il manifesto 15.12.18
Dentro il laboratorio italiano del nazionalpopulismo
Nuove destre. La prima grande sollevazione del ceto medio del XXI secolo e l’ondata razzista che la sta accompagnando nelle inchieste di Ezio Mauro "L'uomo bianco" (Feltrinelli) e Maurizio Molinari "Perché è successo qui"
di Guido Caldiron
Lungamente considerata, e a ragione, alla stregua di un vero e proprio laboratorio politico e sociale delle sinistre, l’Italia sembra aver assunto negli ultimi decenni un ruolo per certi versi analogo ma, questa volta nel campo di quelle che possono essere definite con una qualche approssimazione come «nuove destre». Prima la lunga stagione del berlusconismo e della «destra plurale», quindi quella dominata dall’attuale alleanza di due «populismi», certo diversi ma per molti versi complementari e, in ogni caso, in grado di costituire insieme un’offerta politica a tutto campo della quale, ben al di là delle sorti dell’odierno esecutivo, è facile immaginare ulteriori e inediti sviluppi.
PROPRIO QUESTA PECULIARITÀ della situazione del nostro paese, più volte anticipatrice però di dinamiche poi affermatesi anche nel resto d’Europa, è al centro delle recenti inchieste di due affermati giornalisti quali l’ex direttore di Repubblica, Ezio Mauro, e Maurizio Molinari, alla guida della Stampa dal 2016, autori, rispettivamente di L’uomo bianco (Feltrinelli, pp. 140, euro 15) e Perché è successo qui (La nave di Teseo, pp. 124, euro 17). Opere che, seppur con accenti tra loro differenti, individuano l’emergenza di lungo corso che caratterizza la realtà nazionale, soffermandosi via via in modo più approfondito sull’ulteriore accelerazione che ha conosciuto di recente, fino a comporre un quadro composito di questa lenta e apparentemente inarrestabile deriva.
Per Molinari si tratta soprattutto di tradurre la crisi attuale in termini di prospettiva politica, individuando in particolare il ruolo che il «laboratorio italiano» potrà giocare in vista delle elezioni europee del prossimo anno, quando l’annunciata crescita dei sovranisti e delle nuove destre potrebbe cambiare, ma in peggio, il volto dell’Europa. «In questo scenario – suggerisce Molinari -, i populisti italiani, grazie al forte sostegno di cui dispongono in patria, potrebbero avere un ruolo strategico nel definire i nuovi assetti ed equilibri dell’Ue».
Sul fondo, a creare le condizioni favorevoli all’affermazione dei gialloverdi, ci sarebbe secondo Molinari «l’impatto che diseguaglianze, migrazioni e corruzione hanno su una moltitudine di cittadini». Questioni di tale portata, da affrontare a suo giudizio con «nuove idee» rispetto alla lezione del Novecento, che fanno ritenere «il populismo italiano» tutt’altro che «un fattore passeggero, una circostanza occasionale», all’interno di quella che si delinea, in questo caso anche a livello internazionale, come «la prima grande sollevazione del ceto medio del XXI secolo».
IN MODO ANCOR PIÙ PUNTUALE, Ezio Mauro legge l’insieme dei processi in corso alla luce della violenta ondata di razzismo che attraversa la società italiana, intrecciando l’analisi più generale delle trasformazioni in atto con la cronaca minuta di una tragica vicenda che ne racchiude alcuni degli aspetti più sinistri: la tentata strage razzista compiuta da Luca Traini per le strade di Macerata il 3 febbraio di quest’anno.
La «caccia al nero» da parte di questo giovane «lupo» di provincia imbevuto di odio razziale e frequentatore di un milieu estremista che va dai neofascisti alla Lega, diventa così il simbolo di un paese dove la spinta delle discriminazioni veicolate in sede istituzionale si coniuga con le peggiori pulsioni violente che crescono nel risentimento sociale diffuso.
LA GUERRA QUOTIDIANA condotta contro i «corpi neri», diventa così la cifra di quella ridefinizione della «normalità italiana» all’insegna del risveglio dei «forgotten man», i tanti piccoli bianchi che dentro la crisi, sociale e di senso di questi anni, hanno maturato la convinzione che qualcuno «dopo avergli conteso il presente, gli ha sottratto il futuro, ed è qualcosa che non possono perdonare».
SALTATO, ALMENO IN LARGA PARTE, il compromesso sociale che è stato fin qui alla base della democrazia stessa, sembra così farsi largo, grazie ad «una condizione comune di spaesamento, di frustrazione, persino di invidia sociale», una sorta di «fascismo disorganico, sciolto, quasi naturale», che si nutre dell’enfasi posta su ogni sorta di paura e di rancore. L’idra a due teste del populismo italiano di governo evoca da un lato «terra, sangue, confini» e dall’altro «un altrove, un habitat incontaminato e chiuso in sé», dove la debolezza della politica è facile preda dei leader carismatici. «I due immaginari separati e distinti compongono (così) un mondo, l’antisistema, dove l’unica moneta è l’antipolitica e dove il nemico comune è il meccanismo democratico europeo».
La Stampa 15.12.18
Il vangelo sovranista
Una sicurezza immaginaria per conquistare il popolo impaurito
di Giovanni De Luna
Le discriminazioni che affiorano nel «decreto sicurezza e immigrazione» hanno rilanciato nella polemica politica il richiamo al fascismo mussoliniano e alle spinte razziste che culminarono nelle leggi antiebraiche del 1938. Il termine era stato già usato nel passato, spesso a sproposito, e proprio alla luce di questi precedenti oggi si è un po’ tutti ostaggi della favola di Esopo, quella del pastore che gridava «al lupo, al lupo!»: da un lato c’è il timore di non riconoscere per tempo una malattia che sarebbe mortale per la nostra democrazia, dall’altro quello di lanciare l’ennesimo allarme sbagliato e di ritrovarsi inermi quando e se il lupo arrivasse davvero.
È un fatto, però, che certe pulsioni biopolitiche presenti nel decreto propongono uno scenario inedito nella storia recente della destra italiana. Nel patto di cittadinanza che sorregge le costituzioni democratiche e liberali, oggetto della sovranità dello Stato è l’uomo come attore politico, non l’uomo come semplice essere vivente, con la sua nuda vita e la sua fisicità corporea. Solo la smisurata statualità dei totalitarismi novecenteschi si era spinta, con i lager, a impadronirsi anche dei corpi dei deportati, riducendoli a esseri biologicamente animali. Ora, nel decreto, l’esclusione degli immigrati passa proprio attraverso la loro spoliazione di tutti i «segni» della cittadinanza (anagrafi, passaporti, permessi di soggiorno, licenze e diplomi scolastici) così che a definirli restano solo i marchi della loro fisicità (le impronte digitali, le fotografie delle schedature, i corpi «palestrati» della nave Diciotti, gli scheletri viventi ammassati nei campi libici). Di colpo decine di migliaia di persone hanno smesso di essere attori politici.
Oltre a questa, nella destra che ha indicato in Matteo Salvini il proprio leader indiscusso ci sono molte altre novità rilevanti. Nei primi due decenni della Seconda Repubblica, nello schieramento che si riconosceva in Berlusconi (e Bossi) erano molti gli elementi che aiutavano a decifrarne l’identità politica e culturale: la leadership carismatica del «capo» era il nucleo centrale di un’operazione per la quale i valori venivano a coincidere con gli interessi, da difendere con un’aggressività direttamente proporzionale alla paura di vederli messi a rischio da un «nemico» (di volta in volta lo Stato, il fisco, l’Europa, la globalizzazione, i meridionali, gli extracomunitari e, perfino - agli inizi - i comunisti!). Fu allora che affiorò un tumultuoso «estremismo di centro», con il centro politico e sociale del nostro paese, tradizionalmente caratterizzato da un cauto moderatismo, che indossò i panni di un inedito radicalismo, scoprendo forme di mobilitazione collettiva in passato appartenute prevalentemente ai movimenti di sinistra (proteste di piazza, occupazioni stradali, con i «Cobas del latte» di allora che anticipavano i gilet jaunes francesi di oggi). Anche il progetto politico era chiaro, caratterizzato dal tentativo di ridurre il peso contrattuale della massa dei salariati, abbassare il costo del lavoro, diventato precario e flessibile, grazie all’abolizione degli ammortizzatori sociali, trasformare la scuola, la sanità, le pensioni da servizi a cui si aveva diritto in beni privatizzati da «acquistare». Non si trattava certo di una destra liberale in senso classico, anche se era ispirata da una concezione quasi religiosa del mercato, giudicato perfetto in sé, in grado di autoriformarsi e autoregolarsi.
Tutto questo, dopo la crisi del 2008, ha subito un vistoso appannamento; il mercato ha mostrato le sue crepe e il mito della perfezione è andato in frantumi travolgendo molti degli «interessi« che si erano sostituiti ai «valori». Nella destra di Salvini è rimasta certamente la ricerca di un nemico a tutti i costi, ma questa volta sono soprattutto i «poteri forti», la finanza, le multinazionali a indirizzare verso l’alto l’aggressività che verso il basso viene rivolta contro gli immigrati.
Il sovranismo di oggi, con la sua idea di economia nazionale, indica così un percorso nel quale la difesa dei propri interessi economici si coniuga con la ricerca dei valori in grado di tutelarli al meglio, in questo senso consapevole della insufficienza della «religione del mercato». Fino al 2008 lo slogan «meno Stato più mercato» auspicava una cura dimagrante, in grado si snellire l’ipertrofica dimensione che il ruolo dello Stato aveva assunto nel ’900. Adesso invece la statualità della politica si ripropone con forza sia nella destra leghista sia nel composito universo dei Cinque stelle. Con qualche differenza: per Di Maio, lo Stato è solo quello chiamato ad amministrare la cosa pubblica, un attento rapporto costi/benefici, senza una progettualità politica riconosciuta, con un patto di cittadinanza fondato sullo scambio consenso-sussidi; per Salvini, il ripristino della sovranità dello Stato ignora il «patto di cittadinanza» sul quale, nel welfare novecentesco, si sono fondate le democrazie occidentali, proponendone uno di tipo securitario che esclude ogni aspetto di solidarietà e condivisione, fondandosi esclusivamente sullo scambio consenso-protezione.
Corriere 15.12.18
Contro l’inganno del cambiamento il populismo che disgrega e la forza delle donne
Sara Ventroni ,Serena Sapegno, ,Cecilia Sabelli, ,Simonetta Robiony, ,Anna Maria Riviello, ,Silvia Pizzoli, Donatina Persichetti, ,Francesca Marinaro, ,, ,Francesca Izzo ,Fabrizia Giuliani, ,Antonella Crescenzi, ,Licia Conte, ,Cristina Comencini, , Rita Cavallari, ,le Elezioni europee 2019 ,per ,Snoq-Libere
Le donne vincono periodicamente e vanno incontro ciclicamente a sconfitte, anche per loro responsabilità. Un periodo cominciato con una loro inedita presenza, sia nella politica che nella società, si è concluso riproiettando il vecchio film: solo uomini sulla scena pubblica che s’incontrano, discutono, si insultano, decidono e non si accorgono di stare in una fotografia che sembra scattata in Arabia Saudita.
La maggioranza delle donne andate al potere non ha usato la propria forza per battersi e imporre la nostra agenda riformatrice, è stata subalterna agli uomini e alla fine ha perduto tutta la forza conquistata. E nella società, come per altre grandi questioni politiche, ha prevalso anche sul fronte femminile una visione datata, vecchia di intendere la libertà, il potere e il loro reale effettivo esercizio.
Non essendo per esempio riuscite a imporre come tema politico di prima grandezza la maternità, l’accesso delle donne al lavoro resta limitato e troppo spesso ingiustamente mortificato, non abbiamo avuto congedi parentali degni di questo nome e nemmeno asili nido. Sempre più faticosa è diventata la nostra vita. E anche questo è un vecchio film.
