il manifesto 12.12.18
Per un Marx al presente
Comunismi. C’è
da chiedersi quanto, perfino nelle meno odiose tra le società
occidentali, non siano stati visti i bisogni operai in crescita
intellettuale e morale rispetto ai loro bisogni materiali, affidati
essenzialmente alla distribuzione
di Rossana Rossanda
Non
credo che, nell’interessante rassegna degli studi su Marx apparsa sul
manifesto, si possa rimproverare alla ricerca svolta da Marcello Musto
un eccesso di attenzione per le peripezie della coppia Marx-Jenny von
Westhfalen. Non so se esse siano fin troppo note, ma sono quelle che
danno a questa ricerca un carattere di molto più vicino umanamente e di
comprensibile anche per lo sviluppo scientifico del pensatore di
Treviri.
Se mai riterrei utile approfondire una ricerca sul
presente. Considerato che Marx non ha mai rinunciato a ritenere la
classe operaia industriale delle fabbriche come il soggetto
«rivoluzionario» per eccellenza, sarebbe utile capire su quale strato o
gruppo sociale sia passato questo protagonismo in una fase in cui
l’industria è nettamente in calo.
Non sembra che si possa
attribuire questo compito al crescente precariato giovanile. Né mi
sembra decisivo il passaggio al lavoro di servizio alla persona da parte
della maggior quantità di donne, tantomeno per il lavoro di cura su cui
si è soffermata Alisa Del Re, ma che interessa gran parte del
femminismo italiano. Non è semplice considerarlo lavoro produttivo di
merci che si possono scambiare, alimentando la accumulazione
capitalistica: in generale si tratta di «competenze» soprattutto di
carattere affettivo o relazionale e di vendita del proprio «tempo
disponibile».
Ne deriva una trasformazione permanente della figura
del lavoro, specie femminile, ma non mi pare del meccanismo di
produzione di merce vendibile, a meno che non si tratti di grandissimi
aggregati di servizi direttamente o indirettamente alla persona, come si
possono individuare ancora nella fenomenologia cinese o in certe
produzioni, specialmente di carattere medico, americane o tedesche.
Altrettanto
interessante mi sembra il discorso che ne deriva per le società
dell’Est, soprattutto per quanto riguarda la libertà: in generale
sembrerebbe di poter raccogliere attorno a quella fenomenologia la
natura di società particolarmente chiuse e autoritarie; perfino la
definizione di stato sempre intollerabile, propria di Bakunin, sembra
potersi attribuire specialmente alle società dell’Est, più odiose
addirittura delle nostre.
Di qui anche l’errore compiuto dai vari
«marxismi-leninismi» di considerare come obiettivo principale unico la
distribuzione di beni soprattutto materiali ai lavoratori, obiettivo
fatto proprio anche dalla maggior parte dei partiti comunisti.
L’avere
privilegiato esclusivamente i beni materiali di consumo – che appare
tuttora la scelta della Repubblica popolare cinese – è stata rilevata
anche dal lavoro di Ernesto Screpanti per la manifestolibri, ed è al
centro della ricerca di Rita Di Leo (L’età della moneta), trascurando
(non a caso) la trasformazione dei rapporti fra uomini invece che fra
cose, che ha caratterizzato anche il modello sovietico e ora sembra
caratterizzare quello cinese.
Nella ricerca di Musto è
interessante il rilievo dato al «plusvalore», cioè all’appropriazione da
parte del padronato del tempo rubato gratuitamente agli operai,
trascurando i loro bisogni di acculturazione e in genere di libertà nei
rapporti sociali. C’è da chiedersi quanto, perfino nelle meno odiose tra
le società occidentali, non siano stati visti i bisogni operai in
crescita intellettuale e morale rispetto ai loro bisogni materiali,
affidati essenzialmente alla distribuzione. Ne deriva l’ignoranza dei
motivi ricorrenti di crisi nelle società dell’Est, mentre Marx riconduce
esplicitamente ad una idea della «classe» come composta essenzialmente
da individui necessariamente diversi l’uno dall’altro. Questo filone di
ricerca mi sembra urgente.