giovedì 13 dicembre 2018

il manifesto 13.12.18
Dentro la rivoluzione del mercato mondo
Marxismo. «200 Marx. Il futuro di Karl». Si apre oggi al Macro di Roma un convegno internazionale che celebra, con lo sguardo al futuro, il bicentenario del Moro. Anticipiamo un ampio stralcio di un testo che sarà presentato nella sessione «Per la critica del capitalismo globale» in programma domani
di Sandro Mezzadra


Intervenire a un convegno su Marx (o meglio sul suo «futuro») in una sessione intitolata Per la critica del capitalismo globale comporta qualche esitazione. Di che cosa siamo chiamati a parlare? Della critica del nostro presente facendo tesoro della lezione di Karl? O piuttosto della critica che quest’ultimo ha articolato nel corso della sua vita, in un tempo ormai lontano, di un modo di produzione capitalistico fin dalla sua origine «globale»? Non è per me una domanda retorica. Trascorsa l’epoca della damnatio memoriae, quando la semplice menzione di Marx (in particolare in Italia) determinava commiserazione o alzate di ciglia, è bene resistere alla tentazione di applicare linearmente all’analisi del presente le categorie da lui elaborate. Profondamente «intempestivo», secondo l’azzeccata definizione di Daniel Bensaïd, Marx ha intrattenuto un rapporto complesso – di adesione e di scarto, di appropriazione e di sottrazione – con il proprio tempo. Il suo pensiero ne è fortemente segnato: leggere (o rileggere) oggi le sue opere significa esporsi a questa intempestività.
LA NOSTRA RICERCA «deve mettere Marx a confronto non con il suo tempo, ma con il nostro tempo. Il Capitale deve essere giudicato sulla base del capitalismo di oggi. Ma sarà opportuno aggiungere una postilla: affinché questo sia possibile, è essenziale comprendere e apprezzare la storicità specifica delle categorie marxiane, non tanto per liberarle dalle incrostazioni di un’epoca ormai trascorsa quanto per riattivare quell’urto contro i limiti del suo tempo (e del suo stesso pensiero) che le costituisce.
C’è qui per me un principio di metodo: l’«attualità di Marx» non coincide necessariamente con l’attualità del suo sistema; risiede nei vuoti oltre che nei pieni del suo pensiero, nei suoi scacchi così come nei suoi trionfi «scientifici» – nei problemi che ci aiuta a pensare e non soltanto nelle soluzioni che ci propone. La nostra interpretazione di Marx, in altri termini, deve essere da un lato filologicamente rigorosa, dall’altro «trasformativa», come ha scritto di recente Étienne Balibar.
Ora, che vi sia qualcosa di invariante nel capitalismo è evidente. Ma questa formulazione riduce la critica dell’economia politica al terreno della logica e azzera il rilievo di intere sezioni del Capitale – quella sulla «cosiddetta accumulazione originaria», ad esempio, ma anche e soprattutto l’analisi della transizione dalla manifattura alla «grande industria», che costituisce metodologicamente un modello per la messa a fuoco dei caratteri specifici assunti dal capitalismo in un’epoca storica (la metà dell’Ottocento) e in un luogo (l’Inghilterra) determinati.
PIÙ IN GENERALE, oscura un fatto per me cruciale, che Marx ha definito (fin dalle pagine dedicate alla borghesia nel Manifesto con una chiarezza senza pari: ovvero il carattere rivoluzionario dell’oggetto della sua critica rivoluzionaria, il capitalismo. Nei Grundrisse il «mercato mondiale» appare come sintesi e condizione di possibilità (come «presupposto e risultato») della «rivoluzione permanente» attuata dal capitale, della sua strutturale determinazione espansiva: «la tendenza a creare il mercato mondiale», scrive qui Marx, «è data immediatamente nel concetto di capitale. Ogni limite si presenta qui come ostacolo da superare».
ECCO DUNQUE un primo elemento «invariante» da inserire in una definizione di capitalismo coerente con la critica marxiana (non senza avvertire che il concetto di capitalismo non rientra nel lessico di Marx, che parlava piuttosto di «modo di produzione capitalistico» o di «formazione sociale» capitalistica). Il capitale come rivoluzione permanente costruisce la sua storia come «storia mondiale» e produce i propri spazi nell’orizzonte del «mercato mondiale». Una volta posto quest’ultimo come «invariante» risalta immediatamente, tuttavia, il carattere astratto di questa invarianza. Il «mercato mondiale» cambia radicalmente nella storia, a partire dal momento della sua apertura attraverso la conquista, il colonialismo e il genocidio descritti nel capitolo 24 del primo libro del Capitale.
Nel mio lavoro con Brett Neilson ho cercato di cogliere la «differenza specifica» del capitalismo contemporaneo sottolineando come oggi siano preminenti (nella stessa composizione del «capitale complessivo», nell’orientamento di quelle che Marx chiamava le «rivoluzioni di valore»), operazioni di carattere essenzialmente estrattivo. Abbiamo cercato di sostanziare questa tesi (che in modi diversi è condivisa da altri autori, da Michael Hardt e Toni Negri a Saskia Sassen per esempio) con un’analisi delle operazioni del capitale nel settore estrattivo in senso stretto, nella logistica e nella finanza.
