Il Fatto 7.12.18
La sinistra implode: dove andranno i suoi 6 milioni di elettori?
di Antonio Padellaro
Non
gioco più me ne vado, cantava Mina: potrebbe essere la canzone del
cupio dissolvi Pd, di cui Marco Minniti è l’ultimo esempio. Soltanto
diciotto giorni in corsa per la segreteria e, d’un tratto, non gioco più
davvero. “Per salvare il partito”, sostiene, “un gesto d’amore per
consegnare una leadership forte e determinata alle primarie”. Che, però,
difficilmente sarebbe potuta essere la sua, come da sondaggi che lo
vedevano di poco sopra il 30%, e di poco sotto Nicola Zingaretti
(Minniti non sembra tipo da secondo posto).
Insieme all’ex
ministro degli Interni, dalle parti del Nazareno sono in tanti a non
giocare più. Due ex premier. Enrico Letta, esiliatosi a Parigi dopo
l’estromissione da Palazzo Chigi (stai sereno un corno). Paolo
Gentiloni, in modalità stand by e segreteria telefonica (lasciate un
messaggio, sarete richiamati se mi gira). Senza contare uno storico ex
segretario: Walter Veltroni, le cui improvvise dimissioni, nel 2009,
restano tuttora un mistero doloroso (la sconfitta del partito in
Sardegna? Via non facciamo ridere). E un padre fondatore: Romano Prodi,
che alla parola Pd oggi ammutolisce. Non gioca più Gianni Cuperlo,
autorevole coscienza critica (e autocritica) di cui si sono perse le
tracce. Per non parlare di Pippo Civati e dei tanti che se ne andarono
senza toccare palla.
Infine: Matteo Renzi. Se fossero vere le
indiscrezioni che lo vogliono presto fuori dal Pd, alla testa di un
movimento della “società civile” (non mi dire), verrebbe da chiedersi se
il travolgente leader del 41%, oggi al culmine della discesa, non abbia
deciso di autorottamarsi. Se anche portasse via, e non è detto, il 10%
di quel 16% e rotti attualmente attribuito ai Democratici avrebbe
soltanto certificato la sua irrilevanza politica. Riuscendo a
distruggere definitivamente il Pd, che forse è la sua vendetta (La vita è
un letto sfatto, io prendo quel che trovo e lascio quel che prendo
dietro me: sempre Mina).
Al di là dei destini personali, la
domanda riguarda le ragioni profonde dell’implosione caratteriale di un
partito capace di fare più opposizione a se stesso che al governo.
Matteo
Renzi regnante, fu proprio Cuperlo ad ammettere che se anche “troppe
brave persone, troppe passioni e competenze, troppi voti” avevano
abbandonato il partito, “perché incompatibili con tono, vocabolario,
rudezza del Capo”, non vedeva un nesso decisivo tra “l’origine del
nostro scontento e un corpo estraneo a noi”. Una progressiva fiacchezza,
dunque, non imputabile soltanto alle reciproche insofferenze interne, o
alla “generale manifestazione di sfiducia, che si è saldata con l’onda
nazionalpopulista di cui abbiamo sottovalutato le dimensioni”
(Gentiloni). Siamo probabilmente all’esaurimento di una spinta
propulsiva che la sinistra italiana ha già conosciuto in passato (Pci).
Capace però di rinascere dalle proprie ceneri (dal Pds ai Ds al Pd). Con
due differenze. La continuità delle classi dirigenti che hanno tenuto
in piedi la Ditta attraverso l’esercizio del potere, e qualche lifting. E
il voto di chi si turava il naso, magari per non darla vinta a Silvio
Berlusconi.
Adesso allo squagliamento dei vertici potrebbe seguire
quello della base. Tra protagonismi e ripicche, di quei sei milioni di
voti che il 4 marzo, malgrado tutto, diedero una chance al Pd, se ne
occupa qualcuno?