La maternità, il lavoro delle donne, la condivisione non sono solo argomenti delle donne e non possono essere risolti sostituendo l’assenza di servizi con la famiglia. La procreazione, spostata sempre più in là, diventa di fatto impossibile e viene discreditata fino a rendere accettabile l’idea che madri e bambini si possano acquistare sul mercato.
La nostra politica continua a essere considerata secondaria e marginale, senza la dignità di questione generale. Mentre la rivoluzione delle donne è un tema fondamentale come la globalizzazione, è una delle cause più potenti della rottura del vecchio impianto della società, della famiglia e del lavoro. Se non si capisce la portata di questo cambiamento, non si può intravedere la possibilità di nuove relazioni sociali, familiari e umane, e neanche la crescita economica dell’Italia, la sua futura modernità.
Non si tratta di «difendere i diritti delle donne», perché le donne non sono una minoranza, che rivendica ruoli, chiede riconoscimenti oppure si chiama fuori. Le donne sono il nuovo soggetto della politica riformista del nostro tempo, come indicano chiaramente il voto americano e le nuove piazze italiane convocate da donne. E se non si trasforma l’idea di futuro, si torna fatalmente indietro, come sta accadendo.
Insomma, ci ritroviamo in una situazione per certi versi analoga a quella che ci spinse a dar vita a Se non ora quando? nel 2011, con una differenza notevole però: non siamo più innocenti e il mondo intorno è noi è stato terremotato.
Sono a rischio i valori democratici ed europeisti che hanno consentito la crescita dell’autonomia e della libertà femminile in Italia e in Europa. Non possiamo più stare a guardare, dando deleghe in bianco a chi affronterà, nelle Elezioni europee del maggio 2019, una sfida decisiva per le sorti nostre e dell’Europa.
Le donne devono esserci: nelle liste, certo, ma soprattutto nella politica e nei programmi delle forze democratiche ed europeiste. Devono contribuire a ridefinirne visione, profilo e agenda. Questa è la sola via per costruire un progetto unitario, all’altezza del tempo e capace di opporsi al messaggio disgregatore populista. La forza del cambiamento viene dalla nostra libertà.
La Stampa 15.12.18
Gli studenti bruciano il fantoccio di Salvini
Un fantoccio con il volto di Matteo Salvini è stato bruciato durante il corteo studentesco di ieri a Milano. La manifestazione è stata organizzata dai collettivi con i centri sociali. Sul finire della manifestazione alcuni ragazzi hanno indossato i gilet gialli in solidarietà con le proteste francesi.
Il Fatto 15.12.18
Pier Liigi Bersani
“Serve una sinistra nuova per dialogare con i 5Stelle”
“Ci siamo dispersi, bisogna riorganizzare il campo per reggere all’onda della destra”
“Serve una sinistra nuova per dialogare con i 5Stelle”
di Luca De Carolis
“Bisogna parlare a nuora, cioè all’Europa, perché intenda la suocera, cioè quelli che ci prestano i soldi”. Su un divanetto alla Camera che sembra un deserto, Pier Luigi Bersani scuote la testa. Non lo convince, la manovra del governo. Ma sono molti i temi di cui parla l’ex segretario dem, e tutti i fili portano allo stato di salute della sinistra: “Ora è dispersa, in rotta. Ma non è morta, perché la sinistra è un fiore di campo, rinasce ovunque”. E Bersani conta di darle acqua ripartendo da Ricostruzione, la manifestazione nazionale di Mdp di domani a Roma.
La trattativa con la Ue sulla manovra è difficile. Tutto previsto?
La manovra è fatta quasi tutta di spesa corrente, in deficit. Sarebbe stato diverso se la maggioranza avesse detto: ‘Useremo l’80 per cento del disavanzo per investimenti in opere pubbliche’.
Il M5S punta sul reddito di cittadinanza. Una misura di sinistra, o no?
La povertà è l’altro problema assieme al lavoro. E va affrontata chiedendo un contributo straordinario di tre anni alle ricchezze superiori ai tre milioni di euro. Con lo 0,8-1 per cento di imposta, si ricaverebbero 3 o 4 miliardi, da aggiungere a quelli del Rei.
Basterebbe?
Il conto finale sarebbe tra i 5 e i 6 miliardi. Facendo un’operazione del genere, con l’Europa si sarebbe discusso meno dei numerini.
Il reddito del M5S pare più incisivo.
Nel Forum con voi, Di Maio ha detto che la platea rimarrà invariata, ma che la misura verrà diluita nel tempo. Ma quando il reddito e quota 100 andranno a regime, come si farà con i conti? Bisogna essere seri. La verità è che povertà e lavoro sono due problemi diversi tra loro.
Il reddito di cittadinanza dovrebbe produrre occupazione.
Per aggiustare i centri per l’impiego ci vogliono due o tre anni. La povertà la puoi combattere solo con i Comuni e con i sindacati, che hanno i centri di servizi diffusi su territori. Il lavoro invece lo crei solo con gli investimenti: e ora non c’è.
Questo governo durerà?
La maggioranza ha dentro di sé una mina, e in tempi non lunghi questa fase si chiuderà. Come dice Di Maio, con Salvini non hanno creato una coalizione, dove i partiti mediano sui provvedimenti, bensì si sono inventati uno scambio di voti sulle reciproche bandierine. Assieme stanno facendo solo una cosa: chiedere soldi in deficit.
Quindi?
Una volta finita la tragicommedia con l’Europa, resteranno solo le bandierine, indigeste ai rispettivi elettorati. E presto si vedrà come i 5Stelle non saranno in grado di reggere a un’onda profonda di destra che si muove in Italia e nel mondo. Temo che la delusione tra i loro elettori andrà a ingrossare la Lega: sta già avvenendo.
Sì, ma la sinistra? Esiste ancora?
Serve una cosa nuova, una cesura e una ripartenza. Neanche l’attuale campo della sinistra è in grado di far fronte all’onda di destra.
E allora?
Chi vuole fare un partitino centrista alla Ciudadanos o alla Macron lo facesse. E anche chi vuole fare il radical-De Magistris. Ma qui serve una forza di sinistra larga, popolare e con vocazione di governo, e che metta le mani e i piedi nel tema sociale.
Con quale rotta?
Se andasse avanti questo percorso, si potrebbe tornare a discutere con i 5Stelle. Certo, non con in tasca l’esito.
Loro non sembrano dell’idea.
Il M5S ha votato cose che fanno paura, come il decreto Sicurezza di Salvini. E propone cose impotabili come la riforma costituzionale di Fraccaro. Ma quando dovranno fare i conti con la fine di questa fase si potrà provare a capirsi.
Il collante può essere Roberto Fico, il grillino “rosso”?
È un’ottima persona. Ma i processi politici non li innesca una persona sola. E nei 5Stelle deve aprirsi una discussione. Loro hanno paura a farlo, come l’ha avuta il Pd.
Renzi ormai parla con fastidio del Pd.
Non mi stupisce affatto che il Pd gli interessi poco, penso che farà un partitino tecnocratico. Piuttosto la domanda è quanto il renzismo sia entrato in vena nei dirigenti ed eletti.
Il congresso è un calvario.
Do un giudizio tecnico: non si vedono le discriminanti, ossia manca la discussione su quando è avvenuta la scissione con il nostro popolo. Se non si parte da lì, non si riesce a parlare alla gente.
Che opinione ha di Maurizio Martina e Nicola Zingaretti?
Voglio bene a tutti e due. Chiunque si alzi e dica una parola chiara su questi punti può farcela.
Sincero: il Pd sta morendo?
Questo è in gioco. Ci vuole una riorganizzazione, una cesura. E credo che, comunque vada, il congresso darà un esito certo su questo.
Lei parla di riorganizzazione. Ma LeU ha fallito perché nelle liste ha dato spazio a capibastone e dinosauri, rifiutando i rappresentanti dei movimenti referendari.
Non è che uno si alza la mattina e rappresenta la società civile. LeU doveva innescare un processo, e non ci è riuscito, è vero. Ma è mancata anche la comprensione dei processi in Italia, di questa destra.
Domenica ci sarà l’assemblea di Mdp. Sarà una riunione di reducisti, una ridotta?
Penso che verrà fuori un appello a una sinistra dispersa che c’è e può ritrovarsi a partire dai territori.
E come? Bisognava farlo anche prima del 4 marzo.
Andando dappertutto, con idee. Io non guiderò la carretta. Ma ho voglia di spingerla.
Corriere 15.12.18
Scenari
Primarie: in testa Zingaretti. A un eventuale partito di Renzi andrebbe il 6,1%
Un patto tra il Movimento e il Pd? Tra i loro elettori prevale il no
di Nando Pagnoncelli
Dopo il deludente risultato ottenuto alle elezioni Politiche del 4 marzo il Pd sta vivendo una fase travagliata, alla ricerca di un nuovo leader e di una nuova proposta politica.
Non è un’impresa facile, tenuto conto del significativo calo di consenso registrato nei suoi dieci anni di vita.
Partiamo dai numeri: il Pd di Veltroni esordisce alle Politiche del 2008 ottenendo poco più di 12 milioni di voti, alle successive Politiche del 2013 il Pd di Bersani viene votato da 8,6 milioni di elettori, mentre alle Europee dell’anno successivo il Pd di Renzi ottiene 11,2 milioni di voti, e alle ultime Politiche il partito, sempre guidato da Renzi, si ferma a 6,2 milioni di voti, con una perdita di circa 2,5 milioni rispetto alle precedenti Politiche e di 5 milioni rispetto alle Europee.
I sondaggi Ipsos più recenti accreditano il Pd tra il 17% e il 18%, con un’ulteriore perdita di circa un milione di elettori. I flussi elettorali mostrano che gli elettori delusi dal Pd alle Politiche hanno scelto principalmente di astenersi o votare M5S.
La definizione di una nuova proposta appare particolarmente complessa. Non stupisce quindi che l’elettorato del Pd sia molto diviso riguardo alla strategia futura: il 51 per cento auspica un partito che torni a parlare agli elettori di sinistra, mentre per il 47 per cento il Pd dovrebbe continuare la trasformazione in un partito capace di parlare anche al centro o a destra, a coloro che non si riconoscono nel populismo e nel sovranismo.
Tra la totalità degli elettori, lo spostamento a sinistra è preferito dal 36 per cento mentre il 26 per cento preferirebbe una forza che guarda anche al centro e alla destra moderata.
Boom dell’astensione
Dal 4 marzo i dem
hanno perso un altro milione di voti, molti verso l’astensione
Tra le diverse ipotesi di cui si parla c’è quella di un avvicinamento tra Pd e M5S su alcuni temi, ipotesi che suscita il favore del 22 per cento degli elettori e la contrarietà del 59 per cento. Anche tra gli elettori di centrosinistra i contrari (60 per cento) prevalgono sui favorevoli (37 per cento), come pure tra i pentastellati (57 per cento contro 39 per cento). E l’idea che in futuro Pd e M5S possano allearsi a livello nazionale e locale ottiene risposte analoghe.
Le primarie per l’elezione del segretario rappresentano un tratto identitario per il Pd: dopo il ritiro di Minniti, abbiamo testato le preferenze tra Zingaretti, Martina e Giachetti (in ticket con Ascani). Il governatore del Lazio prevale sul segretario uscente sia nell’elettorato del Pd (39 per cento a 17 per cento) sia in quello delle altre liste del centrosinistra (40 per cento a 12 per cento), mentre Giachetti si attesta all’8 per cento e al 6 per cento sui due elettorati presso i quali, tuttavia, si registra una quota elevata di incerti (32 per cento e 37 per cento).
Da ultimo, in queste settimane si è parlato della possibilità che Renzi possa uscire dal Pd per fondare un proprio partito. La cautela è ovviamente d’obbligo in questi casi, perché è difficile misurare le intenzioni di voto ignorando quali potrebbero essere le motivazioni alla base dello «strappo» (e il relativo consenso), nonché il nome, il posizionamento e le strategie previste dalla nuova formazione. Pur con la prudenza del caso, secondo il sondaggio il partito di Renzi potrebbe raccogliere il consenso del 3,4% degli elettori corrispondente al 6,1% dei voti validi. Il consenso proverrebbe in larga misura dal Pd (73 per cento), dagli astenuti (12 per cento), da Forza Italia e Noi con l’Italia (8 per cento).