PARLIAMO DI SPECIFICHE operazioni del capitale, per indicare che il capitalismo oggi non si riduce alle sue determinazioni estrattive, per quanto queste ultime esercitino una funzione di comando e di sincronizzazione sull’insieme dei processi di valorizzazione e di accumulazione. E in particolare cerchiamo di dimostrare che il capitalismo contemporaneo non è caratterizzato (al contrario di una tesi ampiamente diffusa ad esempio nei dibattiti latinoamericani sul cosiddetto «neo-estrattivismo») da un assoluto primato dello «spossessamento», impiegando il termine nel senso attribuitogli da David Harvey. Quel che ci sembra piuttosto importante analizzare e comprendere è la combinazione di «spossessamento» e «sfruttamento» in quella che oggi occorre tornare a definire, con tutte le sue differenze, la condizione e l’esperienza proletaria globale.
È QUASI INUTILE sottolineare come oggi il mondo della finanza, nel tempo dell’High Frequency Trading per fare un solo esempio, sia completamente diverso da quello in cui si muoveva il «capitale produttivo di interesse» analizzato da Marx nel terzo libro del Capitale. C’è tuttavia in questa analisi un punto che mi pare molto interessante, anche indipendentemente del significato che deve essere attribuito alla categoria di «capitale fittizio» da lui impiegata in questo contesto: per Marx, la finanza è sostanzialmente una gigantesca «accumulazione di diritti, titoli giuridici, sulla produzione futura». Questa determinazione in ultima istanza politica della finanza, il suo essere caratterizzata da una pretesa sulla produzione futura, rimane decisamente attuale. E mostra, in particolare laddove si analizzino le forme dell’indebitamento di massa – tanto pubblico quanto privato – che coinvolgono popolazioni povere e lavoratrici, come il contenuto del debito contratto nel rapporto con il capitale finanziario sia l’obbligo a partecipare alla «produzione futura», la coazione a un lavoro quale che sia.
Il capitale finanziario estrae, preleva valore attraverso la diffusione molecolare nel tessuto della cooperazione sociale di questa coazione – che corrisponde indubbiamente a specifici processi di «spossessamento». Ma nel momento in cui la coazione si traduce in pratica (in altre parole: nel momento in cui, per ripagare il debito, la singola proletaria mette all’opera la propria forza lavoro, si entra necessariamente in rapporto con diverse figure del capitale le cui operazioni sono caratterizzate da specifici processi di «sfruttamento».
ECCO DUNQUE la combinazione di spossessamento e sfruttamento di cui ho parlato prima. E occorrerà aggiungere, restando a questo esempio molto semplificato, che la nostra proletaria ha di fronte a sé uno spettro molto ampio e profondamente eterogeneo di prestazioni lavorative (di modalità attraverso cui mettere in opera la propria forza lavoro) tra cui scegliere: potrà andare a lavorare in una fabbrica o in uno sweatshop, in un supermercato o in una casa, potrà fare la massaggiatrice o vedere droga per strada. È un punto fondamentale, che andrebbe argomentato con ben altra ampiezza, inseguendo le metamorfosi e le infinite combinazioni di spossessamento e sfruttamento che si presentano: mi limito qui a dire che ai processi di finanziarizzazione, e più in generale al primato delle operazioni estrattive del capitale, corrisponde quella che io e Brett Neilson abbiamo chiamato moltiplicazione del lavoro.
IL PROGRAMMA DEL CONVEGNO
Da oggi fino a domenica a Roma (presso la sede del Macro in via Nizza 136) il convegno «200 Marx. Il futuro di Karl», inserito nelle iniziative per il bicentenario della nascita. Il programma (consultabile sul sito www.marx200.it) si aprirà oggi alle 14 con la sessione « Rivoluzione della politica», con interventi di Aldo Tortorella, Paolo Ciofi, Maria Luisa Boccia, Alfonso Maurizio Iacono, Giacomo Marramao, Marina Montanelli, Marcello Musto, Mario Tronti. Venerdì sarà la volta di un panel dedicato a «Storia e storie», con Adolfo Pepe, Francesco Giasi, Enrico Donaggio, Chiara Giorgi, Vittorio Morfino, Peter Kammerer, Stefano Petrucciani. Infine «Per la critica del capitalismo globale», con Michael Braun, Riccardo Emilio Chesta, Sandro Mezzadra, Laura Pennacchi, Benedetto Vecchi, Carlo Vercellone, Ursula Huws. Sabato 15, si chiude con «Vite, parole, corpi», insieme a Vincenzo Vita, Franco Ippolito, Roberto Ciccarelli, Donatella Dicesare, Roberto Finelli, Cristina Morini.

il manifesto 13.12.18
Avanguardia nazionale oggi rinasce, le nuove leve del neofascismo
Nell'anniversario di Piazza Fontana. Il ruolo centrale di Ao negli attentati del dicembre 1969. L'organizzazzione oggi si è ricostituita da tre anni, nella più assoluta indifferenza istituzionale
di Saverio Ferrari


