il manifesto 14.12.18
La natura sociale di un crollo che l’Istat non vede
di Tonino Perna
Da
quando è iniziata la Lunga Recessione, l’Istat constata il distacco
crescente, in termini di reddito pro-capite, tra il Mezzogiorno e il
resto del nostro paese. Ma i dati raccontano solo una parte della
realtà.
E non sempre ci permettono di capire che cosa sta
avvenendo nella vita quotidiana della popolazione meridionale. Alcune
cifre dovrebbero essere integrate, altre debbono essere lette
correttamente, con tutti i loro limiti. Per esempio, il reddito
pro-capite se non lo esprimiamo in termini di potere d’acquisto non
comprendiamo il reale divario in termini di ricchezza e povertà delle
famiglie. Una famiglia operaia monoreddito che vive in un paesino delle
aree interne del Sud, che è proprietaria di casa con un pezzetto di
terra con orto e animali, ha una serie di legami sociali che consentono
di usufruire di servizi alla persona gratuiti, e ha certamente un potere
d’acquisto nettamente superiore a una famiglia operaia delle grandi
città del Nord. Quello di cui soffre è la mancanza di un lavoro
qualificato per i figli, di scuole e trasporti che funzionino, di
servizi socio-sanitari efficienti. Il più grande danno al Sud durante
questi dieci anni di crisi l’ha fatto lo Stato bloccando il turn over
nella pubblica amministrazione, con una perdita di oltre 250mila posti
di lavoro, e il taglio netto agli investimenti pubblici nelle
infrastrutture che servono (altro che Ponte sullo Stretto per la cui
progettazione/promozione sono stati spesi centinaia di milioni).
Rispetto al 2007 il Mezzogiorno odierno ha subìto un netto arretramento
nell’offerta dei servizi socio-sanitari, nei trasporti locali, nelle
scuole che sono a rischio e fatiscenti, nelle università che hanno perso
mediamente il 30 per cento degli iscritti.
L’emigrazione,
soprattutto giovanile, è ripresa a ritmi che non si erano mai visti,
nemmeno nei primi decenni successivi alla seconda guerra mondiale.
L’Istat parla di un milione di meridionali che negli ultimi venti anni
sono emigrati nel Centro-Nord. Ma, si tratta di una cifra che
sottovaluta decisamente il fenomeno: l’Istat guarda ai cambi di
residenza, ma centinaia di migliaia di giovani meridionali hanno
abbandonato il Sud senza cambiare la residenza. In diverse ricerche sul
campo emerge un fenomeno migratorio ben più ampio e sconvolgente:
possiamo stimare che due giovani su tre negli ultimi dieci anni hanno
abbandonato il Mezzogiorno almeno una volta, e oltre la metà
definitivamente. Alcuni, dopo il fallimento nell’esperienza migratoria
sono rientrati a testa bassa e sono andati a rimpolpare l’esercito dei
neet (not employement, education, training), altri vanno e vengono non
solo verso il Nord I’Italia, ma verso il Nord Europa e persino
l’Australia (l’emigrazione verso il quinto continente è la vera novità
di questi ultimi anni).
Quello che, soprattutto, l’Istat non ci
racconta è come è cambiato il rapporto tra i migranti e le famiglie di
provenienza. Mentre negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso erano i
migranti meridionali che mantenevano le famiglie di origine con le
rimesse (oltre a concorrere a salvare la nostra bilancia dei pagamenti),
oggi sono molte volte le famiglie meridionali che mantengono i figli
nel Nord Italia o all’estero, non solo per studiare o specializzarsi, ma
anche perché con i lavoretti non si sopravvive in questi territori. E
sono le stesse famiglie, soprattutto a livello di ceto medio, che
spingono i figli, fin dalle scuole medie superiori, a pensare di
lasciare le terre del Sud perché, come si dice da queste parte«qui non
c’è niente da prendere». Ed è questa la nota più triste che nessuna
statistica potrà mai quantificare: la cifra che diventa un necrologio,
la morte della speranza di una terra dove una volta i giovani gridavano
«lottare per restare, restare per lottare».