Ciò sta a significare che il Pd rischierebbe di indebolirsi, non potendo al momento compensare la perdita di voti con il ritorno di ex elettori che il 4 marzo scorso hanno abbandonato il partito per la scarsa sintonia con Renzi.
Indubbiamente l’ipotesi di una nuova scissione, questa volta ad opera di Renzi, rischia di togliere serenità (ma non sarebbe un fatto inedito per l’ex segretario) ad un partito alle prese con quella che si prospetta come «una lunga traversata del deserto». E anche questo non sarebbe un fatto inedito.
il manifesto 15.12.18
Sulle stragi le attese deluse dal governo
12 dicembre. Le assicurazioni sulla volontà di rendere effettivo il percorso di trasparenza, sono state disattese
di Daria Bonfietti
presidente dell’associazione dei familiari delle vittime della strage di Ustica
Abbiamo ricordato il 12 Dicembre del 1969, il giorno della bomba a Piazza Fontana con le sue vittime; quella tragica giornata ha segnato l’inizio di quel terribile periodo della nostra storia che abbiamo chiamato «strategia della tensione».
Oggi fare memoria significa ricordare le vittime e ricordare l’interminabile percorso per giungere alla verità, tra depistaggi di ogni tipo e una vicenda giudiziaria irta di ogni specie di artata contrarietà.
In quegli anni si è sviluppato un continuo, più o meno evidente, percorso di attacco alla democrazia.
Oggi oltre al rendere omaggio e al fare memoria, si deve sentire la necessità che su tanti episodi, su un così lungo e complesso periodo della nostra storia, ad una verità giudiziaria, più o meno delineata, facciano riscontro altrettanto approfondite ricerche storiche.
In un qualche modo, la Direttiva Renzi dell ‘aprile 2014 era stata vista dalle Associazioni dei parenti delle vittime proprio come un valido contributo in questo senso.
Prevedeva infatti di rendere pubblici, depositandoli presso l’archivio centrale dello Stato, tutti gli atti delle più svariate Amministrazioni dello stato, dai servizi, ai ministeri, agli apparati militari e di pubblica sicurezza, finanche questure e prefetture.
Poteva essere davvero lo strumento per cambiare l’atteggiamento dello Stato: non l’entità complessa che contribuisce a nascondere, ma vero protagonista della trasparenza nell’interesse dei cittadini. Quindi la base per una nuova stagione di studi storici approfonditi e documentati.
Ma nelle fasi d’attuazione sono state preponderanti le delusioni per gli esiti ampiamente insufficienti dell’operazione, fino ad arrivare, verso la fine della scorsa legislatura, ad un documento delle Associazioni fortemente critico; alla chiusura dei lavori di quel Comitato consultivo che doveva operare per l’effettiva realizzazione, non si è potuto che esprimere un giudizio negativo sui risultati dell’operazione stessa e fare nel contempo una serie di proposte per una vera attuazione della Direttiva.
All’inizio della nuova legislatura, in un incontro con il presidente della Camera Fico e del ministro della giustizia le associazioni delle vittime avevano avuto ufficiali assicurazioni sulla volontà di rendere effettivo il percorso di trasparenza, ma ancor oggi l’operazione trasparenza legata alla Direttiva stenta a mettersi in moto e non si vedono i segnali di un rinnovato impegno.
E allora se è stato doveroso e positivo rendere omaggio alle vittime di Piazza Fontana e impegnarsi ancora per la Memoria di quella tragedia, bisogna trovare ancor più la forza, come impegno civile, per la necessaria trasparenza e per poter scrivere tutta la storia di questo Paese, bisogna trovare insomma la forza e l’impegno per ribadire che una approfondita rilettura e ricostruzione del passato, della storia, diventa indispensabile per la democrazia di un Paese.
il manifesto 15.12.18
«La visita di Salvini in Israele nel disprezzo del processo di pace»
di Luisa Morgantini
presidente di Assopace Palestina
Assopace Palestina, impegnata per una soluzione con giustizia della vicenda israelo – palestinese, esprime la convinzione che tale soluzione sia possibile solo con la fine dell’occupazione militare israeliana e la colonizzazione dei territori palestinesi in atto ormai da piu’ di 50 anni, in totale dispregio della legalità internazionale, delle innumerevoli deliberazioni delle Nazioni Unite e della posizione dell’Unione Europea; esprime pertanto il suo dissenso per le vergognose dichiarazioni del Ministro degli Interni Matteo Salvini fatte durante la sua recente visita in Israele.
Esse costituiscono una vergogna per l’Italia e per i popoli e le persone che credono nei principi espressi nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e che gli Stati firmatari come l’Italia sono doverosamente impegnati ad applicare. Il ministro Salvini con la tracotanza che lo contraddistingue si è arrogato il diritto di dichiarare, contro le regole internazionali, che Gerusalemme è la capitale di Israele, che Hezbollah, partito legittimamente al governo in Libano, è una forza terrorista. Queste dichiarazioni hanno tra l’altro messo in pericolo la nostra missione Unifil che ha un mandato di controllo rigorosamente super partes al confine fra Libano e Israele.
Il ministro ha anche promesso grandi sviluppi dei rapporti commerciali e militari con Israele, che egli considera un baluardo dell’Europa contro il terrorismo di matrice islamica, mentre noi auspichiamo e chiediamo che l’ Italia cessi ogni collaborazione militare con Israele che usa le armi per uccidere la popolazione palestinese.
La sua visita è stata anche fortemente criticata in diversi articoli del giornale Haaretz, che esprimono preoccupazione per le posizioni razziste nei confronti degli immigrati e dei rifugiati e per le frasi da lui usate che parafrasavano celebri detti mussoliniani. Davanti allo Yad Vashem il ministro Salvini ha trovato anche un gruppo di israeliani con il parlamentare Dov Khenin di Hadash che contestavano la sua presenza e l’uso strumentale da lui fatto di un luogo da onorare come lo Yad Vashem. Il Presidente israeliano Reuven Rivlin, adducendo motivi di tempo, si è spinto ancora oltre, non ricevendo il ministro italiano; sono note le posizioni critiche di Rivlin nei confronti delle alleanze del governo Netaniahu con la destra europea, che a noi ricordano l’alleanza in tempi passati tra Israele ed il Sud Africa dell’apartheid.
Assopace Palestina fa appello a tutte le forze democratiche, al Presidente della Repubblica, al Parlamento e in particolare al M5S, ricordando che il ministro Di Maio durante una visita nei territori occupati prima di siglare il contratto di governo con la Lega, dichiarò ai media che appena giunti al governo avrebbero riconosciuto lo Stato di Palestina.
Ci auguriamo che le posizioni espresse dal mìnistro Salvini vengano smentite dal Parlamento, dal governo italiano e dal Presidente della Repubblica, per riaffermare che l’Italia continua ad essere in linea con la posizione dell’Unione europea e dell’Onu per la fine dell’occupazione militare, il blocco dell’espansione coloniale, cosi come quello di Gaza e il ripristino della legalità violata da Israele.
il manifesto 15.12.18
Governo pronto al blitz sui contributi editoria
Affondo al pluralismo. Ghigliottina nella manovra contro la stampa in cooperativa e non profit. E la Lega resta a guardare
di Matteo Bartocci
ROMA Il nostro obiettivo è disintossicare le testate dai contributi pubblici dando loro il tempo di accelerare la raccolta pubblicitaria». Luigi Di Maio, in veste di ministro per lo Sviluppo, annuncia alla commissione di vigilanza Rai l’arrivo nella legge di bilancio di un emendamento del governo che abbatterà in tre anni i contributi diretti all’editoria fino ad azzerarli del tutto.
«L’emendamento – spiega ancora il leader 5 Stelle – tutela le testate locali che hanno difficoltà a raccogliere la pubblicità con un tetto» (al di sotto del quale il finanziamento resta almeno nei tre anni, ndr)».
Il ministro – senza citarlo espressamente -, critica Avvenire (il quotidiano più grande che riceve i contributi diretti) e attacca invece in modo aperto Radio Radicale: «Controllassero i loro costi, ci sono radio sul mercato che spendono molto meno».
Il ministro, già che c’è, annuncia anche il varo di un canale Rai Istituzioni che, in prospettiva, forse potrebbe svolgere la funzione di cronaca parlamentare svolta oggi dalla radio fondata da Pannella.
Una radio, per inciso, che non trasmette altro che requiem (l’unica musica diffusa) e cronache integrali di processi o eventi politico-istituzionali, con un archivio digitale pubblico sterminato e inestimabile.
«Libertà di informazione è non dipendere da un emendamento alla legge di bilancio»
Il paradosso Di Maio
Di Maio dà la sua motivazione per questi tagli: «Libertà di informazione è non dipendere da un emendamento alla legge di bilancio».
Un ragionamento paradossale, perché è proprio un suo emendamento alla legge di bilancio a mettere a rischio la libertà di informazione. Senza il suo emendamento, infatti, il fondo per il pluralismo resterebbe governato dalla legge e non dall’arbitrio di un ministro.
IL DIPARTIMENTO EDITORIA oggi ha solo una funzione amministrativa: un risultato storico raggiunto soltanto nel 2017 dopo un duro scontro con il governo Renzi sulla stessa identica materia («Un solo padrino», titolammo allora con una foto in prima pagina regalataci da Al Pacino con in mano il manifesto).
All’epoca Renzi accarezzava la pancia grillina con i tagli ai giornali ma finì per far approvare una legge seria e dai costi contenuti.
Una legge parlamentare, però, non un atto del governo in una manovra di fine anno blindata da una tripla fiducia con nessuna discussione in commissione o in aula.
Un modo di legiferare che se l’avesse fatto il premier di Rignano i 5 Stelle si sarebbero incatenati ai portoni delle camere in diretta Facebook.
Invece va così: un Def carta straccia, una fiducia alla camera su un testo vuoto, la commissione Bilancio del senato costretta ieri a chiudere i lavori per mancanza dei testi da parte del governo.
Mentre a due settimane dall’esercizio provvisorio il ministro dell’Economia è chiuso a Bruxelles in trattativa perenne con la commissione non solo sulle misure concrete ma perfino sui saldi della manovra.
Uno spettacolo indecente a cui, purtroppo, le istituzioni e il paese sembrano rassegnati.
LA LEGA FA IL PESCE in barile. C’è chi parla di accordo chiuso direttamente da Salvini, che avrebbe scambiato la chiusura dei giornali tanto cara ai 5 Stelle con altre contropartite nella manovra, magari fatte di cemento e tunnel e non di povera carta.
La pressione sulla maggioranza però è fortissima. Assordante.
Si sgolano da giorni i parlamentari di Pd, Leu, Fdi e Forza Italia contro i tagli al pluralismo.
La presidente del senato è intervenuta già due volte negli ultimi giorni. Mattarella addirittura sette. (Fico non pervenuto).
Ma lo scandalo monta anche fuori dal parlamento.
Soltanto nella giornata di ieri hanno chiesto al governo di astenersi dal taglio l’Associazione stampa parlamentare, l’ordine nazionale dei giornalisti e il sindacato Fnsi, la Federazione della stampa cattolica (Fisc), tutte le associazioni degli editori medio-piccoli.
Alla vigilia dell’inevitabile rodeo della fiducia, dopo gli ordini del giorno approvati in moltissimi enti locali, è quasi costretta a intervenire anche la Conferenza Stato-Regioni, il cui presidente Bonaccini chiede al governo non solo di tutelare le radio-tv locali nella nuova graduatoria unica per il riparto dei fondi pubblici ma anche di non cancellare il fondo per il pluralismo per le testate storiche nazionali e non.
DI MAIO FA ORECCHIE da mercante. Se davvero fossero vere le bozze che girano del suo emendamento, si avrebbe il paradosso del taglio dei contributi diretti ai giornali in cooperativa e non profit dal 2019 e quello dei contributi indiretti (che vanno a tutti) dal 2020.