MILANO Avanguardia nazionale fu sciolta per decreto, sulla base della Legge Scelba, per ricostituzione del partito fascista l’8 giugno 1976, tre soli giorni dopo la sentenza della settima sezione penale del Tribunale di Roma che aveva condannato 31 “avanguardisti” a 26 anni complessivi di reclusione. Due furono gli anni comminati al fondatore Stefano Delle Chiaie. Non si attese la conclusione dell’iter giudiziario che comunque sia in appello, nel 1981, che in Cassazione, nel novembre 1982, confermò le condanne.
Il ruolo di Avanguardia nazionale negli attentati del 12 dicembre 1969, segnatamente nella strage di piazza Fontana, è stato spesso sottovalutato. In primo piano, infatti, dal punto di vista giudiziario, finirono gli uomini di Ordine nuovo, a partire dalla cellula padovana di Franco Freda e Giovanni Ventura. Eppure alcuni fatti dimostrerebbero la centralità di questa organizzazione.
LA RIUNIONE DI PADOVA
Come noto gli inquirenti che si occuparono della “pista nera” indicarono come momento di svolta nell’escalation degli attentati del 1969, la riunione di Padova del 18 aprile. Quella in cui si decise di colpire in «luoghi chiusi» con ordigni potenziati posti in «contenitori metallici» che li avrebbero resi particolarmente micidiali. Dalle intercettazioni disposte dall’allora Procuratore della Repubblica Aldo Fais, si scoprì che a questa riunione di Ordine nuovo, era atteso «il camerata Pino». L’identità dell’ospite verrà svelata tre anni dopo da uno dei partecipanti, Marco Pozzan. Si trattava di Pino Rauti, il capo riconosciuto di Ordine nuovo. Ma insieme a Rauti arrivò un secondo personaggio, che Freda, rispondendo alle insistenze di Pozzan, confidò « È un uomo del Sid». Che a questa riunione avesse partecipato «un collaboratore del Sid», lo confermò anni dopo il generale Gianadelio Maletti. Si trattava di Guido Giannettini, reclutato fin dal 1966 dal Servizio informazione della difesa. A quell’incontro, dissero alcuni, vi intervenne anche come emissario di Stefano Delle Chiaie. D’altro canto nei documenti della Questura di Roma Giannettini era in quegli anni segnalato come «elemento di rilievo di Avanguardia nazionale».
«DELLE CHIAIE ERA PRESENTE!»
Sarà però Giovanni Ventura, il 17 marzo 1973, in un lunghissimo interrogatorio di undici ore, nel carcere di Monza, che confessò che alla riunione di Padova era invece presente in prima persona Delle Chiaie. Lo ribadì il 2 novembre in un confronto con lo stesso Freda: «Il Delle Chiaie a quella riunione» – disse – «era venuto». Era da anni amico di Freda e si era più volte incontrato con lui. Vuotando il sacco a metà, Ventura, parlò anche dei finanziamenti che venivano «con prevalenza assoluta» proprio «da Stefano Delle Chiaie».
Il giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio non gli credette giungendo alla conclusione che Delle Chiaie non poteva essere stato a Padova, avendo subito la mattina successiva una perquisizione domiciliare a Roma. Ma non andò a fondo. Un errore, visto che il commissario di polizia che eseguì quella perquisizione la effettuò alle 11 della mattina. Orari ferroviari alla mano, Delle Chiaie avrebbe potuto benissimo partire da Padova dopo mezzanotte ed essere nella sua abitazione prima delle 10. Lo sostenne, inascoltato, l’avvocato Odoardo Ascari al processo che si tenne nel 1978 a Catanzaro.
LE BOMBE DI ROMA
Ordine nuovo e Avanguardia nazionale a Padova decisero anche di spartirsi il territorio per le azioni terroristiche da compiere: l’organizzazione di Rauti al Nord e quella di Delle Chiaie al Centro-Sud. An, tra il settembre e il dicembre 1968 aveva già compiuto a Roma ben undici attentati, quattro con bombe. Ora si doveva alzare il tiro. Puntare alla strage.
Nel giorno in cui a Milano, alle 16.37, scoppiò la bomba in piazza Fontana, a Roma ne scoppiarono altre tre: una in un corridoio sotterraneo della Banca nazionale del lavoro (tra via Veneto e via di San Basilio) e due all’Altare della Patria. Alcuni testimoniarono di aver visto uomini di Avanguardia nazionale aggirarsi da quelle parti. Diversi furono anche gli esponenti neofascisti che nel corso degli anni addebitarono ad An quegli attentati. Qualcuno (Alfredo Sestili) fece anche il nome di Mario Merlino.
ANCORA GLI STESSI
Avanguardia nazionale si è ormai ricostituita da quasi tre anni nella più assoluta indifferenza istituzionale. Un’organizzazione a tutti gli effetti fuori legge. Il simbolo è rimasto lo stesso, l’Odal, una lettera dell’alfabeto runico a forma di rombo con i lati inferiori incrociati, espressione della continuità della stirpe, a suo tempo utilizzata anche da una divisione delle Waffen-SS. Anche i dirigenti sono rimasti gli stessi, a partire da Delle Chiaie, il capo incontrastato. Tra gli altri figura ancora lo stesso Mario Merlino, l’“agente provocatore” che si infiltrò tra gli anarchici. L’idea è quella di aprire sedi e mettersi a disposizione delle nuove leve del neofascismo. Già accade a Brescia dove si intimidisce chi denuncia la loro attività e dove, tra un saluto romano e l’altro, alle riunioni si sono fatti fotografare la candidata sindaca di Azione sociale/Forza nuova alle ultime elezioni amministrative e i leader dei comitati più attivi nel minacciare i profughi e chi li accoglie.

