si
sentono in diritto di chiedermi ogni volta 100mila modifiche. Però
questa cosa, tutto sommato, mi fa pure piacere.
Ormai riesci a
stare al Maxxi e al Forte Prenestino facendoti apprezzare in entrambi i
luoghi. Non è facile. Soprattutto venendo da un «ambiente antagonista»
che non ama il mainstream e non ne è amato. Come hai fatto?
Con
grande fatica e molta paraculaggine. Da un lato, ho sempre cercato di
mantenere i paletti condivisi un po’ da tutto il mondo antagonista. Di
fare un percorso nel mainstream senza mai tradire quella storia. Magari
omettendo una serie di passaggi, soprattutto nei primi anni, ma non
nascondendo l’ambiente da cui vengo. Dall’altro, invece, il lavoro è
molto più pensato di quanto sembri, super graduale. All’inizio la parte
dei fumetti che uscivano in libreria ha quasi viaggiato su un binario
parallelo che non incrociava mai la produzione dei centri sociali. Così
molte persone hanno potuto scegliere ciò che preferivano con il
beneficio dell’inventario. Magari tu la roba degli scontri di piazza non
la condividi, ma fai finta di non vederla perché nei fumetti emerge
poco. Ogni anno ho provato a mettere un mattoncino in più, per far
avvicinare gradualmente quelle due linee e disporre l’animo del lettore
un po’ meglio verso il mondo nostro. Per fargli capire pian piano chi
eravamo, che non siamo marziani. Alla fine ho tirato una diagonale con
Kobane Calling, il primo libro super politico che però parlava al
mainstream. E ha funzionato. Secondo me perché ho provato a essere il
più inclusivo possibile, contestualizzando molto le cose che riguardano
il mondo nostro. Tutto sommato mi sembra che il pubblico abbia reagito
bene. Nessuno m’ha detto «sei una zecca, fai schifo». Sono stati questo
equilibrio e lo spostamento graduale a far incrociare i due mondi.
In
un passaggio della bio fai cenno al «sassolino», strumento narrativo
differente dalla Pedagogia politica militante con la P maiuscola che
secondo te «funziona fino a un certo punto». Cosa intendi?
Non ho
la pretesa di evangelizzare nessuno, né di convertire le persone. Altri
magari ci riescono, io no. Quello che vorrei fare con i «sassolini» è
una cosa molto più modesta, ma che in questo momento in questo paese
sarebbe oro. È creare un ambiente un po’ più friendly nei confronti
delle nostre istanze. Non è che spero che chi legge la roba mia diventi
uno di noi. Mi basterebbe che quando ci vede al telegiornale non pensi
che dobbiamo andare tutti in carcere perché magari attraverso i miei
fumetti gli è entrato un dubbio in testa e si fa due domande in più.
Questo
obiettivo l’hai perseguito lavorando molto sul linguaggio. Ad esempio
in Kobane Calling, dove sei riuscito a trasmettere messaggi molto
radicali a un pubblico più ampio di quello raggiunto in genere dai
codici comunicativi dei movimenti.
Nel mio linguaggio ci sono
pregi e difetti. È vero che per certe cose la comunicazione dei
movimenti è un po’ chiusa e magari non ha saputo intercettare dei
cambiamenti. Però è vero anche che ha un patrimonio, una ricchezza e una
profondità che evidentemente il linguaggio mio non ha. Invece, quello
su cui ho puntato un botto sono due cose: non lasciare indietro nessuno,
usare dei riferimenti pop riconoscibili. A volte mi sembra che le
analisi nostre o i comunicati, se messi in mano a un ragazzino, diano
per scontato un sacco di cose che noi trattiamo come fossero patrimonio
di tutti. Sono stato a Genova per una presentazione in cui c’erano dei
pischelli che frequentavano la Diaz. Non sapevano nulla di ciò che
accadde nella loro scuola nel 2001. E noi diciamo «Genova», senza
nominare neanche il G8. La gente non sa manco di che parliamo a volte.
Questo ti dà il senso. Quindi ho provato a fare un lavoro che fosse
inclusivo da quel punto di vista, che spiegasse bene tutto, magari a
volte in maniera un po’ didascalica. L’altro fatto è che cerco di
richiamare un bagaglio di cultura pop che riguarda tutti. Non saranno i
riferimenti ideali per i movimenti, ma sono noti a chiunque sia
cresciuto negli anni nostri fuori dai nostri ambienti. Secondo me questi
riferimenti sono utili perché danno alle persone degli appigli in cui
riconoscersi.
Al di là della scrittura e del disegno, parte del
tuo lavoro è metterti al servizio di movimenti sociali, battaglie
politiche e spazi occupati. Come interpreti questa funzione così poco
comune tra le personalità pubbliche?
Secondo me il problema è
pensare di poter portare avanti delle istanze politiche da singoli, cioè
svegliandoti la mattina e dicendo la tua, come un intellettuale
illuminato. Magari pretendendo poi di spostare il dibattito sulla verità
di cui ti senti portatore. Questa roba qua non si può fare perché
nessuno da solo è portatore di niente. Per me, l’unico modo di
intervenire in un dibattito politico è avere alle spalle un confronto o
un mandato collettivo. Non potrei parlare di Tav o Kurdistan se non
avessi fatto prima le assemblee. Se devo restituire qualcosa al mondo
non può essere ciò che penso io da solo, ma il prodotto di un processo
collettivo.
Dopo che hai firmato il manifesto del corteo No Tav
dell’8 dicembre hai ricevuto alcune critiche. Perché hai deciso di
rispondere?
In questo periodo sembra che quella storia sia stata
cancellata dalla testa di un sacco di persone. Alcuni credono, non
capisco come, che il No Tav sia un’istanza di questo governo. Non solo
dei 5 Stelle, ma anche di Salvini. La gente mi ha scritto che Salvini si
sarebbe rivendicato il corteo, quando lui è un Sì Tav. C’è proprio una
rimozione. Forse perché al momento non esiste un soggetto riconoscibile a
sinistra e per un sacco di ragazzini questo vuoto è riempito dal Pd,
identificato come struttura di opposizione. E siccome il Pd è a favore
del treno pensano che l’unica posizione di sinistra possibile sia
quella. Così tutto quello che è il No Tav viene messo insieme a una
specie di oscurantismo ignorante che va dai No Vax alle scie chimiche. A
me questa roba sembra terribile. Raccontare la storia del movimento per
farla vivere in uno spazio politico antagonista, di sinistra, mi sembra
fondamentale in questo scenario.