Sì, forse ha ragione: questa è davvero una politica tossica.
il manifesto 15.12.18
Camusso rilancia la «candidatura unitaria» di Landini
Sindacato. Dal congresso della Fiom, che oggi riconfermerà Re David alla guida dei metalmeccanici, la segretaria uscente tende una mano a Colla, candidato della minoranza e affronta anche il tema della fase politica: «Si deve dare rappresentanza al mondo del lavoro. Qualcosa va immaginato anche a lungo termine a sinistra»
di Massimo Franchi
RICCIONE Sullo stesso palco del congresso Fiom dove nel 2010 e nel 2014 era stata fischiata, Susanna Camusso rivendica l’aver «ricucito le ferite» di quel tempo e aver lanciato «un processo di riunificazione unitaria» che ha portato alla proposta che sia proprio Maurizio Landini, lo stesso che la contestò quattro anni fa, a prendere il suo posto alla guida della Cgil. E alla fine di quaranta minuti di un intervento che è partito da un’analisi politica innovativa si giunge agli applausi della platea al nome di «Maurizio» – «lo avete applaudito ogni volta che è stato fatto questi due giorni, suvvia», scherza Camusso – e al regalo del giubbotto della Fiom in un abbraccio con Francesca Re David, che oggi verrà riconfermata segretaria generale dei metallurgici della Cgil.
IN UN QUADRO POLITICO totalmente mutato – «l’idea di disintermediazione di M5s e Lega è diversa: capiscono solo il linguaggio della contestazione, non del conflitto, e teorizzano una democrazia senza partecipazione, per questo dobbiamo accelerare la richiesta di una legge sulla rappresentanza per far votare e contare i lavoratori» – Camusso arriva a delineare la necessità di «rappresentare il mondo del lavoro in politica»: «lungi da me pensare ad una supplenza della politica, ma qualcosa va immaginato anche a lungo termine a sinistra».
IL PALCO DI RICCIONE sancisce dunque ufficialmente la ricomposizione fra Fiom e Cgil – basata sulla «costruzione della Carta dei diritti e dei referendum» anti Jobs act che hanno riconnesso la Cgil con il suo popolo («lì abbiamo scoperto la rottura delle persone con la politica e riconquistato la nostra autonomia e credibilità» – e disegna i contorni della nuova segreteria confederale guidata da Landini che continuerà a basarsi su «autonomia e partecipazione». La preoccupazione di Camusso è infatti tutta per la decisione – assai probabile ma non ancora certa – da parte dell’area che appoggia Vincenzo Colla – pensionati, chimici, edili – di esplicitare la propria candidatura nel Direttivo Cgil del 20 dicembre. Si arriverebbe così ad una spaccatura formalizzata e a due liste che appoggiano lo stesso documento congressuale, una prima volta paradossale visto che «Il lavoro è» ha ricevuto il 98% dei voti nelle assemblee sui luoghi di lavoro.
L’UNICO MODO per motivare una decisione del genere sarebbe l’affermare che Vincenzo Colla rappresenta meglio di Maurizio Landini il documento stesso. E allora Camusso fissa paletti ben precisi per spiegare la sua scelta e per inviare un messaggio di pace alla nuova minoranza, spaventata da una Cgil «fiomizzata». «L’unità non è un processo di colonizzazione, il processo unitario è collettivo: l’unità in questi anni è stata costruita non perché si sono messe bandierine ma perché c’è stata una elaborazione comune». E allora «niente uomo solo al comando», ma «gestione collettiva» e «pluralismo anche in segreteria». La proposta di Landini è spiegata come «il risultato del lavoro della segreteria confederale» che «come squadra ha lavorato bene e dovrà continuare a farlo» ed è stata fatta ««a fine congresso per evitare che la scelta del nuovo segretario fosse discussa solo sulla stampa».
LA CONCLUSIONE è un altro chiaro messaggio a Vincenzo Colla: «Bisogna sentirsi a disposizione dell’organizzazione e non pensare che l’organizzazione è a tua disposizione». Si vedrà giovedì prossimo se l’invito avrà sortito effetto.
L’elezione del nuovo segretario della Cgil avverrà a Bari a fine gennaio con un meccanismo complesso. Il congresso formato da circa 800 delegati – quasi totalmente eletti e fra i quali i pro-Landini dovrebbero essere in maggioranza di circa cento – eleggerà la nuova Assemblea generale che a sua volta eleggerà il nuovo segretario. È qui che i delegati si troverebbero chiamati a votare su due liste contrapposte, nonostante entrambe appoggino lo stesso documento congressuale.
OGGI INTANTO Francesca Re David sarà confermata segretaria generale della Fiom. È il penultimo segretario di categoria dopo l’avvicendamento ai precari del Nidil con Andrea Borghesi (e il ritiro della «colliana» Sabina Di Marco) e la conferma di Ivana Galli agli agroalimentaristi della Flai: l’ultimo sarà da lunedì a Colli del Tronto (Ascoli Piceno) Francesco Sinopoli della Flc, lavoratori della conoscenza. A metà gennaio toccherà a Ivan Pedretti, leader dei pensionati.
Il Fatto 15.12.18
Il vero papiro e i falsi esperti
La Procura stabilisce che il documento non è autentico sulla base di un esposto di Canfora, la cui tesi è minoritaria tra gli esperti internazionali, e senza fare accertamenti scientifici o sentire il venditore
Chiasso in su, tira un’altra aria: quando Luciano Canfora, apostolo della falsità del papiro, ha postato su papylist, la mailing list per i papirologi di tutto il mondo, un comunicato sulla “definitiva chiusura del caso” nelle stanze della Procura torinese, Andrea Jördens, presidente dell’Associazione internazionale papirologi, gli ha chiesto: “Ma che c’entra questo con la scienza?”. Vediamo gli antefatti. Il Papiro di Artemidoro è un rotolo papiraceo emerso nel 1971 in mano al dott. Simonian (che ha venduto molti papiri alle università di Treviri, Heidelberg, e a Milano il famoso Posidippo). Come spesso accade ai papiri, il luogo di rinvenimento non è noto: in Germania arrivò entro un ammasso di cartapesta. È un papiro singolare, per le dimensioni (è lungo due metri e mezzo), ma soprattutto perché oltre a cinque colonne di testo greco contiene una carta geografica e due serie di disegni, di animali e di figura umana. Seppi che era sul mercato verso il 1997, dopo i necessari accertamenti sull’autenticità e la liceità della vendita provai ad acquistarlo per il Getty Research Institute (Los Angeles), di cui ero allora direttore. Ma il prezzo richiesto era più alto di quanto disponevo in bilancio.
Il grande paleografo Guglielmo Cavallo, a conoscenza del Papiro, mi mise in contatto con Claudio Gallazzi, papirologo dell’Università di Milano, e questi con Bärbel Kramer, papirologa a Heidelberg. Anni dopo, convinto come ero e sono che un documento di tale importanza debba essere in una collezione pubblica, ne parlai con Giuliano Urbani, allora ministro dei Beni culturali, che ne suggerì l’acquisto alla Compagnia di San Paolo, perfezionato nel 2004. Prima dell’edizione critica (2008), il Papiro fu presentato in tre mostre, a Torino e poi ai Musei Egizi di Berlino e di Monaco. Un articolo di Canfora sul Corriere della Sera (15 settembre 2006) ne sostenne la falsità, e io gli risposi su Repubblica.
Da allora parte una controversia: da un lato gli studi scientifici, centinaia in tutto il mondo, dall’altro la campagna mediatica (quasi soltanto italiana). Canfora interviene sul tema con un’intensità (qualcosa come 10 libri, 6 fascicoli di una sua rivista e 40 articoli di giornale) con cui non saprei mai scendere in gara. Questa campagna, fortunata nei media nostrani, non ha avuto successo nella letteratura scientifica: dei circa 200 studiosi che se ne sono occupati, se si escludono da un lato Canfora e il suo gruppo di lavoro, dall’altro gli editori del Papiro (me compreso) e collaboratori, la stragrande maggioranza si è espressa in favore dell’autenticità. Per citare solo due grandissimi grecisti, Martin West ha definito “disingenuous” (in mala fede) l’argomentare di Canfora, e Wofgang Luppe ha scritto sull’autorevole rivista Gnomon che la genuinità del Papiro è fuori discussione. Molti aspetti del Papiro sono oggetto di dibattito scientifico: Giambattista D’Alessio ha dimostrato che i segmenti del rotolo vanno rimontati in un ordine diverso da quello del restauro eseguito a Milano; alcuni studiosi attribuiscono tutto il testo del Papiro ad Artemidoro di Efeso, altri ritengono che sia sua solo una parte. Temi specialistici, che non mettono in dubbio l’autenticità del Papiro e la sua datazione al I secolo d.C., confermata da analisi paleografiche, fisiche e chimiche.
Ma che cosa ha da dire il procuratore Spataro? Il suo documento, che accusa di truffa Simonian fondandosi su un esposto di Canfora (2013), non è una “sentenza”, come qualche giornale ha scritto, ma una richiesta di archiviazione (accolta dal Gip): invitiamo a leggerlo online sul fattoquotidiano.it. La struttura argomentativa è tutto un ragionare sulle colpe dell’accusato, per poi dire all’ultima pagina che il reato (se c’era) è caduto in prescrizione. Su 34 pagine, metà sono dedicate a divagazioni o a testimonianze su fatti che nulla hanno a che vedere con l’autenticità del Papiro. Fra i testimoni ascoltati, l’unico papirologo è Gallazzi, che ne riafferma l’autenticità. Ma in sede di conclusioni si assumono come inoppugnabili le asserzioni di Canfora (l’unico di cui si citino le opere), in quanto “sostiene motivatamente” la falsità. Spataro confessa di non aver esaminato le 700 pagine dell’edizione critica, bastandogli “alcune pagine, reperibili sul web, acquisite agli atti del procedimento”; né ha cognizione dell’abbondante bibliografia e degli argomenti degli studiosi che si sono pronunciati a favore dell’autenticità. Ricorda che i carabinieri del Nucleo Tutela del patrimonio culturale di Roma raccomandarono di “nominare un consulente scientifico ‘terzo’”, ma ci rivela che lo ritenne inutile.
Spataro proclama che la foto dell’ammasso papiraceo “è risultata un clamoroso falso”, e che “tale conclusione non è più contestata”, ma cita solo l’esperto di Canfora (il vicequestore Silio Bozzi) e ignora le confutazioni del grande filologo Jürgen Hammerstaedt e degli esperti di fotografia Paolo Morello e Hans Baumann. Sposa la tesi canforiana che il Papiro sarebbe l’opera di un falsario del sec. XIX, tal Simonidis, quando poi lo svedese Tommy Wasserman, che ha studiato i papiri notoriamente falsificati dal Simonidis, lo esclude espressamente. Valorizza la testimonianza di Eleni Vassilika, già direttrice del Pelizaeus-Museum di Hildesheim, perché “fece emergere dei dubbi sull’autenticità di vari reperti lì allocati, che erano stati acquistati dal Simonian”, ma tace che il tribunale tedesco si pronunciò a favore di Simonian, e la Vassilika fu allontanata dalla direzione del museo (Die Welt, 25 marzo 2004).
Spataro eredita poi da Canfora un approccio schizofrenico: sostiene che il Papiro è un falso, ma anche che l’Egitto dovrebbe rivendicarlo come autentico. Immagina che le illazioni di Canfora sugli inchiostri usati nel papiro siano confermate da “accertamenti tecnici recentemente disposti dal MiBAC”, per poi riconoscere una pagina dopo che “tali analisi sono ancora in corso”. E ignora i risultati delle analisi pubblicate da Pier Andrea Mandò e altri su riviste scientifiche internazionali, che vanno in direzione opposta a quanto asserito da Canfora. È sulla base di questo zoppicante argomentare che Spataro si è convinto che ogni perizia è inutile, poiché “la certezza del fatto è abbondantemente provata, quanto meno sulla base di elementi indiziari gravi, precisi e concordanti”. Ma tali indizi erano davvero abbastanza per non consultare esperti, per ignorare la letteratura scientifica, per non ascoltare nemmeno Simonian, accusato di truffa? Ed era proprio inevitabile far scattare i termini della prescrizione, impedendo così al Simonian di poter chiedere una perizia di parte? Emettendo di fatto, al riparo della prescrizione, un giudizio di colpevolezza senza ascoltare pareri terzi?