il manifesto 13.12.18
Salvini: gas israeliano in Italia e cooperazione stretta con Tel Aviv
Italia/Israele. Si è conclusa la visita in Israele del vice premier italiano. In vista intese nel settore energetico e nella cooperazione di sicurezza. Netanyahu: Salvini è un grande amico. Non si spengono le polemiche innescate dalle parole del leader leghista su Hezbollah
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Grande soddisfazione negli ambienti diplomatici israeliani in Italia e nel governo Netanyahu a conclusione della visita di Matteo Salvini in Israele. Il vicepremier leghista dal suo arrivo martedì a Tel Aviv fino al rientro ieri in Italia, ha espresso un appoggio totale e incondizionato a Israele. Se due giorni fa Salvini aveva parlato dello Stato ebraico come di un «baluardo» dell’Occidente in Medio oriente, ieri lo ha rappresentato come «un modello nella difesa del territorio e dei suoi cittadini. Un modello che va difeso e sostenuto». Senza dimenticare il post su Facebook in cui Salvini, durante il suo tour nel nord della Galilea nella zona dei tunnel scavati da Hezbollah sotto il confine tra Libano e Israele, ha descritto i membri del movimento sciita libanese come dei «terroristi islamici».
Dichiarazioni che martedì avevano creato imbarazzo e timori ai vertici dell’Unifil, il contingente di interposizione dell’Onu dispiegato nel sud del Libano – attualmente sotto comando italiano e di cui fanno parte circa 1000 soldati del nostro paese – che dal 2006 vigila sulla tregua tra Israele e Hezbollah.
Salvini non ha fatto retromarcia. Netanyahu perciò lo ha ringraziato – «È un grande amico di Israele», ha detto ieri al termine dell’incontro a Gerusalemme con il leader leghista – e indirettamente ha chiesto all’Italia di fare pressione sull’Unifil (Onu) affinché svolga «un ruolo più forte» in Libano del Sud. Israele pretende che l’Unifil si impegni in compiti di polizia dando la caccia agli uomini e alle armi del movimento sciita. Compiti lontani da quelli nel testo del mandato dei caschi blu dell’Onu. In ogni caso le sparate di Salvini e le pressioni di Netanyahu qualche effetto l’hanno avuto subito. Ieri secondo fonti locali sarebbe divampata una «discussione accesa» nella zona Zarit, tra soldati dell’Unifil, militari libanesi e uomini di Hezbollah.
Proprio per questo motivo gli ambienti militari italiani sollecitano i politici a non lasciarsi andare a dichiarazioni che potrebbero creare problemi. «Assumere oggi la parte dell’uno o dell’altro, in una materia delicata come la situazione in Medio Oriente, è un’imprudenza – ha detto all’agenzia AdnKronos il generale Leonardo Tricarico, ex capo di stato maggiore dell’aeronautica, a proposito delle parole del vicepremier italiano su Hezbollah. «Salvini» ha spiegato Tricarico «avrebbe dovuto non esprimersi cercando di riconoscere le ragioni di tutti». Evidentemente, ha aggiunto l’ufficiale italiano, «le ragioni non sono esclusivamente dall’una o dall’altra parte».
Il capo della Lega in Israele si è comportato come il presidente del consiglio italiano in pectore. Ha discusso delle prossime visite in Israele di altri ministri dell’esecutivo gialloverde e dell’incontro intergovernativo tra i due paesi che dovrebbe avvenire il prossimo anno. Ha quindi avuto colloqui con il ministro del turismo, Yariv Levin, e con quello della sicurezza interna, Gilad Erdan, con il quale ha parlato della cooperazione tra Italia e Israele e discusso “miglioramenti” nella gestione dell’immigrazione, dei rimpatri ed espulsione e di iniziative antiterrorismo. «Siamo entrati nel merito della cooperazione economica e industriale fra i due paesi», ha riferito Salvini dopo il colloquio con Netanyahu. La questione più importante di cui il capo leghista ha discusso con gli israeliani è senza dubbio il gasdotto East-Med che dovrebbe portare il gas dai giacimenti del Mediterraneo orientale in Europa. Su questo tema Italia, Cipro, Grecia e Israele hanno firmato un memorandum d’intesa nel dicembre dello scorso anno.