Insomma, il documento Spataro non aggiunge nulla a quel che si sapeva sul Papiro, e adotta l’opinione di un solo studioso ignorando quasi tutta la bibliografia scientifica. Eppure è su questa base che molti hanno scritto sui giornali con vari gradi di stoltezza, fingendo di scambiare un pronunciamento di tal fatta per un meditato giudizio scientifico. Quanto al dottor Spataro, se con la sua dissertazione aspira a una laurea in papirologia, la sentenza è questa: bocciato.
il manifesto 15.12.18
Aborto, in Irlanda cade un altro tabù
«Una giornata storica». L’interruzione di gravidanza non è più reato. Ma nella legge resta qualche punto critico, come l’obiezione di coscienza e il termine minimo di tre giorni fra il primo appuntamento con il medico e l’intervento
di Vincenzo Maccarrone
DUBLINO Dopo il voto di giovedì notte del Senato manca solo la firma del presidente della Repubblica Michael D. Higgins (fresco di rielezione) perché il diritto all’aborto diventi finalmente legge nella Repubblica d’Irlanda. Sono passati quasi sette mesi dallo storico referendum dello scorso 25 maggio che ha sancito a larghissima maggioranza l’abolizione dell’ottavo emendamento della Costituzione, che proibiva l’aborto in ogni circostanza, se non in caso di pericolo di vita per la madre. All’epoca i due terzi dei votanti si erano espressi a favore dell’abolizione, consegnando al parlamento un inequivocabile mandato per legiferare sulla questione.
UNA VITTORIA ENORME per i movimenti femministi e per i diritti civili che per anni avevano lottato per cambiare una legislazione inumana che costringeva ogni anno migliaia di donne a recarsi all’estero per abortire legalmente, o a abortire senza assistenza medica in Irlanda, ordinando la pillola su internet e rischiando fino a 14 anni di carcere. Una legislazione che nel 2012 aveva anche causato la tragica morte di una giovane donna indiana, Savita Halappanavar, per una setticemia a seguito di un aborto negato.
La nuova legge prevede la possibilità di abortire senza restrizioni fino a 12 settimane dal concepimento, con la possibilità di estendere il termine in caso di malformazioni fatali del feto o gravi rischi per la salute della madre. Orla O’Connor, co-direttrice di Together for Yes, la campagna referendaria a supporto dell’abolizione dell’ottavo emendamento, ha parlato di «una giornata storica nella realizzazione dei diritti delle donne in Irlanda». Il ministro della Salute Simon Harris ha commentato il voto dicendo che «il popolo d’Irlanda ha votato per abrogare l’ottavo emendamento perché potessimo prenderci cura delle donne con compassione. Oggi abbiamo varato la legge per rendere tutto questo una realtà».
Secondo Harris, gli ospedali irlandesi saranno in grado di praticare le prime interruzioni di gravidanza a partire dal primo gennaio 2019, anche se nel paese permane scetticismo sull’effettiva capacità del sistema sanitario di accogliere rapidamente la nuova legislazione.
Alcuni ospedali hanno già dichiarato di essere pronti a rispettare il termine fissato dal ministro delle Salute. L’Irish Times, il più importante quotidiano irlandese, ha notato che al momento non è dato sapere quanti medici praticheranno l’interruzione di gravidanza né quali ospedali siano effettivamente pronti per l’inizio dell’anno nuovo.
Se da un lato la legislazione costituisce un grande passo avanti rispetto al passato non mancano tuttavia vari problemi, che i movimenti per il diritto all’aborto non hanno mancato di sottolineare e sui quali nei prossimi mesi continueranno a mobilitarsi. La legge introduce per una donna che volesse abortire un termine minimo di tre giorni da far passare fra il primo appuntamento col medico e l’interruzione di gravidanza. Giustificato facendo riferimento all’Olanda, che ha una legislazione simile, questo appare in realtà il risultato di un compromesso all’interno del Fine Gael, il partito di centro-destra attualmente al governo, per convincere l’ala più conservatrice a sostenere il referendum e la legislazione sull’aborto. La misura è stata criticata sia da medici come Peter Boylan, il capo dell’Institute of Obstetricians and Gynecologists, che ha definito la misura «paternalistica», sia dai movimenti, che hanno fatto notare come questa scelta impatterà in maniera sproporzionata sulle donne working class e migranti, per le quali vedere un dottore due volte in un tempo ravvicinato potrebbe risultare più difficile. Un secondo problema è quello, ben noto in Italia, dell’obiezione di coscienza di medici e professionisti sanitari. Al momento la legge prevede la possibilità dell’obiezione di coscienza, anche se l’obbiettore dovrà comunque riferire la donna ad un medico non obbiettore. Se però un numero molto elevato di medici e professionisti sanitari dovesse professarsi obiettore, si rischierebbe di riproporre una situazione simile a quella italiana, dove in molte zone è il diritto all’aborto è de facto limitato dall’assenza di medici non-obiettori.
Organizzazioni come Amnesty International hanno poi notato come la legislazione manchi di chiarezza nella regolamentazione degli aborti oltre le 12 settimane. Cosa fare nel caso di malformazioni del feto severe ma non fatali? Come definire «un grave rischio di salute»? Occorrerà quindi continuare la lotta perché l’accesso all’aborto sia davvero universale in Irlanda, anche se il voto di giovedì segna comunque un passo in avanti davvero impensabile fino a pochi anni fa.
Repubblica 15.12.18
Francia
Annie Ernaux “I gilet gialli? Il nuovo ’68”
La scrittrice, della quale esce in Italia “ La vergogna”, parla delle proteste che agitano il suo Paese e si schiera nettamente. E degli intellettuali diffidenti dice: “È la fotografia dell’abisso che li separa da un certo tipo di popolazione”
intervista di Anais Ginori
PARIGI È poco elegante dire «l’avevo detto», e difatti Annie Ernaux, parlando al telefono con la sua voce da ragazzina indomita, non pronuncia mai questa frase.
Concede solo: «Mi aspettavo che succedesse qualcosa» a proposito dei gilet gialli che sfuggono a qualsiasi categoria, a metà tra movimento sociale, rivolta, insurrezione. Se c’è una scrittrice francese che ha descritto il mondo degli invisibili, quella “piccola gente” che fino a qualche tempo fa non aveva rappresentanza, nemmeno in letteratura, è proprio Ernaux. Negli anni Ottanta, quando pubblicò Il Posto, nel quale raccontava la vita grama dei suoi genitori nel bar-alimentari di Yvetot dove non c’era neppure un frigorifero, il milieu intellettuale parigino l’aveva snobbata. «Mi accusavano di essere populista», ricorda Ernaux, 78 anni, insegnante di liceo che ha incominciato a scrivere per «vendicare la sua razza». Ernaux è sempre rimasta un po’ in disparte, scegliendo di restare nella casa di famiglia a Cergy, a un’ora dalla capitale. Non ha mai dimenticato da dove viene. Ne La vergogna appena tradotto da Lorenzo Flabbi per l’Orma descrive un pomeriggio dei suoi dodici anni nel quale si è trasformata in una nemica di classe per i suoi genitori.
Lei appoggia con convinzione i gilet gialli. Perché?
«A primavera avevo già sostenuto gli scioperi dei ferrovieri contro la riforma del governo, ma l’arroganza del potere era andata avanti come se niente fosse. Questa volta è diverso. Siamo davanti a una protesta che è davvero popolare perché riguarda persone accomunate da una condizione esistenziale: sentirsi disprezzate, escluse. Ricordo ancora i miei genitori quando mi raccontavano con gli occhi lucidi gli anni del Front Populaire, le conquiste sociali del 1936, e commentavano: “Prima l’operaio non contava nulla”. È così che ancora oggi si sentono molti francesi. Macron stesso, tradito dal suo innato disprezzo di classe, l’ha detto: “Ci sono le persone che hanno successo e coloro che invece non sono nulla”».
Come spiegare che così pochi intellettuali si siano avvicinati alla protesta?
«Sin dall’inizio c’è stata una diffidenza tra scrittori e artisti. È la fotografia dell’abisso che li separa da un certo tipo di popolazione. La collera che sfila nelle strade viene da un luogo sociale e culturale ignoto per molti intellettuali: non è Parigi, ma la provincia, i sobborghi delle medie città, un mondo sommerso che di solito interessa poco. Per fortuna ci sono sempre più eccezioni nel mondo letterario.
Il libro che ha vinto il Goncourt quest’anno, Leurs enfants après eux di Nicolas Mathieu è l’immersione in una valle perduta delle regioni siderurgiche a est della Francia. È un libro che rappresenta esattamente il sentimento di molti: l’assenza di speranza per i propri figli. I miei genitori mi hanno cresciuto nell’idea che avrei potuto superarli, vivere meglio di loro. Non li ho delusi anche se questo ha provocato una cesura tra noi».
La diffidenza verso il movimento non è dovuta al fatto che c’è una componente di estrema destra?
«Ho visto le immagini di gilet gialli che hanno fatto scendere dei migranti da un camion. Ho sentito slogan razzisti, omofobi. Ho letto le teorie assurde sul complotto del governo nell’attentato di Strasburgo, le tante fake news diffuse in Rete. Ci sono derive inquietanti. Non sono d’accordo con tutte le espressioni di questo movimento, ma come possiamo lamentarci della non partecipazione alla vita politica, dell’astensione, e poi ignorare le ragioni profonde della collera quando finalmente occupano lo spazio pubblico? Mi dispiace: sarò sempre dalla parte di coloro che non contano nulla, dei dominati che per natura sono impotenti. È vero che non sono più una di loro, ma sono marchiata a pelle da quella vergogna».
Anche se sono autori di violenze, saccheggi, attacchi contro i poliziotti?
«Su questo sono sempre stata chiara, finora siamo nella violenza su beni materiali, o simbolica come contro l’Arco di Trionfo. Non dico che approvo, ma lo capisco.
Parliamo anche delle violenze della polizia, del liceo dove centinaia di ragazzi sono stati umiliati dagli agenti, fatti mettere a ginocchio, degli oltre mille arresti preventivi del weekend scorso. La colpa è anche di Macron che ha fatto montare la collera, non ascoltando i primi segnali, restando in silenzio per non cedere alla pressione e perché lui si sente maître des horloges (padrone degli orologi, ndr), un’espressione terrificante che dimostra quanto sia sconnesso dalla realtà. Qualche giorno fa un portavoce del governo, dopo gli attentati, ha chiesto ai manifestanti di essere “ragionevoli”, come se fossero dei bambini da educare.
Non vedo il nesso tra la minaccia terrorista e il diritto di manifestare.
Sono cose ben distinte».
Macron ha finalmente parlato, fatto concessioni sui salari, le pensioni. Perché non basta?
«Macron offre qualcosa, ma non sono gli accordi di Grenelle che avevano portato a vere conquiste dopo il Sessantotto. Per ora rifiuta di reintrodurre la patrimoniale per i più ricchi. Il problema non sono solo i contenuti ma i modi. Il presidente è un perfetto emblema del mondo dei dominanti. Il suo discorso era efficace sul piano comunicativo ma era rivolto a compattare i suoi elettori. Quando diceva “voi francesi” io stessa non avevo la sensazione che si rivolgesse a me. Macron ha fatto un esercizio ben preparato nella forma ma vuoto. Ha cercato di dimostrare che è saldamente al comando del Paese. È vero il contrario. Ha fatto riemergere la figura del Re nella sua Versailles lontano dal popolo.