La Stampa 13.12.18
Matteo a Netanyahu
“Onu sbilanciata l’Italia è con Israele”
di Amedeo La Mattina


L’attentato a Strasburgo mentre Matteo Salvini era a Gerusalemme pone con forza il tema della sicurezza e delle tecnologie necessarie a combattere il terrorismo al centro del colloquio tra il leader leghista e Benjamin Netanyahu. Qui il tema è la difesa dello Stato di Israele soprattutto dagli attacchi degli Hezbollah definiti dal vicepremier leghista «terroristi islamici», scatenando la reazione del ministro della Difesa Elisabetta Trenta e la preoccupazione del comando italiano dell’Unifil impegnato in Libano in una missione di pace.
Salvini ha sposato totalmente la causa israeliana e ha promesso a Netanyahu di farsene carico in tutte le sede internazionali. «Il mio amico Benjamin mi ha detto di aver contato 700 risoluzioni Onu contro Israele. C’è il mio impegno a sostenere i diritti di Israele all’Onu come all’Unesco che hanno un atteggiamento sbilanciato a vostro sfavore», dice il ministro dell’Interno ai numerosi italiani della comunità ebraica che lo incontrano durante la visita allo Yad Vashem, il museo dell’Olocausto. Rappresentati da Leone Paserman, ringraziano il vicepremier per le sue posizioni e anche per le iniziative del capogruppo comunale leghista di Torino, Fabrizio Ricca, querelato per avere criticato un’insegnate dell’Università dalle posizioni radicali filo palestinese.
Salvini gongola, ringrazia, incassa soprattutto le lodi di Netanyahu, che lo considera «grande amico di Israele» per le parole sugli Hezbollah. Del resto, aggiunge il primo ministro israeliano, l’ospite italiano ha potuto vedere con i propri occhi «i tunnel dei terroristi: si tratta di atti evidenti di aggressione contro Israele e le norme internazionali». Netanyahu entra nel merito del ruolo dell’Unifil che ha scatenato in Italia lo scontro Lega-M5S: questa missione militare «deve impedire agli Hezbollah di compiere azioni aggressive contro Israele».
La visita di Salvini a Gerusalemme ha un segno evidentemente politico ma anche un aspetto che tragicamente incrocia l’attentato di Strasburgo. Adesso che ritorna in maniera prepotente l’allarme sicurezza, «la differenza la fanno le tecnologie impiegate con efficacia contro il terrorismo», spiega il responsabile del Viminale prima di lasciare Gerusalemme. E ancora una volta ritorna all’esperienza israeliana (Israele stanzia il 4 per cento del bilancio per ricerca tecnologica e sicurezza) e alle cose viste in queste due giorni. «Serve un salto di qualità nella lotta al terrorismo e per la sicurezza nazionale. Questo vale anche per il contrasto all’immigrazione clandestina. In Israele ho imparato e capito molte cose: vengono sviluppate tecnologie all’avanguardia. La lotta al terrorismo e a tutto ciò che attenta alla salvaguardia del nostro Paese deve avere nello sviluppo tecnologico la sua arma più efficace».
L’ipotesi di un gasdotto
Tra le cose che lo hanno più impressionato vi sono i sistemi israeliani per individuare le gallerie a grandi profondità che l’esercito gli ha mostrato al confine con il Libano. Ma poi c’è il lavoro di intelligence, i progetti satellitari ed economici, compresa l’ipotesi di un gasdotto tra Israele e l’Italia del Sud a cui Salvini promette sostegno: «Chiederò ai nostri imprenditori di partecipare». Ma soprattutto tanta tecnologia da usare per la cyber-security di cui si occupa l’unità dell’esercito israeliano 8200: alla fine del servizio militare possono portare con sè le app che hanno inventato ma non utilizzate dall’esercito, mettendosi sul mercato con le start up. Sono anche questi gli aspetti che affascinano Salvini, che prima di lasciare lo Yad Vashem risponde a Leone Paserman sul riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele con il trasferimento dell’ambasciata da Tel Aviv. «Sapete come la penso. Step by step. C’è un governo di coalizione, devo ascoltare gli alleati».

Repubblica 13.12.18
Intervista a Massimo D’Alema
"Il ministro è andato alla parata di Netanyahu contro i militari italiani"
di Maria Berlinguer