Profetizzava un “mondo nuovo” senza ricordare che la Francia si è costruita attraverso il desiderio di uguaglianza, le rivoluzioni. Mia madre mi diceva: “Non siamo più ai tempi dei Re”, evocando il peggior regime possibile. Non c’è un mondo nuovo, c’è solo una Storia che va avanti, si costruisce faticosamente anche con la memoria del passato”.
Quale potrebbe essere il seguito del movimento?
«La cosa più bella non è solo aver finalmente puntato i riflettori su persone di cui prima nessuno parlava. In questo senso l’idea delle casacche fosforescenti è stata geniale. Ho letto da qualche parte che è stata una donna ad averla, non mi stupisce. Indossare il gilet giallo è anche un modo di trovarsi insieme, riscoprire la fraternità, come si vede nei blocchi stradali alle rotatorie dove vengono organizzati barbecue e qualcuno porta la fisarmonica. I paragoni storici sono sbagliati ma sono scene che mi ricordano il Sessantotto. Sta succedendo qualcosa di nuovo e nessuno, a meno di essere un oracolo, può sapere come andrà a finire. Comunque vada, anche se le manifestazioni in piazza non continueranno, penso che ci sia l’inizio di una presa di coscienza di molte persone che prima non avevano diritto di parola».
Il Fatto 15.12.18
Il giustiziere Chérif e gli altri “esclusi”
di Maddalena Oliva
“Per vendicare i fratelli morti in Siria”. Questo avrebbe detto Chérif Chekat subito dopo aver sparato ai mercatini di Natale al tassista che lo ha accompagnato a Neudorf, “graziato” solo perché “musulmano praticante”. Non è strano che si sia fatto portare nel quartiere di sempre. Tagliare i ponti con amici e parenti era, nelle forme novecentesche di terrorismo, una regola ferrea: il cerchio delle ricerche si stringe sempre, prima di tutto, attorno ai legami affettivi del sospettato. Ma il nuovo radicalismo ha mutato anche questa certezza, perché attecchisce spesso in un ambiente dove lo “stigma etnico” tende a compattare – famiglia, amici, quartiere – verso l’esterno.
“Quello che sta facendo è giusto, è positivo. Sta andando a difendere un Paese, la Siria. Sta portando avanti un’idea, andare ad aiutare un popolo in difficoltà per colpa vostra”. Morire per difendere i “fratelli siriani”, per combattere “l’ingiustizia”, “per aiutare un indifeso, lontano”: non c’è bisogno di andare in Francia, a Strasburgo o nei sobborghi di Parigi, o in Belgio. Così Dr. Domino difese il suo amico rapper Anas el Abboubi, il primo jihadista “autoctono” di casa nostra che, prima di partire per Daesh in Siria, fu fermato e arrestato dall’Antiterrorismo e dalla Digos nel 2013 a Brescia, in procinto di compiere un attentato. Su Anas pende ancora un mandato di cattura internazionale, ma se ne sono perse le tracce, probabilmente morto, in quel buco nero che ancora oggi è la Siria.
Il profilo collettivo dei cosiddetti “terroristi homegrown” – a guardare i tanti studi ormai disponibili in materia – segue gli stessi passaggi individuali: figli nati in Occidente da genitori musulmani che lavorano nei nostri Paesi, scuole e vita di quartiere, e poi la piccola delinquenza, il carcere, la radicalizzazione (attraverso il carcere stesso, diventato luogo classico di reclutamento, o nel piccolo gruppo degli amici di infanzia), talvolta il viaggio nei teatri del jihad.
La “vita di strada” espone non solo al contatto quotidiano con la criminalità e i traffici illegali, ma anche ai continui controlli della polizia (questo vale specialmente per i ragazzi di banlieue, dopo la svolta nella politica criminale francese negli anni Novanta). Le condanne non sono mai pesanti, ma, come accade per molti, segnano il passaggio dalla piccola criminalità alla nuova identità politica e religiosa. L’ideologia radicale, offrendo un’identità “resistenziale”, permette una ristrutturazione della personalità fondata sul riscatto personale nella “causa”.
È il jihad che è divenuto realtà dentro e fuori il carcere. Davanti alla Legge, il solo volto dello Stato conosciuto da questi ragazzi, la loro identità assume i tratti della vittima dell’ingiustizia. Una vittimizzazione fondata sulla convinzione che l’essere “arabi” o “africani”, e comunque musulmani, ne faccia cittadini con diritti affievoliti. Considerazione che inasprisce il loro risentimento non solo nei confronti della République, ma nei confronti dell’Occidente tutto.
È il “nuovo proletariato di figli di immigrati manipolati contro le classi medie” di cui tanto ha parlato Gilles Kepel (tra tutti, La fracture, Gallimard). Che sia un’islamizzazione del radicalismo o una radicalizzazione dell’islam – dibattito che impegna in Francia diversi intellettuali da anni – è la “frattura” a essere centrale: quella divisione sempre più profonda nella società francese ma non solo. La frattura identitaria che prima passava fra “destra” e “sinistra”, fra padroni e lavoratori, fra più ricchi e più poveri, e che oggi passa fra “inclusi” ed “esclusi”. Fra chi è dentro un sistema di protezione, un lavoro, la possibilità di far studiare i propri figli; e chi invece è fuori, senza lavoro, scuole, cultura, senza possibilità, senza futuro.
L’idea di sradicare il terrorista oggi non può essere una vittoria se non gli si impedisce di crescere domani. Perché non si nasce jihadisti. Jihadisti si diventa. A forza di libri, di siti web, di canali tv, di moschee anche, di disperazioni e frustrazioni, soprattutto.
E quando il risentimento diviene incontenibile è facile che i giovani Chérif – come in passato i fratelli Kouachi e Amedy Coulibaly, per restare in Francia, o Anas el Abboubi o Mohamed Jarmoune se guardiamo a casa nostra – si radicalizzino e decidano di abbracciare un’ideologia che offre loro la possibilità di rappresentarsi come implacabili “giustizieri”. Uccidono non solo le loro vittime, però. Uccidono anche, due volte, il loro Paese d’origine.
il manifesto 15.12.18
Contro la Nato e la Ue il Kosovo crea il suo esercito
Balcani. Plaudono Usa, Gran Bretagna e Germania. Mosca: sciogliere la formazione armata. Furiosa la Serbia: «Siamo all’occupazione della nostra terra, pronti a mobilitare le Forze armate»
di Yurii Colombo
Torna l’incubo della guerra nei martoriati Balcani. Ieri il parlamento del Kosovo ha votato la trasformazione della sua «Forza di sicurezza», praticamente una polizia, in un vero e proprio esercito regolare (fino ad oggi il cessate il fuoco con la Serbia era garantito da 4.000 soldati Nato). A favore hanno votato 105 deputati mentre i rappresentanti della minoranza serba hanno abbandonato l’ aula. Si prevede che l’esercito dell’autoproclamata repubblica nel 2008: un atto unilaterale che ha diviso sia l’Onu – la metà degli Stati non lo riconosce – sia l’Ue (Spagna, Grecia, Romania, Slovacchia e Cipro Nord non lo riconoscono). L’esercito consisterà in 5mila soldati, con altri 3mila riservisti: il costo dell’operazione sarà di 98 milioni di euro l’anno. La decisione era già nell’aria: proprio ieri la premier serba Ana Brnabic si era appellata a Pristina perché rinunciasse a un passo così pericoloso per la pace nella regione.
ALL’ESCALATION si è giunti dopo un’inasprimento delle relazioni tra Belgrado e Pristina iniziato il 21 novembre scorso quando il Kosovo aveva aumentato del 100% le tariffe doganali nei confronti della Serbia e della Bosnia, dopo che l’Interpol aveva rifiutato l’adesione del Kosovo anche per l’iniziativa di Belgrado. Il Kosovo importa 400-500 milioni di dollari di prodotti serbi soprattutto alimentari. L’iniziativa di Pristina mirava a distruggere i legami, anche umanitari, tra Belgrado e la minoranza serba in Kosovo: una vera e propria «pulizia etnica sotterranea» come denunciato da più parti.
BELGRADO ha chiesto subito una riunione urgente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu – visto che la decisione contraddice proprio la Risoluzione storica 1244 che assunse la Pace di Kumanovo che pose fine alla guerra Nato del 1999. Ora per il presidente serbo Nilkola Selakovic, la decisione kosovara potrebbe condurre la Serbia «a proclamare l’occupazione di parte del nostro territorio» con conseguente mobilitazione delle Forze armate serbe.
Contraddittorie le reazioni del mondo occidentale. Mentre Usa, Gran Bretagna e Germania avevano già dato da giorni semaforo verde a Pristina – la città era stracolma di bandiere americane -, ieri Jens Stolteberg, segretario della Nato ha dichiarato di «disapprovare la decisione presa malgrado le preoccupazioni espresse dalla Nato» e ora l’Alleanza potrebbe riconsiderare il proprio impegno di fronte al nuovo esercito kosovaro: non il disimpegno anticamera della guerra, ma l’aumento nel numero e nei tempi dei contingenti in campo.
SULLA STESSA lunghezza d’onda la Ue. «l’Unione europea – dice il comunicato Ue – si attende che il Kosovo continui a rispettare gli obblighi derivanti dal Primo Accordo sui principi per la normalizzazione delle relazioni con la Serbia concluso a Bruxelles nell’aprile 2013, compresi tutti gli impegni sulla sicurezza». Una condanna preoccupata – a parole – della politica doganale del Kosovo era venuto anche da Federica Mogherini.
DURISSIMA la posizione della Russia. Per Mosca le posizioni diversificate degli occidentali sono cortina fumogena per nascondere le loro responsabilità del peggioramento della situazione nei Balcani visto che «grazie all’aiuto degli Usa e di alcuni paesi Nato, l’esercito del Kosovo è stato in questi anni addestrato in armi ed equipaggiamenti». E iIl ministero degli esteri russo ha chiesto ufficialmente che la missione Onu in Kosovo adotti misure immediate per lo «scioglimento di qualsiasi formazione armata albanese-kosovara».
La Stampa 15.12.18
Il Kosovo crea l’esercito
L’ira della Serbia
“Illegale, l’Onu lo fermi”
Pristina trasforma i suoi poliziotti in militari regolari Critiche da Ue e Nato. Belgrado manda truppe al confine
di Stefano Giantin
Il dialogo difficilmente costruito che salta, scaramucce, dazi, proteste, tensione alle stelle. È sempre più grave la crisi tra Serbia e Kosovo, «nemici» che Bruxelles era riuscita a portare al tavolo negoziale per raggiungere un accordo per la normalizzazione dei rapporti, ma che da più di un mese hanno dissotterrato l’ascia di guerra, in una spirale di crisi inarrestabile.
Crisi che ieri ha toccato l’apice, con il Kosovo – ex provincia serba resasi indipendente nel 2008, riconosciuta da un centinaio di Stati, ma non da Belgrado e da cinque Paesi Ue – che ha fatto un passo storico. E assai azzardato. Ha dato infatti luce verde alla trasformazione in esercito regolare delle sue Forze di sicurezza, finora una sorta di corpo di protezione civile con armi leggere. Mossa, da lungo pianificata, accolta da festeggiamenti e caroselli, in una Pristina tappezzata da bandiere Usa e di altri Paesi amici, tra cui l’Italia, vissuta con sconcerto nelle aree fedeli a Belgrado, pavesate con vessilli serbi. Decisione che è stata criticata da Ue, Onu, Nato e Russia – ma non dagli storici alleati del Kosovo, gli Stati Uniti – per tempistica e per modalità, con Mosca che si è spinta a chiedere alla Nato di «smobilitare le formazioni albanesi».
Ma ad aver i nervi tesi è soprattutto la Serbia, che considera l’esercito di Pristina come una minaccia alla sicurezza dei serbi che vivono nel Nord del Kosovo. E come una violazione della risoluzione Onu 1244, che prevede che, dopo la guerra del 1999, possano operare nella regione esclusivamente truppe Nato. Belgrado ha chiesto così la convocazione urgente del consiglio di Sicurezza Onu, mentre il consigliere del presidente Vucic, Nikola Selakovic, ha suggerito che la Serbia potrebbe dichiarare il Kosovo «territorio occupato». O addirittura pensare all’intervento militare, opzione che appare però irrealistica, anche se il clima è di gran nervosismo, con truppe Nato dispiegate a Nord, ufficialmente per esercitazioni, in realtà per prevenire incidenti. Più conciliante la premier Ana Brnabic, che ha ieri assicurato che Belgrado «continuerà sulla strada di pace e stabilità».
Stabilità che è però a rischio già da novembre, dopo che Pristina ha introdotto dazi al 100% sulle merci della Bosnia, colpevole di non riconoscere Pristina. E naturalmente su quelle serbe, rappresaglia contro l’ostruzionismo di Belgrado all’ingresso del Kosovo in Interpol, balzelli che rimarranno in vigore fino a quando Belgrado «non riconoscerà» Pristina, ha più volte ribadito il premier kosovaro, Ramush Haradinaj.
Muro contro muro pericoloso e «da anni non ero così preoccupato», ammette il politologo James Ker-Lindsay, ricordando che la spirale del rancore nasce dalla «frustrazione di Pristina» per le iniziative di Belgrado per ridurre il numero di Paesi che riconoscono il Kosovo. Ma si indirizza pure verso Bruxelles, che malgrado le attese a Pristina, soprattutto della gente comune, ancora ritarda la «liberalizzazione dei visti» per i kosovari, ultimi in Europa a non poter viaggiare se privi di permessi. E questo è il momento «di riportare le parti al tavolo negoziale», aggiunge l’analista. Qualche chance, forse, c’è. «Quanto hanno fatto gli albanesi è contro il diritto internazionale e contro la propria Costituzione», ha attaccato in serata il leader serbo Vucic, assicurando che la Serbia proteggerà i serbi del Kosovo dall’esercito di Pristina, se necessario.
Ma ha poi aggiunto che «monitoreremo con attenzione tutto quanto accade in Kosovo, aspetteremo» che Pristina «tolga del tutto i dazi e allora la Serbia sarà pronta a discutere», di nuovo. Ma la mano tesa va colta, prima che sia troppo tardi.
Corriere 15.12.18
L’esercito del Kosovo, una scelta discussa che riapre i giochi
di Francesco Battistini
I soliti dispetti. Negli ultimi dieci anni, dall’indipendenza del Kosovo, è sempre andata avanti così: un giorno si tagliava al nemico la luce, un altro si smontavano i ripetitori dei cellulari, oppure non si pagavano le bollette, si taroccava l’ora legale, si vietavano le partite, si mettevano dazi del 100% sulle merci… Secondo le regole del cattivo vicinato. Ma il voto di ieri nel Parlamento di Pristina, col sì a un esercito nazionale, è qualcosa di più d’uno sgarbo: i 107 deputati albanesi hanno trasformato le vecchie forze di sicurezza Ksf (nate sulle ceneri dell’Uck e della guerra del ‘99) in un’armata regolare. Che passerà da tre a diecimila uomini. Che sarà ovviamente «aperta a tutti», secondo il mai rispettato mantra della multietnicità. Che affiancherà i militari Nato, italiani compresi, nel controllo d’uno Stato che mezzo mondo ancora non riconosce. Il ragionamento dei kosovari — se siamo indipendenti, perché non possiamo avere un esercito? — contiene già i pericoli di questa scelta: sono arrivati l’ok di Trump, essendo gli americani i grandi sponsor del più piccolo Paese balcanico, e in contemporanea il niet di Putin, affratellato ai serbi dalle radici slave. Nel solito silenzio smarrito dell’Europa, che nemmeno sul Kosovo ha una politica comune, è l’Alleanza atlantica ad avvertire che le sue truppe sul terreno dovranno rivedere le regole d’ingaggio. E soprattutto è Belgrado a ritrovare fiato: ci sono ancora 120mila serbi nel Kosovo del Nord, affamati per le sanzioni di Pristina all’import dalla Serbia, e quindi «non staremo a guardare, non escludiamo azioni militari». Fatta la tara della retorica, i giochi si riaprono e spingeranno la comunità mondiale, magari, a chiudere una transizione ventennale piena di rischi quanto di costi. Di solito, chi vuole la pace prepara la guerra. Ma siamo nei Balcani, e gli eserciti servono a una cosa sola.
il manifesto 15.12.18
Voto storico: il Senato Usa ripudia la guerra in Yemen
Stati uniti. Sanders batte Trump e l'Arabia saudita: applicato per la prima volta il War Power Act del 1973 che attribuisce al Congresso il potere di autorizzare interventi militari. Ora la palla passa alla Camera
di Chiara Cruciati
Uno a zero per il popolo yemenita. Giovedì, con un atto senza precedenti, il Senato Usa si è ripreso il potere che gli riconosce la legge e ha sfidato apertamente la politica muscolare e bellicosa dell’amministrazione Trump in Medio Oriente: con 56 voti favorevoli e 41 contrari, i senatori hanno approvato la risoluzione bipartisan presentata dal democratico Bernie Sanders e dal repubblicano Mike Lee che chiede al governo l’interruzione del sostegno americano alla campagna militare saudita in Yemen.
Una sconfitta, per Trump, di cui si aveva già il sentore: due settimane fa il Senato, con larga maggioranza, aveva deciso di votare la risoluzione e pochi giorni dopo un falco Gop come Lindsey Graham (solitamente allineato alle politiche trumpiane) si era detto certo che Mohammed bin Salman fosse il mandante dell’omicidio del giornalista Khashoggi. «Sega fumante», aveva detto in riferimento allo strumento usato per fare a pezzi il corpo nel consolato saudita di Istanbul.
Quell’omicidio ha cambiato gli equilibri: molti paesi occidentali hanno «scoperto» che l’Arabia saudita non è un paese normale come fingono di credere da decenni. Indirettamente sono gli yemeniti a ottenere «risultati»: prima lo stop alla vendita di armi da parte di Germania, Danimarca, Olanda e Finlandia; poi le due inchieste aperte in Tunisia e Argentina contro Mbs per i crimini commessi in Yemen; e ora il Senato Usa che mette in discussione un pilastro della politica mediorientale di Trump, centrata sull’asse anti-Iran formato da Israele e Arabia saudita.
Non solo di Trump: a monte del voto sta l’amministrazione precedente, quella Obama, che nel 2015 garantì sostegno militare a Riyadh nel piccolo paese confinante (tecnologia, rifornimento dei caccia in volo, intelligence) senza passare per il Congresso. Che è il solo, dal 1973, a poter autorizzare interventi militari: lo dice il War Power Act, entrato in vigore all’epoca di Nixon, in piena guerra del Vietnam.
Prima di ieri quella legge non era mai stata applicata. Ora i senatori la portano fin dentro lo Studio ovale per chiedere che quell’autorità torni al parlamento. Non è ancora finita: la risoluzione dovrà affrontare all’inizio del 2019 la Camera. Una Camera diversa dall’attuale: dopo il voto di midterm è a maggioranza democratica ed è improbabile che non la bocci.
Sanders festeggia già: «Gli Usa non parteciperanno più all’intervento saudita in Yemen che ha causato la peggior crisi umanitaria della terra con 85mila bambini morti di fame». Nelle stesse ore, in Italia, lo scenario era un altro: a Montecitorio, in occasione di una conferenza su «Spese militari in Arabia saudita» (uno studio della ricercatrice Annalisa Triggiano), il sottosegretario agli esteri Guglielmo Picchi (Lega) parlava – riporta Città Nuova – della necessità di superare pregiudiziali ideologiche per tutelare gli interessi italiani in Medio Oriente. Interessi economici che nel caso dei Saud si traducono in vendita di armi in violazione della legge 185 del 1990, che vieta l’export militare verso paesi coinvolti in conflitti.
Un conflitto che il popolo yemenita spera sia giunto a un punto di svolta: in Svezia il tavolo Onu si è chiuso con la tregua ad Hodeidah. Ieri l’ambasciatore saudita in Yemen, Mohammed al Jaber, ha dato il via libera di Riyadh, mentre in centinaia all’aeroporto di Sana’a accoglievano la delegazione dei ribelli Houthi di ritorno dalla Svezia. Ma già ieri, raccontano i residenti alla Reuters, scontri armati erano ripresi nel quartiere 7 Luglio della città portuale.
Corriere 15.12.18
Morire a 7 anni
Jakelin arrestata dopo la frontiera Usa
Era con il padre, veniva dal Guatemala
Disidratata, non mangiava da giorni
di Giuseppe Sarcina
corrispondente a Washington
Per ora si sa solo che aveva sette anni e si chiamava Jakelin Caal. Ma basta e avanza per riaccendere l’attenzione e la polemica sui migranti al confine con il Messico. Nella tarda serata di giovedì 13 dicembre una nota diffusa della Us Customs and Border Protection informa che il 7 dicembre, nel Providence Children Hospital di El Paso è morta una bambina catturata dagli agenti del Border Patrol il giorno prima a Lordsburg, nel deserto del New Mexico. La prima diagnosi, in attesa dei risultati dell’autopsia: febbre alta, choc setticemico, disidratazione. La bimba era con suo padre e un gruppo di 163 migranti. Arrivavano dal Guatemala e avevano appena attraversato il Rio Grande, pagando ai «coyote», i trafficanti di esseri umani, 13 mila dollari a testa. Gli agenti americani li hanno sorpresi alle 10 di sera del 6 dicembre, li hanno ammanettati e portati in un centro di detenzione. Alle 6.25 del giorno dopo, si legge ancora nel referto, la piccola era in preda alle convulsioni. Un medico l’ha visitata: non aveva né mangiato né bevuto da molto tempo. Temperatura corporea: 40,9 gradi. A quel punto un elicottero la trasporta a El Paso. Ma non c’è nulla da fare. «Muore meno di 24 ore dopo il suo ricovero», scrive il Washington Post che dava per primo la notizia.
Ieri mattina uno dei portavoce della Casa Bianca, Hogan Gidley, commenta con i reporter: «Si è trattato di una situazione orribile, tragica: i nostri cuori sono con la famiglia...». La «tragedia — continua Gidley — era evitabile al 100%. Servono leggi per disincentivare queste persone dall’attraversare illegalmente il confine».
Poco prima la ministra per la Sicurezza interna, Kirstjen Nielsen, in un’intervista a Fox News, aveva respinto le proteste degli attivisti dell’Aclu, l’American Civil liberties union, che avevano accusato la Border Patrol di alimentare «una cultura della crudeltà».
In realtà lungo i 3.200 chilometri di frontiera c’è soprattutto una grande confusione. La carovana dei migranti è arrivata quasi al completo a Tijuana, la città messicana della California, di fronte a San Diego. Sono quasi 7 mila persone, in gran parte provenienti dall’Honduras, accatastate negli accampamenti sempre più affollati e in condizioni igieniche pietose. La tensione è sempre alta. Un gruppetto di circa 200 persone ha assediato il consolato americano di Tijuana. Obiettivo: consegnare «una proposta» alle autorità degli Stati Uniti. Volete che ce ne torniamo a casa? Dateci 50 mila dollari a testa e rimuovete il presidente dell’Honduras, Juan Orlando Hernández, incapace di liberare il Paese dalle gang criminali. È la mossa della disperazione. Un patto che la ministra Nielsen ha definito «oltraggioso».
Ma il vero problema, ormai drammatico, è che l’amministrazione di Washington non sa come uscirne. La carovana resta piantata a Tijuana, nel frattempo il flusso dei migranti cresce anche altrove.