ROMA Massimo D’Alema, ex premier ed ex ministro degli Esteri. Gli Hezbollah sono terroristi islamici come dice Salvini?
«Sembra una definizione superficiale, anzitutto perché per terrorismo islamico noi intendiamo organizzazioni di matrice salafita o wahabita, noi conosciamo Isis e Al qaeda, mentre Hezbollah è una forza che contrasta vivamente questi movimenti e che concorse in modo molto rilevante a combattere lo Stato islamico.
Forse Salvini dovrebbe approfondire la conoscenza di questo mondo complicato.
Sicuramente Hezbollah è un partito armato, ma fa parte della vita democratica libanese e ha un’ampia rappresentanza in Parlamento e di tanto in tanto anche al governo. Quindi, definirlo un gruppo terroristico è superficiale dal punto di vista culturale e politicamente è del tutto improduttivo».
Le parole di Salvini mettono a rischio la missione Unifil e i nostri soldati? Ha ragione il ministro della Difesa?
«Ha ragione il Ministro della Difesa a prendere le distanze da questa considerazione, anche perché a differenza di Salvini, parla con cognizione di causa.
Ma la cosa che mi colpisce di più è che Netanyahu ha coinvolto impropriamente Salvini in una manifestazione di propaganda.
Questa manifestazione aveva come scopo esercitare una pressione critica verso il modo in cui Unifl svolge il proprio ruolo. Tant’è che dopo questa parata propagandistica Netanyahu ha detto a Salvini che i militari italiani devono combattere Hezbollah, cosa che non fa parte del mandato delle Nazioni Unite. Quello che trovo inaccettabile per un Ministro della Repubblica Italiana, che dice "Prima gli italiani" è il non rendersi conto di andare ad una manifestazione contro i militari italiani. Mi sembra un dovere elementare, per uno che va al confine tra Israele e Libano che da dodici anni è presidiato dalle forze armate italiane, informarsi con loro di cosa pensano della situazione di quel confine anziché andare a fare il portavoce della posizione di Netanyahu».
C’era lei alla Farnesina quando fu decisa la missione
internazionale. Il bilancio?
«D’intesa con la Ue e gli Usa, quando scoppiò nell’estate del 2006 il conflitto tra Israele e Libano causato da una una provocazione militare di Helzbollah seguita da una reazione molto pesante, l’Italia prese l’iniziativa per cercare di promuovere la pace in quella regione. Questo fu uno dei maggiori successi politici dell’Italia, che per la prima volta ha avuto il comando di una missione internazionale di questo rilievo dal dopoguerra».
Oggi Salvini si è detto favorevole a Gerusalemme capitale, come Trump e Orban.
« Gerusalemme è una città in parte occupata da Israele e le Nazioni Unite e l’Unione europea chiedono a Israele di ritrarsi dai territori occupati con la guerra del ’67 e questo vuol dire anche da una parte di Gerusalemme. Quindi, l’annessione di Gerusalemme da parte di Israele è atto contrario al diritto internazionale, fortemente lesivo della sensibilità dell’intero mondo arabo. Non credo ragionevole che l’Italia si unisca al riconoscimento di questa annessione».
All’epoca destò scalpore la sua foto a Beirut con un
esponente di Hezbollah.
Rifarebbe quella passeggiata?
«Quella fotografia fu scattata il giorno in cui il conflitto cessò.
Nelle due ore precedenti alla fine del conflitto ci fu un bombardamento nel quartiere sciita di Beirut e quando io arrivai, accolto dal Ministro degli esteri del governo libanese, con il quale noi negoziavamo la tregua, andai a visitare i quartieri colpiti dai bombardamenti. Chi si impegna per la pace deve essere vicino alle vittime della guerra.
Essendo noi i mediatori per la pace era impensabile non avere un rapporto con le autorità di governo di quel Paese democraticamente elette dai cittadini. La visita ad un quartiere bombardato dove le persone cercano tra le macerie i propri cari è difficilmente definibile "passeggiata" e spero che non debba più ricapitarmi».
Haaretz scrive che Israele di Netanyahu è diventato una fabbrica di certificati di perdono per i nazionalisti di tutto il mondo.
«Colpisce molto che l’attuale leadership israeliana sia diventata il punto di riferimento di tutta la destra del mondo che, peraltro, credo sia qualcosa che non appartenga alla tradizione di Israele. Io penso che anche l’esasperazione delle tensioni in cui si impegna Netanyahu ha un’altra ragione: distogliere l’opinione pubblica israeliana dagli scandali, dalle accuse di corruzione che sono state rivolte contro di lui, non dai terroristi islamici ma dalla polizia del suo paese. A maggior ragione sarei cauto nell’andare a spalleggiarlo perché in questo momento si tratta di un governo che è particolarmente in discussione col suo paese».

Il Fatto 13.12.18
Gli orfani di Matteo e la nuova Cosa: Renzi en marche
di Silvia Truzzi