Lungo il tragitto percorso dalla bambina del Guatemala, la Border Patrol ha intercettato 25.172 migranti nel novembre scorso. Una cifra record. Circa la metà sono bambini e ragazzi, cui vanno aggiunti 5.283 «minori non accompagnati». Donald Trump ha risposto all’emergenza inviando 5.600 soldati con il compito di rinforzare le reti di protezione e di «assistere» la polizia doganale. Resteranno fino al 31 gennaio. Nel frattempo tutto il resto è rimasto uguale. In Texas, New Mexico e Arizona le strutture di accoglienza e anche quelle di detenzione sono largamente insufficienti. Gli uffici non riescono a smaltire più di 60-100 richieste di asilo al giorno; i tribunali, che devono convalidare le eventuali espulsioni, sono travolti. I fautori della linea dura a Washington sono costretti, per un amaro paradosso, a chiedere aiuto alle organizzazioni di volontari, spesso religiose, che lavorano da anni, e in silenzio, per dare acqua, un piatto di minestra e anche un giocattolo ai bambini che si ritrovano all’improvviso in una terra sconosciuta.
Il Fatto 15.12.18
“I diritti? Per il presidente non contano”
Manuela D’Avila - La numero due dell’opposizione: “È nata un’internazionale dell’ultradestra”
di Luciano Cerasa
Manuela D’Avila, 37 anni, giornalista brasiliana e bisnonni napoletani, è stata candidata alla vicepresidenza della Repubblica dal Partito comunista del Brasile, insieme al candidato presidente Fernando Haddad, del Partito dei Lavoratori di Lula. L’accoppiata Haddad-D’Avila, sebbene uscita sconfitta, ha preso più di 47 milioni di voti alle recenti elezioni presidenziali, vinte dal candidato di destra Jair Bolsonaro.
Bolsonaro si insedierà solo il primo gennaio prossimo, ma tra i primi atti della sua presidenza ha annunciato l’estradizione del terrorista italiano Cesare Battisti, sempre negata da Lula. È d’accordo?
Fino adesso si teneva conto del fatto che Battisti aveva diritto a un processo con tutte le garanzie e il rispetto delle regole processuali che il governo Lula aveva ritenuto non rispettate. Adesso Bolsonaro ha un’altra visione.
In Italia, soprattutto a sinistra, non si usa fare l’analisi delle sconfitte elettorali, voi vi siete chiesti perché i brasiliani vi hanno voltato le spalle?
Il candidato che avrebbe vinto le elezioni è stato incarcerato, attraverso il potere giudiziario stanno mettendo in galera in America latina tutti i leader progressisti, inoltre l’austerità imposta dal governo golpista ha provocato un aggravamento della crisi economica: in Brasile ci sono 14 milioni di disoccupati e 5 milioni di bambini sono sotto la soglia di povertà innestando una profonda insicurezza sociale.
Lei è stata vittima di una campagna di fake news intorno alle quali è ruotata l’intera contesa elettorale: quanto ha pesato sui risultati?
Un peso enorme, ma non è stata solo un’aggressione mediatica, a questa è stata associata la tecnologia di Big data, per far arrivare notizie false ben mirate a persone vulnerabili.
Un ministro in carica nel nuovo governo ha detto apertamente che i militanti della sinistra dovrebbero essere uccisi, lei stessa e perfino la sua bambina di 45 giorni siete state vittime di aggressioni, pensa che in Brasile stia tornando il vecchio regime?
Non il vecchio ma un nuovo regime apparentemente democratico, ma autoritario nella sostanza che sta assumendo i connotati di una grande violenza sociale.
Definirebbe Bolsonaro un sovranista?
Se fosse europeo direi di sì, ma il Brasile vive in una situazione neocolonialista rispetto agli Stati Uniti, è un Paese ancora sottosviluppato, nel governo ci sono militari, latifondisti, esponenti delle chiese evangeliche ma il ministro dell’Economia è un Chicago boys.
Eppure Matteo Salvini è stato tra i primi a congratularsi con il nuovo presidente che ha annunciato una prossima visita in Italia: si sta preparando un’internazionale della nuova destra?
Non di destra, ma dell’ultradestra anti-democratica, si fanno dibattiti e si organizzano iniziative comuni con Orbán e Salvini, ma anche con esponenti sudamericani come Uribe in Colombia e Kast in Cile.
il manifesto 15.12.18
Intervista a Zerocalcare, tra Maxxi e il Forte
di Giansandro Merli
ROMA «Scavare fossati-nutrire coccodrilli» ripercorre la ricca produzione del fumettista, combinando locandine, poster, tavole, disegni, animazioni, copertine di dischi e video-interviste. Ne abbiamo parlato con il protagonista.
La mostra è aperta da una tua biografia divisa per anni. Dentro, però, le vicende individuali sono poche. Hanno più spazio Sole e Baleno, Öcalan, il G8 di Genova, indymedia, Aldrovandi, Kobane, la Valsusa. Perché?
I miei lavori un po’ più individuali, tipo il blog o i libri, hanno un pubblico vastissimo e sono facilmente reperibili. Quando mi hanno proposto di fare una mostra più ampia mi è sembrato interessante riprendere dall’armadio materiali meno conosciuti. Sono quelli più collettivi e raccontano una storia che non è solo mia, ma di una comunità e di un pezzo di paese. Quasi tutte le cose fatte fino al 2011 si può dire siano collettive. Quando ho potuto l’ho segnalato, anche se non sempre è stato possibile. Per alcuni manifesti, ad esempio, non si può risalire a tutte le persone che ci hanno messo qualcosa. Magari sono usciti da assemblee intere in cui ognuno diceva la sua. Rimane solo il nome mio, ma voglio si capisca che appartengono a tanti.
Nella cultura occidentale la figura dell’autore è plasmata intorno all’idea del singolo individuo creatore di un’opera. Nella mostra, invece, racconti processi creativi collettivi, assembleari. Che tipo di autore ti senti?
Mi sono sempre sentito un anello di una catena in cui tante persone condividono idee. Sono la parte finale di quel ragionamento e metto su carta ciò che viene immaginato collettivamente. La personalizzazione dell’autore come figura insindacabile, che fa cose che non si possono discutere o mettere a verifica, è una roba che mi ha sempre disturbato. Devo dire che la comunità che ho intorno non mi ha mai trattato così. Tutti si sentono in diritto di chiedermi ogni volta 100mila modifiche. Però questa cosa, tutto sommato, mi fa pure piacere.
Ormai riesci a stare al Maxxi e al Forte Prenestino facendoti apprezzare in entrambi i luoghi. Non è facile. Soprattutto venendo da un «ambiente antagonista» che non ama il mainstream e non ne è amato. Come hai fatto?
Con grande fatica e molta paraculaggine. Da un lato, ho sempre cercato di mantenere i paletti condivisi un po’ da tutto il mondo antagonista. Di fare un percorso nel mainstream senza mai tradire quella storia. Magari omettendo una serie di passaggi, soprattutto nei primi anni, ma non nascondendo l’ambiente da cui vengo. Dall’altro, invece, il lavoro è molto più pensato di quanto sembri, super graduale. All’inizio la parte dei fumetti che uscivano in libreria ha quasi viaggiato su un binario parallelo che non incrociava mai la produzione dei centri sociali. Così molte persone hanno potuto scegliere ciò che preferivano con il beneficio dell’inventario. Magari tu la roba degli scontri di piazza non la condividi, ma fai finta di non vederla perché nei fumetti emerge poco. Ogni anno ho provato a mettere un mattoncino in più, per far avvicinare gradualmente quelle due linee e disporre l’animo del lettore un po’ meglio verso il mondo nostro. Per fargli capire pian piano chi eravamo, che non siamo marziani. Alla fine ho tirato una diagonale con Kobane Calling, il primo libro super politico che però parlava al mainstream. E ha funzionato. Secondo me perché ho provato a essere il più inclusivo possibile, contestualizzando molto le cose che riguardano il mondo nostro. Tutto sommato mi sembra che il pubblico abbia reagito bene. Nessuno m’ha detto «sei una zecca, fai schifo». Sono stati questo equilibrio e lo spostamento graduale a far incrociare i due mondi.
In un passaggio della bio fai cenno al «sassolino», strumento narrativo differente dalla Pedagogia politica militante con la P maiuscola che secondo te «funziona fino a un certo punto». Cosa intendi?
Non ho la pretesa di evangelizzare nessuno, né di convertire le persone. Altri magari ci riescono, io no. Quello che vorrei fare con i «sassolini» è una cosa molto più modesta, ma che in questo momento in questo paese sarebbe oro. È creare un ambiente un po’ più friendly nei confronti delle nostre istanze. Non è che spero che chi legge la roba mia diventi uno di noi. Mi basterebbe che quando ci vede al telegiornale non pensi che dobbiamo andare tutti in carcere perché magari attraverso i miei fumetti gli è entrato un dubbio in testa e si fa due domande in più.
Questo obiettivo l’hai perseguito lavorando molto sul linguaggio. Ad esempio in Kobane Calling, dove sei riuscito a trasmettere messaggi molto radicali a un pubblico più ampio di quello raggiunto in genere dai codici comunicativi dei movimenti.
Nel mio linguaggio ci sono pregi e difetti. È vero che per certe cose la comunicazione dei movimenti è un po’ chiusa e magari non ha saputo intercettare dei cambiamenti. Però è vero anche che ha un patrimonio, una ricchezza e una profondità che evidentemente il linguaggio mio non ha. Invece, quello su cui ho puntato un botto sono due cose: non lasciare indietro nessuno, usare dei riferimenti pop riconoscibili. A volte mi sembra che le analisi nostre o i comunicati, se messi in mano a un ragazzino, diano per scontato un sacco di cose che noi trattiamo come fossero patrimonio di tutti. Sono stato a Genova per una presentazione in cui c’erano dei pischelli che frequentavano la Diaz. Non sapevano nulla di ciò che accadde nella loro scuola nel 2001. E noi diciamo «Genova», senza nominare neanche il G8. La gente non sa manco di che parliamo a volte. Questo ti dà il senso. Quindi ho provato a fare un lavoro che fosse inclusivo da quel punto di vista, che spiegasse bene tutto, magari a volte in maniera un po’ didascalica. L’altro fatto è che cerco di richiamare un bagaglio di cultura pop che riguarda tutti. Non saranno i riferimenti ideali per i movimenti, ma sono noti a chiunque sia cresciuto negli anni nostri fuori dai nostri ambienti. Secondo me questi riferimenti sono utili perché danno alle persone degli appigli in cui riconoscersi.
Al di là della scrittura e del disegno, parte del tuo lavoro è metterti al servizio di movimenti sociali, battaglie politiche e spazi occupati. Come interpreti questa funzione così poco comune tra le personalità pubbliche?
Secondo me il problema è pensare di poter portare avanti delle istanze politiche da singoli, cioè svegliandoti la mattina e dicendo la tua, come un intellettuale illuminato. Magari pretendendo poi di spostare il dibattito sulla verità di cui ti senti portatore. Questa roba qua non si può fare perché nessuno da solo è portatore di niente. Per me, l’unico modo di intervenire in un dibattito politico è avere alle spalle un confronto o un mandato collettivo. Non potrei parlare di Tav o Kurdistan se non avessi fatto prima le assemblee. Se devo restituire qualcosa al mondo non può essere ciò che penso io da solo, ma il prodotto di un processo collettivo.
Dopo che hai firmato il manifesto del corteo No Tav dell’8 dicembre hai ricevuto alcune critiche. Perché hai deciso di rispondere?
In questo periodo sembra che quella storia sia stata cancellata dalla testa di un sacco di persone. Alcuni credono, non capisco come, che il No Tav sia un’istanza di questo governo. Non solo dei 5 Stelle, ma anche di Salvini. La gente mi ha scritto che Salvini si sarebbe rivendicato il corteo, quando lui è un Sì Tav. C’è proprio una rimozione. Forse perché al momento non esiste un soggetto riconoscibile a sinistra e per un sacco di ragazzini questo vuoto è riempito dal Pd, identificato come struttura di opposizione. E siccome il Pd è a favore del treno pensano che l’unica posizione di sinistra possibile sia quella. Così tutto quello che è il No Tav viene messo insieme a una specie di oscurantismo ignorante che va dai No Vax alle scie chimiche. A me questa roba sembra terribile. Raccontare la storia del movimento per farla vivere in uno spazio politico antagonista, di sinistra, mi sembra fondamentale in questo scenario.
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