Non sono più i suoi, Renzi li ha mollati. La sceneggiatura di quello psicodramma altrimenti noto come Partito democratico si arricchisce tutti i giorni di dettagli comici. Mentre i renziani in cerca d’autore mostrano imbarazzanti segni della sindrome da abbandono (l’immagine più emblematica, Giachetti e Ascani sul divano), l’ex segretario è alle prese con una discesa in campo all’incontrario – prima la politica, poi la tv – e si prepara al grande appuntamento mediatico: il suo documentario artistico che andrà in onda sabato su Discovery, dopo una sceneggiata su Scherzi a parte, più finta di una banconota del Monopoli. Siccome non c’è distinzione tra i due piani, la letterina settimanale che normalmente contiene i pensierini della sera sulla situazione politica, va benissimo per lanciare il “progetto televisivo”. Renzi in purezza: “Ci ho messo il cuore e credo che in tempi di barbarie sia un dovere civile parlare di bellezza” (Salvini). “E parleremo di tutto: della Madonna del Cardellino, della mafia ai Georgofili” (Berlusconi?). Del “Michelangelo giovane e di quello vecchio, della congiura dei Pazzi” (Pd?). “Ma a un certo punto, dalla meravigliosa San Miniato, parleremo anche di Farinata degli Uberti, che insegna a tutti l’orgoglio e la nobiltà di parlare a viso aperto” (l’argomento preferito di Renzi: Matteo Renzi). E siccome il senso del limite (o del ridicolo?) è merce rara, il paragone con il personaggio a cui Dante rende omaggio nella Commedia è servito: “Io ho molti difetti e limiti, come tutti e più di tutti. Ma certo non mi si può dire che non ami parlare a viso aperto”. Certo qualche errore, visti gli slavaccioni elettorali presi in serie, bisogna pur ammetterlo. Ma sempre nella modalità di quelli che alla domanda “qual è il tuo peggior difetto?”, rispondono: “Essere troppo buono”. E dunque: “Il mio errore più grande è stato non ribaltare il partito. Non entrarci con il lanciafiamme come ci eravamo detti”. Cattivoni. “In alcuni casi il Pd ha funzionato, in altre zone è rimasto un partito di correnti. Ritengo che le correnti siano il male del partito. E ho sempre spiegato che non mi sarei mai prestato a fare la mia corrente. Sono stato, sono e rimango di parola: le correnti avevano un senso nel partito novecentesco, non oggi. E le correnti nel Pd sono state la causa di un rinnovamento meno forte di ciò che sarebbe servito. Quando i giornali scrivono ‘la corrente dei renziani’ mentono sapendo di mentire”.
A breve, dopo il documentario, Renzi farà una web tv per combattere le fake news, pubblicherà un libro (manca solo un chiringuito sulla spiaggia) e tra un impegno e l’altro probabilmente lancerà il suo partito, la nuova Cosa. Gli scudieri prescelti sono i non ingombranti Scalfarotto e Gozi, già impegnati nella fondazione dei comitati civici (una supercazzola che nessuno ha capito a cosa servano). Tutti gli altri, eccetto forse la zarina riformatrice Boschi, #stannosereni: oltre al duo del divano, Andrea Marcucci, Alessia Morani, Emanuele Fiano, Simona Malpezzi, Gianluigi Marattin, Stefano Ceccanti, Andrea Romano e Lorenzo Guerini delegato a trattare con Martina (con questi non vinceremo mai, 2.0). Viste le premesse, il congresso di marzo si annuncia come una gigantesca liquidazione fallimentare. Senza Renzi, che per l’epoca si sarà già sfilato per godersi lo spettacolo degli ex amici che si scannano per quella manciata di voti che restano alla sedicente sinistra. La gioiosa macchina da guerra di Matteo R. è en marche. Con la felpa sotto il gilet giallo, Salvini ringrazia.

il manifesto 13.12.18
«Papiro di Artemidoro». Un falso geniale che interroga il presente
Querelle storiche . Luciano Canfora ribadisce i motivi per cui ha sempre ritenuto fosse una truffa. La Procura di Torino conferma. «La datazione degli inchiostri è solo l’ultimo tassello di un quadro già chiarissimo. Le parole che vi figurano non sono presenti in alcun dizionario»
di Valentina Porcheddu


A breve distanza dalla polemica con il ministro degli interni Matteo Salvini concernente l’operazione contro la mafia nigeriana e a pochi giorni dal suo pensionamento, il procuratore di Torino Armando Spataro torna all’onore delle cronache. Ma questa volta nessun tweet potrà inficiare l’esito dell’inchiesta. Ad essere coinvolto, infatti, è il «reperto» noto come Papiro di Artemidoro, ritenuto falso dalla magistratura.
NEL 2004, il documento – presentato come il II libro dei perduti Geographoumena di Artemidoro di Efeso (II-I secolo a.C.) – venne venduto alla Fondazione per l’arte della Compagnia di San Paolo da Serop Simonian, gallerista di origine armena trapiantato ad Amburgo. L’esorbitante cifra di 2 milioni e 750 mila euro sborsata dalla Fondazione è la più alta mai raggiunta al mondo per l’acquisto di un papiro.
Malgrado il reato di truffa sia andato in prescrizione, la «sentenza» della Procura di Torino mette fine alla querelle tra i difensori dell’antichità dell’oggetto (in particolare Claudio Gallazzi, Bärbel Kramer e Salvatore Settis) e Luciano Canfora, che nel 2013 presentò un esposto e per il quale il papiro sarebbe l’opera di Constantinos Simonidis, falsario del XIX secolo formatosi tra le pergamene del Monte Athos, dove suo zio era igumeno. La prova fondamentale per l’archiviazione delle indagini è stato il risultato di una perizia disposta di recente dal Ministero dei Beni Culturali sugli inchiostri utilizzati per tracciare il papiro, che risultano di epoca moderna. Gli esami chimici, richiesti a suo tempo da Canfora, avrebbero potuto dissolvere fin da subito i dubbi sull’autenticità di un papiro lungo due metri e mezzo e composto da frammenti eterogenei, in cui a un bizzarro parallelo tra geografia e filosofia si aggiungono disegni di parti anatomiche e animali fantastici.
«LA DATAZIONE degli inchiostri è solo l’ultimo tassello di un quadro già chiarissimo», dice Canfora al Manifesto. «A mio avviso le analisi storiche, geografiche e linguistiche del papiro – continua l’autore de La meravigliosa storia del falso Artemidoro (Sellerio 2011) – hanno un valore decisamente più importante. Per fare solo un esempio, l’ultima edizione del prestigioso dizionario dal greco all’inglese Liddell & Scott non contiene nessuna delle parole che figurano per la prima volta nel cosiddetto papiro di Artemidoro. Questi lemmi assurdi non compaiono neanche nella versione più aggiornata del vocabolario greco-italiano edito dalla Lœscher, seppur il testo del presunto Artemidoro venga citato fra le fonti del volume». Per quanto riguarda i disegni visibili nel recto del papiro, Canfora è convinto siano stati realizzati ad hoc da Simonidis, che nel monastero del Monte Athos aveva potuto copiare uno di quei manuali di disegno in voga tra Seicento e Settecento. «Nel verso – spiega Canfora – c’è invece una serie di animali divisi per categorie e sotto alcuni si trova una didascalia redatta in un greco strampalato. Questa parte ‘animalesca’ non ha senso, se non ipotizzando che il falsario abbia voluto dimostrare con essa l’unità di un papiro composto di varie parti».
LE VELLEITÀ della Compagnia di San Paolo di possedere un oggetto unico – il geografo Artemidoro di Efeso è conosciuto soltanto attraverso fonti indirette – da esporre al Museo Egizio ha dunque prevalso sul rigore filologico e i tanti indizi, fra cui vanno annoverate le sospette autorizzazioni ad esportare il documento dall’Egitto nel 1971 e più di trent’anni dopo dalla Germania, che avrebbero dovuto indurre alla massima cautela gli acquirenti.
Tuttavia, l’allora direttrice del Museo Egizio Eleni Vassilika rifiutò di ricevere il «reperto» in comodato d’uso gratuito in quanto nella sua esperienza di lavoro al Roemer and Pelizaeus Museum di Hildesheim si era già confrontata con lo spaccio di falsi praticato dal mercante d’arte Serop Simonian. Il contestato oggetto venne ugualmente celebrato a Torino con la mostra Le tre vite del papiro di Artemidoro tenutasi nel 2006 a Palazzo Bricherasio a cura di Settis e Gallazzi, seguita da una successiva rassegna presso la sezione di egittologia del Neues Museum di Berlino.
Dal 2014, invece, il papiro è esposto al Museo di Antichità del capoluogo piemontese, dove si spera potrà tornare, dopo il temporaneo trasferimento all’Istituto Centrale per il Restauro, quale testimonianza eccellente dell’archeologia dell’illusione. Sarebbe infatti un peccato non approfittare di questa clamorosa vicenda per raccontare come ancora oggi la fascinazione per il mondo antico e l’immaginario che ne deriva, sviino talvolta sulla pericolosa strada del potere e del denaro, tradendo il valore della cultura. Il geniale Simonidis e l’astuto Simonian si sono fatti beffa di ciechi (o forse azzardati) amanti dell’arte. A noi spetta ora tramandare la verità storica.

Corriere 13.12.18
Rachmaninov e il selvaggio bis del russo Feodor
di Enrico Girardi

Se è vero che il lavoro di un direttore musicale non si valuta sulla singola prestazione ma sul medio-lungo periodo, ovvero sull’identità musicale della formazione che dirige, occorre valutare nei termini più lusinghieri l’identità che Claus Peter Flor sta imprimendo su laVerdi. In poco più di un anno — anche se l’ufficialità dell’incarico risale a gennaio 2018 — l’orchestra milanese sembra aver infatti acquisito la solidità, il peso e la compattezza di cui aveva bisogno. E un programmone come quello Liszt-Rachmaninov-Musorgskij (Les Préludes, Concerto per pianoforte n.2 e Quadri di una esposizione), eseguito in questi giorni di fronte a una platea gremita, lo dimostra. Si può evitare di sovrastare di suono il giovane pianista ospite, ma la musica arriva tosta, viva. Il suono poggia su fondamenti abbastanza solidi da reggere il peso delle architetture di Musorgskij e Liszt, che tutto sono fuorché leggere. I numerosi interventi solistici dell’orchestrazione di Ravel dei Quadri vantano carattere. In certi casi, sicura personalità.
Un capitolo a sé merita invece la prova del solista Feodor Amirov. Con quel volto da russo d’Oriente, quella barba nera e quei capelli a mezza schiena sembra lui, Attila, o una sua reincarnazione. Selvaggio peraltro è un suo bis in forma di improvvisazione in cui canta, suona, colpisce la cordiera, usa ogni parte dello strumento come percussione, ne sbatte anche il coperchio. Ma dietro questo look da Unno, c’è un Rachmaninov più poetico e cantato che virtuoso e la ricerca di un suono godibile sì, ma esile esile…

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